A partire dagli effetti di senso
Le trasformazioni sotto l'apparire
Francesco Marsciani
Università di Bologna
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Mots-clés : effet de sens, forme, glossématique, image, phénoménologie, sémiotique générative, substance
Auteurs cités : Algirdas J. GREIMAS, Louis HJELMSLEV, Edmund HUSSERL, Maurice MERLEAU-PONTY
Intendo dirlo con la sincerità un po' ingenua dell'alunno che sono stato, con l'atteggiamento aperto del discepolo: la lettura con cui ho sempre tenuto a cuore l'apprendimento delle tesi di Greimas e le riflessioni sul suo lavoro, oltre ai vantaggi e alle indicazioni che ne ho tratto per il mio lavoro successivo, si è sempre centrata e regolata, come credo sia stato il caso per molti giovani studenti di semiotica a quell'epoca, intorno ad un testo breve, semplice e inaugurale, straordinariamente denso e pur tuttavia limpido e terso come un'intuizione felice e risolutiva: si tratta dell'articolo che funge da introduzione al volume Du sens (1970), quelle pagine che portano anch'esse il titolo “Du sens” e che si aprono con le famose parole “è estremamente difficile parlare del senso e dire su di esso qualcosa di sensato”. Ho letto da studente e poi da collaboratore (se posso degnarmi di considerarmi tale con riferimento ad un periodo purtroppo breve e terminale della vita attiva di Greimas) tutto il suo lavoro — risalendo a ritroso alle ricerche del linguista e lessicologo presemiotico e seguendolo fino agli ultimi esiti legati alle rivalutazioni della dimensione sensibile della significazione — illuminato in un certo senso da quel faro, sotto la luce di quel saggio, sorretto da ciò che mi pareva di avere compreso in quelle pagine anche nei momenti in cui il confronto con il pensiero del maestro mi pareva più difficile e lo svolgersi delle sue idee meno lineare, più avventuroso e talvolta pericolosamente proteso verso una dimensione di radicalità teorica impressionante.
“È estremamente difficile parlare del senso e dire su di esso qualcosa di sensato”: me ne rendevo conto e mi sembrava di essere del tutto d'accordo perché tutta la filosofia e la semiotica da cui provenivo mi avevano indicato proprio quella difficoltà come centrale e dominante, ma ciò che mi affascinava era il corto-circuito che si lasciava percepire e assaporare giocato sul termine “senso”, come se Greimas si fosse deciso a disvelare la dimensione paradossale di un terreno su cui il pensiero e l'epistemologia novecentesche avevano praticato tutto il gioco delle ipotesi e delle confutazioni, delle costruzioni concettuali e delle decostruzioni, delle fondazioni e dei ribaltamenti. Il senso come terreno paradossale e al tempo stesso come terreno unico, il solo, necessario e felice nella sua produttività, per l'esercizio di una ragione semiotica finalmente liberata, autoconsapevole e responsabile, una ragione semiotica dotata di una potenza teorica ben fondata e proiettata su un impegno disciplinare da compiere, su una vocazione scientifica e descrittiva da proporre all'insieme delle scienze sociali, su un modello rinnovato di razionalità da costruire.
“Parlare del senso e dire su di esso qualcosa di sensato”… tra le pieghe di questa formulazione si intravede una divaricazione tra un soggetto e un oggetto dell'enunciazione del tutto identici, apparentemente, e nello stesso tempo separati e distinti da quella che doveva apparire e poi essere gestita come una funzione essenziale, irrinunciabile, resa possibile da una distanza costitutiva, quella che Greimas chiamava proprio in quel testo “funzione metalinguistica”. Il senso è semplicemente e immediatamente senso, nient'altro che senso, il senso è dato, in esso il discorso è da sempre immerso, poiché il discorso non è altro che senso articolato, ma quel senso, che è uno, è al contempo e distintamente senso che dice e senso detto, senso che dice il senso e senso detto, parlato, espresso, dal senso che dice. Le proposizioni che Greimas svolgeva in “Du sens” avevano per effetto la messa in circolazione dei poli di una relazione intima ed essenziale tra condizioni della significazione, e questo già nella prefigurazione di una teoria che andava prendendo forma e che avrebbe da quel momento occupato tutto lo spazio che le sarebbe stato necessario, secondo quell'organizzazione di livelli che conosciamo come la forma generativa dell'immanenza semiotica. Il senso non è altro che senso, in ogni occasione e in ogni occorrenza, eppure non è mai lo stesso senso che si realizza di volta in volta, poiché il senso non si lascia cogliere altrimenti che attraverso le sue trasformazioni, le parafrasi che la discorsività produce, le trasposizioni che ogni approccio, ogni ripresa, ogni sguardo sul senso rinnova e alimenta.
Attraverso la messa a fuoco del luogo stesso del paradosso Greimas rendeva esplicito ed evidente un approdo di molte esperienze convergenti e tutte giunte ad un punto fermo del loro percorso. Un tale punto fermo aveva un nome e Greimas non ha fatto altro che riprenderlo e farne il titolo di un programma, poiché il nome di quel punto di arrivo per una intera schiera di tradizioni del XX° secolo non era altro che il senso, il senso come problema, il senso come scoperta e il senso come dimensione. Su questa soglia, che era stata davvero una soglia terminale, erano giunte come ad un appuntamento collettivo o ad un raduno, la fenomenologia, la filosofia del linguaggio, il formalismo logico e quello strutturale, la stessa linguistica, quella che Greimas aveva coltivato in proprio e di cui era specialista. Le scienze umane, a loro volta, si andavano riconoscendo come discipline del senso, implicate con la significazione fin nel loro statuto costitutivo. Il volume Du sens e la sua introduzione espongono come in un manifesto l'oggetto di una ricerca da promuovere, quasi il luogo autentico di una rivoluzione da compiere nel campo del sapere.
Così la semiotica si vedeva collocata all'incrocio di tendenze diverse tra loro ma non estranee e il programma di lavoro trovava nell'articolo di cui stiamo parlando sia una giustificazione esplicita sia una indicazione per la strada da imboccare. Si menzionano i limiti dei progetti logicisti, tutti volti alla costruzione di linguaggi formali nell'illusione che linguaggi epurati dalla significatività propria di ogni linguaggio possano mai essere costruiti, come se il senso potesse essere evacuato dalle espressioni simboliche della logica formale; si menzionano i limiti opposti delle procedure descrittive in presa diretta con il senso dato, secondo una versione fenomenologica del discorso critico e una versione letteraria delle riformulazioni che coinvolgono la soggettività; si menzionano le facili e false scorciatoie di una concettualizzazione aprioristica delle teorie e dei modelli; soprattutto si mette l'accento sul fatto che lo spazio per una teorizzazione e un'analisi della significazione non può essere pensato come fuori dal senso, né sopra né sotto né altrove, bensì può collocarsi soltanto tra le pieghe del suo manifestarsi, in quel nesso tra dire e detto che sostiene la funzione metalinguistica generalizzata (quel metalinguaggio che è la nostra pratica discorsiva quotidiana) e che rende conto della struttura fondamentale del prodursi della significazione, in quel nesso costitutivo rappresentato dalla reciproca presupposizione tra dimensione sistemica e dimensione processuale.
Sono soprattutto due le linee di sviluppo alle quali la semiotica che si va affacciando sulle orme della Sémantique structurale intende rispondere: una tradizione fenomenologica, husserliana e merleau-pontyana, e una linguistica strutturale, saussuriana e hjelmsleviana, dovendo tuttavia elaborare una posizione adatta per questa convergenza, una dimensione già sperimentata a suo modo, è vero, e praticata dall'antropologia sociale di Lévi-Strauss. In entrambi i casi, di fronte alla fenomenologia da un lato e di fronte alla linguistica strutturale dall'altro, occorrerà fare i conti con le spinte formalizzanti e tentare di dare all'istanza formale, alla nozione stessa di “forma”, il giusto posto e il giusto ruolo nella teoria. Nel saggio “Du sens” Greimas sembra voler lavorare soprattutto sulla nozione di forma e tentare di restituirne una versione propriamente semiotica, vale a dire adeguata al paradosso di un senso che intende dire qualcosa di sensato sul senso.
La forma semiotica non è altro che senso trasformato, il luogo del rifare senso, linguaggio che espone le condizioni del linguaggio, che dispiega esprimendole le topologie di cui c'è bisogno per giustificare gli effetti di significazione. La forma semiotica è l'esito delle trasformazioni, una volta che ci si collochi in una dimensione soggiacente e dalla quale poter valutare la trasformazione come una dinamica di mediazione, come un “tra”, come una vera metamorfosi che si verifica e manifesta in superficie, sulla superficie in cui si colloca e si coglie il dato empirico. Si nega pertanto un'idea di forma separata dal divenire delle trasformazioni del senso, una forma costruita a priori sulla base di assunti extra-semiotici, sulla base di assetti logici o assiomi appoggiati a una qualche metafisica del logos, applicabile all'oggetto senso come dal di fuori. Non credo che si sia a tutt'oggi colta in tutta la sua importanza e in tutte le sue conseguenze una scelta così radicalmente immanentista, così tanto strutturale in senso proprio, così tanto radicale.
La semiotica che andava nascendo e soprattutto che andava assumendo la forma generativa che Greimas ha voluto darle, si trovava ad occupare un posto di convergenza, abbiamo detto, tra due esiti soprattutto, due esiti che manifestavano i due approdi ultimativi di due prospettive condotte fino al loro limite estremo, portate sul confine del terreno che si erano date:
1) la fenomenologia di Husserl aveva incontrato l'inconsistenza della dimensione individuale, egoica, della coscienza nel momento di massimo avvicinamento alle strutture trascendentali della donazione di senso, in quel luogo, alla fine della V° Meditazione cartesiana e poi ancora ne La crisi delle scienze europee, in cui scopre che la soggettività trascendentale non può darsi altrimenti che nella forma di una intersoggettività costitutiva. La conseguenza più immediata è la perdita di validità dell'autointuizione come modalità profonda dell'indagine riflessiva. Non è più pensabile lavorare sull'analisi delle forme proprie della coscienza, bensì la “scienza rigorosa” della possibilità dei fenomeni non può prescindere da una ricostruzione sistematica delle relazioni tra poli della costituzione, tra punti di vista, posizioni e, come dirà Husserl stesso, sistemi di incompossibilità.
Possiamo dire che questa è la forma con cui il Senso si presenta in fondo alla strada della fenomenologia (basti pensare al Merleau-Ponty di Signes).
2) la glossematica hjelmsleviana aveva incontrato un'impossibilità di fatto, quella di perseguire quel voto di simmetria tra i piani fondamentale per tutta la prospettiva formale su cui l'intero progetto era stato pensato, e questo perché l'analisi del piano del contenuto delle lingue naturali non si presta a risultati esaustivi per quanto riguarda le componenti ultime, le figure minimali: non ci sono archivi in numero limitato di figure del contenuto. Al di là della mossa di Hjelmslev, legittima in sé, di decidere ogni volta di fare “come se” una figura del contenuto non avesse un corrispettivo sul piano dell'espressione, non costituisse insomma da subito un segno a sua volta, è evidente come una tale operazione si rende possibile solo a patto di delimitare quelli che verranno chiamati “universi di senso specifici” o “microuniversi di senso”. La relazione semiotica tra il piano dell'espressione e il piano del contenuto si presenta così come una produzione costante di presupposizione reciproca, come una correlazione instabile che di volta in volta il Senso realizza nelle sostanze che informa, grazie al sistema di relazioni che ogni processo testuale getta come una rete sulle formazioni segniche. Ma questo è il contrario del rapporto di denotazione e tutta l'analisi semiotica (e la lingua naturale non fa eccezione, dal punto di vista semiotico) si vede inevitabilmente proiettata sulla forma come articolazione possibile delle determinazioni di Senso, o meglio come produzione delle possibili articolazioni che mettono il Senso nelle condizioni di significare. Possiamo dire, ancora, che questa è la forma con cui il Senso irrompe all'interno della linguistica strutturale nella sua versione più formalizzata.
La semiotica di Greimas è la risposta a tutto questo poiché si mette in relazione diretta ed esplicita con entrambe le tradizioni, ma al tempo stesso ne marca la distanza, assumendo le difficoltà di ciascuna come l'occasione per un avanzamento fondamentale: è il Senso che dice il senso, che riflette sul senso, che mette in forma il senso e che ne ricostruisce le condizioni formali di possibilità.
Una simile decisione ha un portato epistemologico notevole: si tratta di attraversare con decisione le pastoie fondazionaliste che inevitabilmente assumono l'uno o l'altro dei due punti di vista opposti per dare un fondamento al nostro sapere, ovvero 1) quello di una fondazione empirica delle validità delle tesi e delle affermazioni scientifiche, misurando la verità degli asserti sulla corrispondenza rappresentazionale tra linguaggio e mondo dell'esperienza, o 2) quello dell'affidamento della validità delle proposizioni scientifiche sulla bontà e correttezza deduttivista delle formule metalinguistiche, basate essenzialmente su teorie aprioristiche (logico-deduttive) del buon ragionamento. Il Senso non corrisponde né all'una né all'altra di queste condizioni. La semiotica che finalmente si va delineando non si mette più in gioco sul piano del discorso veritiero, della “spiegazione scientifica” in senso tradizionale, non intende più spiegare i fenomeni, né il loro essere prodotti secondo determinate leggi, né tantomeno la natura della loro esistenza. La semiotica che Greimas intravede all'epoca di Du Sens è una pratica “a vocazione scientifica” di dispiegamento delle condizioni di possibilità del valore dei fenomeni, del loro avere senso, non del loro essere quello che sono, non del loro darsi, bensì del loro significare. O si comprende questo passaggio, compiuto sulla base degli esiti della fenomenologia matura (l'ultimo Husserl e il secondo Merleau-Ponty) e della linguistica strutturale nella sua forma più avanzata (la glossematica di Hjelmslev), o non si coglie lo straordinario valore innovativo di una presa di posizione che è un programma di ricerca per intero, che è un vero e proprio capovolgimento della prospettiva, senza terreno esterno da cui osservare o prendere la parola, senza garanzie intuizioniste, senza evidenze cui fare affidamento, ma tutto allestito all'interno dell'unica condizione apparentemente ineliminabile, l'unica dimensione senza Dio al disopra e senza Natura al di sotto, l'unica scientificità che si possa concepire come pratica di conoscenza, come divenire storico e al tempo stesso trascendentale di ogni discorso che prenda l'universo del discorso come proprio oggetto: la dimensione della trasformazione, del Senso come trasformazione del senso dato.
In fondo, l'opzione era priva di alternative. Si trattava dell'unico tentativo serio non solo di dare una risposta alle impasse di una scientificità formalizzante e oggettivistica allo stesso tempo, ma di provare ad allestire uno spazio di praticabilità per il suo superamento, per produrre un avanzamento. Come fare scienza del senso (dire sul senso qualcosa di sensato …) senza inseguire le spiegazioni dei fenomeni dell'esperienza assunti come oggetti “dati”, da un lato, e senza procedere a deduzioni materiali, a costruzioni arbitrarie di formule descrittive, disimplicate rispetto al discorso di cui dovrebbero essere la rappresentazione, dall'altro? In questa forbice si risolveva il fatto stesso di una stagnazione, e infatti cominciavano ad essere ben visibili all'orizzonte i riflussi da varia natura, le rinunce per lo più, o anche i ritorni alle istanze di una scientificità protocollare, tutta giocata tra l'accettazione di un piano oggettuale naturale (e per questo rinaturalizzato di fatto) e di una produzione logicista di modelli a profusione, di tipologie, di “teorie” dei funzionamenti causali.
Fare scienza del senso in un modo nuovo, diciamo adeguato alla scoperta della dimensione del senso come terreno paradossale e riflessione di produzione significante, richiedeva l'apertura di un campo di produzione di possibilità, un campo dove potesse esercitarsi una vera sospensione di giudizio (ispirazione fenomenologica) rispetto all'oggettività dei segni e al contempo dove potesse svolgersi una catena di articolazioni sempre più fini e dettagliate di spazi qualitativi, di differenzialità (ispirazione strutturale).
Credo che fosse questa l'intuizione essenziale che guidava Greimas nel suo lavoro di costruzione del Percorso Generativo e che possa valere la pena ancora oggi fare di esso una lettura che tenga conto di questa ispirazione, salvaguardandone l'enorme valore scientifico, l'enorme capacità di controllo sul fare descrittivo e la grande capacità di messa in forma di una razionalità vivente, una razionalità tutta immersa nella sua natura più autentica, ovvero una razionalità che fa tutt'uno con il suo prodursi come significazione.
Una lettura come questa comporta alcune conseguenze:
1) il Percorso Generativo non è il percorso di generazione del contenuto o il percorso di generazione dell'espressione; è il percorso di generazione della significazione. Il contenuto e l'espressione non sono tali finché non si manifestano nelle sostanze di manifestazione, ma questo è il livello empirico del prodursi dei segni, livello rispetto al quale una semiotica di ispirazione hjelmsleviana deve necessariamente prendere le distanze. Si può dire che il Percorso Generativo a tutti i suoi livelli articoli figure, componenti subsegniche che per la semiotica equivalgono a condizioni soggiacenti rispetto alle sostanze di manifestazione.
2) la forma che il Percorso Generativo articola non è altra cosa rispetto alla sostanza. Non ci sono forme che abitino altrove rispetto alla produzione viva di senso articolato, rispetto a “senso che parla di senso”, ma la distanza metalinguistica che Greimas sottolineava crea effettivamente le condizioni affinché le sostanze-oggetto e il discorso che ne parla non coincidano, bensì entrino in reciproca funzione, in modo tale che possiamo considerare questa funzione metalinguistica come la produzione dei livelli formali necessari per render conto di come le sostanze-oggetto possano significare. All'interno delle trasformazioni del senso, tra una sostanza e un'altra, tra un effetto di senso e l'altro, la forma appare come una funzione di permanenza, di comparabilità, come un precipitato. La forma non è altro che sostanza che funge da forma per la risoluzione della significazione di un'altra sostanza.
3) i livelli del Percorso Generativo non prevedono scorciatoie. Non ci sono uscite privilegiate per economizzare sulle articolazioni né gallerie al suo interno per connettere piani distanti tra loro lungo la scala della profondità. Semplicemente una tale ipotesi non ha alcun senso: i livelli del percorso Generativo sono tutti insieme la ricostruzione teorica delle condizioni di possibilità della significazione e in quanto tali sono sempre tutti presenti come condizioni. Il fatto che una produzione testuale qualunque possa attivare o profittare in modo particolare di alcune articolazioni tra le possibili e possa quindi non sfruttare allo stesso modo tutte le forme che il Percorso prevede, non vuole affatto dire che tali forme non siano disponibili in qualunque momento per la significazione. Il Percorso Generativo, in quanto tale, non descrive questa o quella manifestazione testuale, non ha rapporto con la taglia empirica degli oggetti-segni su cui può essere proiettato, non ha nessuna ragione di “adeguarsi” alle singole sostanze che la funzione di significazione mette in forma. Esso è lo spazio topologico per la dislocazione funzionale dei linguaggi che parlano dei linguaggi, linguaggi tutti interi ad ogni istante.
4) il Percorso Generativo non genera testi, non genera manifestazioni della significazione, non genera segni, in particolare non è la rappresentazione, il modello, delle tappe di produzione della testualità empirica. Non si producono testi attraverso i passaggi, le conversioni, gli investimenti successivi, che il Percorso Generativo teorizza e ricostruisce. Il Percorso Generativo fa tutt’altro: genera dei possibili, spazi qualitativi formali che altro non sono che condizioni di significatività di un elemento di manifestazione qualunque, a patto che quell’elemento significhi, qualunque cosa esso significhi. Da questo punto di vista, il Percorso Generativo, per quel tanto che lo si voglia o lo si debba percorrere, prevede due direzioni distinte: lo si percorre in discesa (dal livello più superficiale al livello più profondo) quando si analizzano oggetti di senso, quando si procede alla giustificazione di un effetto di senso dato, al suo dispiegamento; lo si percorre in salita, nella direzione contraria, quando si seguono le linee di sviluppo delle possibilità topologiche e combinatorie che esso mette in campo, attraverso il moltiplicarsi delle connessioni formali.
Se si accetta di leggere il Percorso Generativo proposto da Greimas secondo queste linee e tenendo fermi questi confini interpretativi, allora una prima conseguenza è che abbiamo il massimo di vantaggio nel mantenere il più aperto possibile il suo spazio, ovvero nel garantire la massima ampiezza alla dimensione di cui è la rappresentazione. Non vi è nessun vantaggio nel ridurne la portata. Se il Percorso Generativo articola forme, condizioni della significazione delle sostanze, allora quante più articolazioni sapremo produrre, tante più possibilità avremo di render conto della significazione data, delle innumerevoli manifestazioni testuali che incontreremo nella concreta vita discorsiva. Si può temere che la proliferazione teorica delle articolazioni formali possa sfuggire di mano, moltiplicare i livelli e rischiare in questo modo di inseguire il molteplice empirico, ma questa è una preoccupazione priva di giustificazione, sia perché stiamo parlando di metalinguaggio e il metalinguaggio, se è metalinguaggio, non fugge da nessuna parte (il metalinguaggio non è produzione libera di forme arbitrarie, bensì è metalinguaggio di un linguaggio-oggetto e la relazione è destinata a rimanere sempre una relazione a due), sia perché il Percorso Generativo è una gerarchia di livelli su cui la direzione “astratto-concreto” o “profondo-superficiale” svolge una straordinaria funzione di controllo (la condizione di differenzialità è “prima” e non si può procedere all'infinito verso il più elementare - come insegna la fisica quantistica, la realtà è atomistica – e dall'altro lato la condizione di empiricità è ultimativa, la soglia superiore del Percorso è insormontabile, nel senso che la dimensione dell'immanenza non può in alcun modo trasbordare nella trascendenza, oltre il proprio confine).
Il piano di manifestazione non è quello dei segni, né, per essere precisi, quello dei testi. Il piano di manifestazione è quello degli effetti di senso. I segni sono astrazioni teoriche, concetti funzionali senza natura ontologica empirica, e i testi non sono dati, bensì oggetti dell’analisi, analisi che essi presuppongono e che fornisce loro precisamente la qualità di oggetti possibili, oggetti di uno sguardo scientifico. Sul piano della manifestazione si producono, si presentificano e si concatenano effetti di senso, che sono dunque il primum, il dato di partenza, la faccia del mondo. Gli effetti di senso si lasciano cogliere nella loro singolarità di fenomeni significanti, nel loro sopraggiungere particolare e determinato. Il senso, infatti, si rende disponibile attraverso i suoi effetti, effetti in cui si risolvono le sue trasformazioni e che consentono al senso stesso di essere nient’altro che trasformazione di senso dato, in una catena di effetti di senso che è fatta di derive, di slittamenti e di traduzioni costanti, entro un orizzonte di investimenti valoriali variabili e multiformi (inerenza, attenzione, intenzione, emozione, cognizione, percezione o concezione).
Ora, una teoria delle trasformazioni del senso, nella misura in cui esse si realizzano attraverso concatenazioni di effetti di senso, è una teoria dell’esperienza. Si tratta di una teoria semiotica dell’esperienza, nella misura in cui è una teoria delle possibili valorizzazioni del mondo vissuto in quanto mondo-della-vita, spazio di emergenza dei fenomeni, ovvero spazio delle valorizzazioni delle datità. Il mondo-della-vita (la Lebenswelt fenomenologica) ritrova, all’interno di un suo plausibile destino semiotico, un modo di essere riletto e reinterpretato come dimensione della significazione. Il mondo-della-vita è un mondo sensato, carico di valore, perché è il mondo su cui si stagliano gli effetti di senso, il mondo in cui le cose hanno senso, in cui le cose, per così dire, non sono cose bensì fenomeni, un mondo investito fin dal principio dalle forme significanti che lo articolano.
Come parlare di questo mondo, come parlare dell’esperienza, “come dire su di essa qualcosa di sensato”? Il problema non è un problema da poco, poiché la semiotica si definisce a partire da un primo passo che è un’epoché originaria: essa non ha come proprio oggetto le cose, il mondo empirico, le sostanze di manifestazione, bensì le condizioni formali immanenti che rendono conto della significazione come articolazione. Ora, come accedere al mondo-della-vita, al mondo dell’esperienza vissuta, al mondo degli effetti di senso? Attraverso quale canale di contatto, attraverso quale apertura? Sono convinto che Greimas, di fronte ad un problema come questo che conosceva bene, avesse intuito una via di praticabilità e che questa intuizione ci sia rimasta in eredità soprattutto attraverso De l’imperfection, quel suo testo terminale e liminale, testo di confine, testo tutto sviluppato nell’immanenza ma aperto sulle variazioni dell’esperienza vissuta. Certo, per trarre da quell’opera una tale indicazione occorre leggerla come un esperimento di semantizzazione in atto, come un tentativo di praticare un abbozzo di quell’assiologizzazione che Greimas pensava dovesse essere la vocazione più profonda della disciplina cui aveva dedicato tutta la sua esistenza.
Si tratta di giocare con le derive degli effetti di senso, si tratta di lasciarsi trascinare nel flusso delle trasformazioni, di perlustrare le direzioni possibili che possono imboccare le concatenazioni. Si tratta, in altre parole, di lasciare che la forma emerga all’interno delle trasformazioni stesse, di mettersi nelle condizioni di apprezzare ciò che consente precisamente ad una trasformazione di essere tale, vale a dire la permanenza dei tratti formali di connessione, delle forme comuni tra l’antecedente e il susseguente, tra un effetto di senso e la sua derivazione. Si tratta, in altre parole, di leggere la forma sotto le catene trasformative dei dati empirici, di riversare ogni effetto di senso, grazie alle concatenazioni in cui entra, nella sua immagine. Cosa intendo per “immagine”? Intendo il lato formale, sotto la soglia dell’immanenza, dell’effetto di sostanza con cui il senso si manifesta, vale a dire una totalizzazione strutturale di tratti formali e di linee di forza, tratti e linee che permettono all’effetto di senso, per l’appunto, di avere senso, di essere quel che è, fenomeno valorizzato, interpretabile, direzionato, intenzionato. All’immagine bastano due effetti di senso tra loro connessi e con questi pochi e scarni materiali a sua disposizione, con questa semplice concatenazione di sostanze efficaci, di “vissuti”, essa può produrre totalizzazione, vale dire costituzione di mondo, determinazione della qualità dell’orizzonte sistemico, piano isotopico di pertinenza e di riferimento. L’immagine, in questo modo, è già testo, è già testura, intreccio di relazioni strutturali, è già disponibile alla sua rielaborazione in quanto oggetto strutturale per l’analisi, è già, in senso proprio e determinato, oggetto semiotico.
Si vede anche, tuttavia, come la costituzione di un tale oggetto non può prescindere dall’operazione di derivazione controllata che l’istanza ricettiva, l’enunciatario del senso enunciato del mondo, può produrre e favorire. L’immagine non prescinde dall’osservazione degli effetti di senso in cui si articolano le trasformazioni del mondo-della-vita. In altre parole, non si può fare analisi semiotica se non a partire dall’osservazione delle trasformazioni e dalla produzione di immagini che esse determinano. In altri termini ancora, i testi, in quanto oggetti d’analisi, non sono dati, non sono oggetti che incontriamo nel mondo. Nel mondo incontriamo solo effetti di senso. E’ l’osservazione del modo in cui tali effetti di senso si sospingono e si susseguono l’un l’altro che produce quel minimo di stabilità formale alla quale possiamo attribuire la qualità di testo, vale a dire di oggetto adeguato per l’analisi semiotica della significazione.
A questa pratica “a vocazione scientifica”, secondo un dettato che consideriamo uno degli insegnamenti più alti di tutto il lavoro di A.J. Greimas – il quale a sua volta è uno tra i pochi grandissimi pensatori del secolo scorso – votiamo l’esercizio e lo sviluppo di quella che chiamiamo, nel nostro lavoro di ricerca presso l’Università di Bologna, etnosemiotica: una pratica di ricerca, una riflessione sulle condizioni della produzione del senso, un’elaborazione di un campo di indagine che mette al centro delle proprie preoccupazioni l’osservazione in quanto tale, cioè l’osservazione in quanto costitutiva del valore dei fenomeni. E’ solo grazie a una tale costituzione che i fenomeni, attraverso il loro prodursi in immagini, possono acquisire la qualità di testi, ovvero oggetti adeguati per un’analisi semiotica consapevole, scevra dalle ingenuità dei formalismi, aderente ai vissuti esperienziali ma al tempo stesso capace di mantenere salda la propria distanza metalinguistica, la propria “buona distanza” di osservazione, la propria vocazione scientifica.