Estetiche della ridondanza in letteratura, cinema
e musica di consumo contemporanei
Maria Pia POZZATO
Università di Bologna
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Mots-clés : esthétique, sémiotique de la littérature, sémiotique de la musique, sémiotique du cinéma
Auteurs cités : Jacques AUMONT, Daniele BARBIERI, Roland BARTHES, Hans BELTING, Pierre BOURDIEU, Italo CALVINO, Gilles DELEUZE, Umberto ECO, Jacques GENINASCA, Algirdas J. GREIMAS, Félix GUATTARI, Eric LANDOWSKI, Youri LOTMAN, Oliver SACKS, Lucio SPAZIANTE, Patrizia VIOLI, Carl WILSON
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Questo contributo è una versione aggiornata e rielaborata di tre diversi articoli dell’autrice pubblicati negli ultimi anni sulla rivista on line Doppiozero.com.
Introduzione1
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Italo Calvino, Lezioni Americane, Milano, Garzanti, 1988.
Italo Calvino, nelle sue Lezioni Americane ci indicava sei valori per il terzo millennio, allora ancora abbastanza lontano : leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità, coerenza2. Il nuovo millennio è cominciato da una ventina di anni ormai e quindi si può cominciare a vedere se ha portato con sé qualcuna di questa virtù.
Non è qui possibile una discussione approfondita di ciascuno dei sei valori illustrati da Calvino ma quello che mi sembra di poter rilevare, sotto molteplici versioni, è una generale ridondanza, petulante e fine a sé stessa, che nulla ha a che fare con la ridondanza di cui pure Calvino parla, riferendosi a quella delle fiabe. Le ripetizioni nei racconti che facciamo ai bambini rispondono a una funzione specifica di rassicurazione e di conferma euforica delle aspettative. Essa è presente anche in tutta la produzione etnoletteraria basata su ritmi ciclici e moltiplicazione delle prove. Il nuovo millennio sembra aver portato con sé invece una ridondanza che ha una natura totalmente diversa, più finalizzata allo sfruttamento intensivo della buona trovata nell’ottica di spremerne l’idea creativa fino all’ultima, esasperata torsione del grappolo, e se possibile finanche del raspo.
Un programma televisivo che sia stato premiato dai dati di ascolto invece di durare un’ora ne dura tre ; il romanzo di un autore affermato invece di svilupparsi in due o trecento pagine, si allunga a otto-novecento ; una buona canzone, con un ritornello originale e orecchiabile, viene eseguita in modo tale che il ritornello si ripeta per dieci-quindici volte ; la faccia degli attori protagonisti al cinema viene sbattuta in primo piano per un numero incalcolabile di inquadrature ; una serie televisiva di successo moltiplica le sue stagioni, spesso stravolgendo il soggetto iniziale e, per continuare a stupire e a tenere avvinto il pubblico, risultando alla fine incattivita, stralunata, violenta.
1. Le descrizioni ridondanti in letteratura
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Donna Tartt, Il cardellino, Milano, Rizzoli, 2014. Titolo originale : The Goldfinch, 2013.
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Jurij Lotman, La struttura del testo poetico, Milano, Mursia, 1972.
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Lezioni Americane, op. cit., pp. 47-48.
La nostra epoca, pur essendo definita delle “forme brevi” paradossalmente sembra aver già gettato a mare due delle indicazioni di Italo Calvino : quella della leggerezza e quella della rapidità. Per quanto riguarda la letteratura, mi soffermerò su quello che vorrei definire il descrittivismo inesausto di alcuni romanzi contemporanei. Se si prende ad esempio Il Cardellino di Donna Tartt, si tratta di un voluminoso libro (per l’esattezza 892 pagine nell’edizione italiana), vincitore del premio Pulitzer e quindi sanzionato assai positivamente dalla critica3. Le opere lunghe, ovviamente, non sono condannabili in quanto tali ma ci deve essere una ragione seria perché lo siano. Come dice Jurij Lotman, Lev Toltstoj, interrogato sul significato di Anna Karenina, rispondeva : per dirvi che cosa ho voluto dire con questo romanzo, dovrei ripetervi Anna Karenina parola per parola, senza cambiare nemmeno una virgola4. Gli fa eco Calvino quando, proprio nel capitolo delle sue Lezioni dedicato alla rapidità, dice : “Come per il poeta in versi così per lo scrittore in prosa, la riuscita sta nella felicità dell’espressione verbale, che in qualche caso potrà realizzarsi per folgorazione improvvisa, ma che di regola vuol dire paziente ricerca del ‘mot juste’, della frase in cui ogni parola è insostituibile, dell’accostamento di suoni e di concetti più efficace e più denso di significato. Sono convinto che scrivere prosa non dovrebbe essere diverso dallo scrivere poesia ; in entrambi i casi è ricerca d’un’espressione necessaria, unica, densa, concisa, memorabile”5.
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La celebre opera di Giacomo Leopardi Lo Zibaldone è stata pubblicata per la prima volta dalla casa editrice fiorentina le Monnier nel 1898-1900 con il titolo Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura.
Calvino chiama in aiuto anche Giacomo Leopardi quando, nello Zibaldone, dice “La rapidità e la concisione dello stile piace perché presenta all’anima una folla di idee simultanee, così rapidamente succedentisi, che paiono simultanee, e fanno ondeggiar l’anima in una tale abbondanza di pensieri, o di immagini e sensazioni spirituali, ch’ella o non è capace di abbracciarle tutte, e pienamente ciascuna, o non ha tempo di restare in ozio, e priva di sensazioni. La forza dello stile poetico, che in gran parte è tutt’uno con la rapidità, non è piacevole per altro che per questi effetti, e non consiste in altro”6.
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James Wood parla di realismo isterico come di un vero e proprio genere letterario caratterizzato da lunghezza eccessiva, personaggi maniacali e frequenti digressioni su argomenti secondari. Cfr. The irresponsible self : on laughter and the novel, Londra, Pimlico, 2004.
Insomma, il concetto è sufficientemente chiaro. Ciò a cui si assiste invece sempre più di sovente è un escamotage letterario che definirò, a mia volta per amore di brevitas, ricorso ossessivo alle annotazioni. Quando si leggono certi romanzi si ha la netta sensazione che lo scrittore passi la vita a girare con un quadernetto in tasca annotando minuziosamente tutto quello che vede (o descrivendolo oralmente in un piccolo registratore, il che non lo renderebbe più bizzarro e stupefacente dei tanti parlatori compulsivi con auricolare che vagano per le strade delle nostre città). A questo proposito il critico americano James Wood ha parlato di “realismo isterico”7.
Il gioco è piuttosto facile : chiunque padroneggi la propria lingua materna a livello standard, può farne facilmente la prova. Si trova nella sala d’aspetto di un medico ? Prenda nota di tutto quello che vede, dalla immancabile crepa sulla tappezzeria, allo scricchiolio delle vecchie sedie, alle riviste usurate presenti sul tavolino, vero ricettacolo di batteri e virus di ogni genere ; e magari, per finire, si prenda nota anche di un tocco olfattivo, per esempio quello di un arbre magique appoggiato sul davanzale “per purificare l’aria”. Ho descritto, a memoria, una sala d’aspetto che conosco. Ma ho già sbagliato, perché quello che ho detto è già troppo interpretativo, troppo personale. L’annotazione descrittiva di molti romanzi contemporanei vuole invece restituire la nuda realtà, non deve esserci nessun residuo di soggettività.
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Di questa discussione fra il pittore e il romanziere parla anche Maurice Merleau-Ponty ne L’œil et l’esprit, Parigi, Gallimard, 1964.
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Cfr. Roland Barthes, « L’effet de réel », in Œuvres complètes. 1968-71, Parigi, Seuil, 2002. Si ricorderà che in questo breve saggio Barthes parla della presenza di una pendola nel racconto di Flaubert Un cuore semplice e, indicandone la poca rilevanza narrativa, afferma che essa ha solo la pretesa di dare un’illusione di realtà.
Quando Cézanne si poneva il problema di rendere sulla tela un passaggio di Balzac (al quale lo unì una trentennale amicizia) che diceva, grosso modo, “sulla tavola coperta da una tovaglia candida, erano posati i piatti e le posate, sormontati da panini dorati”, egli ammetteva di riuscire senza fatica fino alla tovaglia, ai piatti e alle posate ma di non riuscire a dipingere il “sormontati da panini dorati”, perché in quel passaggio lo scrittore introduce un sentimento proprio del vedere8. E non può che essere così : nell’incantevole documentario di Wim Wenders su Sebastiao Salgado (con Juliano Ribeiro Salgado, Il sale della terra, 2014), il celebre fotografo siede davanti alle montagne del suo luogo natìo e dice più o meno : ogni fotografo che si ponga esattamente davanti a questa veduta ne farà un ritratto diverso, la riprenderà secondo certe angolazioni, esaltando certi particolari di luce, approdando a una composizione che esprime il suo specifico punto di vista su questo panorama. E si parla di fotografia, quindi dell’arte che ingenuamente si crede la più vicina al reale, vera e propria traccia di ciò che è stato9.
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Cfr. R. Barthes, op. cit.
Quando si trasporta questa pretesa ingenua alla scrittura, che è per ovvie ragioni il modo più mediato di rendere l’esperienza sensoriale, si ricorre a un uso esagerato della descrizione nella speranza che proprio la zavorra inespressiva, impersonale e insensata dei particolari possa rendere l’insistenza della cosa a essere là10. Quello che questi scrittori dovrebbero spiegare è perché sia tanto importante per loro produrre, se mai ci riescono, questo effetto di reale. Le spiegazioni potrebbero essere tre (più una quarta, di cui però dirò in seguito).
i) La più venale : sono pagati a riga, come Eugène Sue quando pubblicava a puntate i suoi feuilleton sui giornali popolari di Parigi.
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Umberto Eco, Vertigine della lista, Milano, Bompiani, 2009.
ii) Vi è un certo compiacimento virtuosistico nel descrivere ambienti e situazioni. Ci sono autori, e lo raccontano loro stessi, come Pamuk e Eco, che studiano per anni le piante dei luoghi dove ambienteranno i loro romanzi e non tollererebbero la benché minima incongruenza su nomi di vie, percorsi dei protagonisti, anacronismi, ecc. Il mondo narrato deve avere una sua consistenza filologica, referenziale, pena una caduta di credibilità dell’opera. Questi autori sanno benissimo che in un’opera di finzione esiste un patto di sospensione della credenza fra autore e lettore ma insistono ugualmente, in virtù di un’estetica dell’esattezza, sul fatto che i loro mondi devono essere coerenti e rispettosi del referente storicamente inteso (si noti la somiglianza con altri memos di Calvino). Ma questa estetica dell’esattezza e della coerenza richiede anche una pertinenza delle descrizioni, che devono essere al servizio della storia e non un insieme casuale di dettagli. Eco, nel suo Vertigine della lista dice che anche laddove si esageri coi dettagli deve trattarsi di un “eccesso coerente”11. Questo mi sembra anche il caso di un autore come Michael Cunningham che confessa di girare sempre con il taccuino in mano ma nelle cui opere raramente si ha un’impressione di gratuità delle descrizioni.
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Raffaele Donnarumma, Ipermodernità, Bologna, Il Mulino, 2014.
iii) Infine, la terza ipotesi, quella più temibile e gravida di conseguenze culturali : solo ciò che è “reale” (o che sembri tale) merita di essere raccontato. Questa posizione è quella di chi pensa che una (presunta) resa della realtà sia un valore di per sé. Non entrerò qui nel merito della complessa discussione che da qualche anno imperversa sul rapporto fra realtà e letteratura (fra i più interessanti e recenti contributi, in Italia, Raffaele Donnarumma12). Come si è visto nell’esempio della sala d’aspetto del medico, produrre un effetto di realtà è il gioco più facile del mondo. Chiunque può aderire a un uso quotidiano dell’annotazione e mettere insieme papiri descrittivi che può vendere agli scrittori realisti come altrettanti ready made. Anzi, si può immaginare che un servizio del genere esista già, nel mondo sotterraneo ma non troppo dei ghost writers : “Vendesi a prezzi da concordare una buona descrizione di fontana, con piccioni, alberi, piastrelle e tutto il resto. Sconto se si acquistano almeno cinque capoversi”.
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Raymond Carver, Di che cosa parliamo quando parliamo d’amore, Torino, Einaudi, 2001, p. 37. Titolo originale : What we talk about when we talk about love, 1981.
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Emmanuel Carrère, Limonov, Milano, Adelphi, 2012, p. 110. Titolo originale : Limonov, 2011.
Bisogna notare che esiste anche una tendenza contraria a quella del descrittivismo, per esempio nel minimalismo di Raymond Carver il quale, in un racconto peraltro intitolato “Riuscivo a vedere ogni minimo dettaglio”, così fa concludere la protagonista : “Ho pensato un attimo al mondo fuori della mia casa e poi non ho pensato più a niente tranne il fatto che era meglio che mi sbrigavo ad addormentarmi”13. Per non parlare di Emmanuel Carrère che, pur raccontando in Limonov la storia vera dell’omonimo poeta e attivista politico russo, ammette una scarsa inclinazione per le descrizioni : “Il modo migliore per descrivere il party dei Liberman sarebbe raccontarlo come il ballo al castello di Vaubyessard in Madame Bovary, senza tralasciare un cucchiaino, né una fonte di luce. Vorrei saperlo fare, ma non ne sono capace”14. Sembra di ritrovarsi nei paesaggi disadorni e significativi nella loro mancanza di significatività di fotografi come Stephen Shore o Lewis Baltz che puntano l’obiettivo su saracinesche chiuse, pompe di benzina dismesse, finestre sgangherate.
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Donna Tartt, op. cit.
Ma torniamo all’ultimo, corposo romanzo di Donna Tartt e chiediamoci, dopo tale ampio preambolo : che cosa ne è del Cardellino se esso viene gonfiato come un tacchino15 ? Ecco una descrizione, come tante altre, del romanzo :
Scesi a Washington Square e vagai per trequarti d’ora in cerca dell’edificio. Perdersi nello schema inaffidabile del Village (isolati triangolari, strade senza uscita che svoltavano ad angolazioni assurde) non era difficile, e per tre volte fui costretto a fermarmi per chiedere indicazioni : da un giornalaio che vendeva pipe per l’erba e riviste gay, in una panetteria affollata con della musica sparata a tutto volume, a una ragazza in canottiera e salopette bianche armata di secchio e lavavetri che si dava da fare sulla vetrina di una libreria.
Quando finalmente scovai la Decima Strada Ovest, deserta, la percorsi seguendo la numerazione dei civici. Mi trovavo in una parte della strada dall’aspetto un po’ trascurato e in linea di massima residenziale. Un gruppetto di piccioni mi camminava davanti sul marciapiede bagnato, in fila per tre, come piccoli pedoni molesti. Non tutti i numeri erano ben visibili, e cominciavo a domandarmi se avessi sbagliato indirizzo e non fosse il caso di tornare indietro quando mi sorpresi a fissare le parole Hobart e Blackwell dipinte in un armonico arco rétro sulla vetrina di un negozio. Oltre i vetri sporchi c’erano staffordshire terrier e gatti di maiolica, cristalli impolverati, argenti ossidati, sedie passate di moda e vecchi divanetti tappezzati di broccato giallastro, un’elaborata gabbietta per uccellini blu cobalto, obelischi in miniatura in cima a un tavolo con un’unica gamba centrale e il piano di alabastro […]. (tr. it., pp. 145-146)
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Cfr. U. Eco, op. cit.
Qualcuno obietterà : in qualunque opera letteraria, anche nei capolavori, si possono trovare descrizioni come queste. E infatti nel già citato libro di Eco sulle liste vengono riportati esempi straordinari tratti da Shakespeare, Twain, Mann, Poe, Dickens, Proust, Hugo, Perec e dallo stesso Calvino. Ma se le descrizioni occupano il settanta per cento di un libro di novecento pagine, allora si tratta ancora di un eccesso coerente16. Perché per novecento pagine la storia deve essere raccontata come in un estenuante ralenti dove non ci viene taciuto niente, né la cucitura sdrucita di una camicia, né chi passa di lì per caso in quel momento, né lo starnuto del gatto del vicino ?
- Note de bas de page 17 :
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Maria Pia Pozzato e Giorgio Grignaffini (a cura di), Mondi seriali, Milano, RTI, 2008.
Allora sorge un’ulteriore ipotesi, oltre alle tre già esposte, e cioè che queste opere si ispirino, forse inconsciamente, a un’estetica seriale e adottino di fatto il grado di dettaglio di chi ha a disposizione centinaia di puntate per raccontare una storia. Forse Il cardellino di Donna Tartt va letto quanto meno come un Tv Movie in quindici puntate, dove ha senso che il protagonista vaghi per Amsterdam per trenta pagine prima di risolversi a fare la cosa che abbiamo capito fin dall’inizio che cosa è andato a fare lì ; o si faccia di droghe e di alcool perdendo coscienza e vomitando per decine e decine di pagine ; o abbia un febbrone da cavallo che lo tiene chiuso per venti pagine in una camera d’albergo. Se fosse una serie, avrebbe senso tirarla per le lunghe perché tanto lo spettatore è fidelizzato alla storia e al personaggio e quindi chiede soprattutto una cosa : che duri, che dopo un episodio ce ne sia un altro, con uno sviluppo verticale, cioè inerente all’episodio, più importante dello sviluppo orizzontale, cioè generale, della storia17.
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John Williams, Stoner, 1965 ; prima edizione Fazi editore 2012. Titolo originale : Stoner, 1963.
Ben altra attitudine troviamo in un romanzo scritto alla metà degli anni Sessanta ma arrivato solo negli ultimi anni alla grande notorietà : Stoner, di John Williams, in cui storia e psicologia dei personaggi ricavano una loro impressionante verosimiglianza proprio dall’asciuttezza descrittiva e narrativa18. In una delle rare descrizioni, leggiamo :
D’istinto spense la lampada sulla scrivania e si sedette nella calda oscurità dell’ufficio. L’aria fredda gli riempì i polmoni e si protese verso la finestra aperta. Ascoltò il silenzio di quella notte d’inverno e in qualche modo gli parve di sentire i suoni che venivano assorbiti dal delicato intrico cellulare della neve. Nulla si muoveva sopra quel bianco. Era una scena della morte che sembrava attrarlo a sé, risucchiando la sua coscienza nello stesso modo in cui aspirava i suoni dall’aria, seppellendola sotto quel candore gelido e soffice. Si sentì tirare verso quel bianco che si stendeva a perdita d’occhio e che era parte dell’oscurità da cui risplendeva, e da quel cielo chiaro e senza nubi, che non aveva altezza né profondità. Per un istante gli parve di uscire dal suo corpo che sedeva immobile davanti alla finestra. Mentre si sentiva scivolare via, tutto — la distesa bianca, gli alberi, le alte colonne, la notte, le stelle lontane — gli sembrava incredibilmente piccolo e remoto, come se svanisse a poco a poco nel nulla. Poi, dietro di lui, udì il clangore di un termosifone. Si mosse e la scena tornò a essere quella di prima. Con sollievo, e con una certa riluttanza, riaccese la lampada della scrivania”. (pp. 208-209 della tr. it., 2012)
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Cfr. J. Geninasca, “Il dettaglio vero”, in La parola letteraria, Milano, Bompiani, 2000. Titolo originale : La parole littéraire, 1997.
Anche se ci vorrebbero molte pagine per analizzare questo brano, mi limiterò a segnalare la sua incorniciatura precisa, di tipo poetico (fra “spense la lampada” e “riaccese la lampada”) ; il carattere situato, soggettivo, della visione, come l’obiettivo di Salgado di fronte alle “sue” montagne ; la natura linguisticamente e stilisticamente costruita della visione (“il delicato intrico cellulare della neve” che ci ricorda i “panini dorati” di Balzac). Insomma, una descrizione che nessun taccuino può restituire perché è intessuta del modo soggettivo e unico di essere al mondo. Eppure nemmeno qui manca il “dettaglio vero” che tanta importanza riveste in letteratura19 quel rumore del termosifone che ha però una sua precisa ragion d’essere e addirittura un ruolo narrativo : quello di riportare indietro Stoner dalla fantasmagoria di morte verso la propria normale, quotidiana, infelicità.
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Lezioni americane, op. cit., p. 35.
Per concludere questa prima parte sulla letteratura, torniamo alle parole di Calvino sulla rapidità, “nel momento in cui un oggetto compare in una narrazione, si carica di una forza speciale, diventa come il polo di un campo magnetico, un nodo di una rete di rapporti invisibili. Il simbolismo d’un oggetto può essere più o meno esplicito, ma esiste sempre. Potremmo dire che in una narrazione un oggetto è sempre un oggetto magico”20.
Sembra ancora quanto mai attuale la teoria del correlativo oggettivo di T.S. Eliot ; di un “oggetto magico” che, fuori dal contesto etnoletterario, deve essere tradotto con “oggetto a funzione poetica”. Sganciati da questa Ragion Poetica, si ha solo una perversa bulimia dell’effetto, come si può vedere anche in altri ambiti mediali, diversi da quello letterario, come andiamo a vedere nei paragrafi seguenti.
2. L’eccesso di primi piani nel cinema
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R. Barthes, “Visi e facce”, in Scritti. Società testo comunicazione, Torino, Einaudi, 1993-95, pp. 142-152.
“Viso arcano, splendore esotico, bellezza baudelairiana, inaccessibile, come di una pasta forse prelibata […], tutte cose tipiche di un essere minerale, di una statua crudele che si anima per colpire.” Così Roland Barthes in una sua magnifica, piccola storia delle facce, definiva Rodolfo Valentino21. Parto da questo per riflettere su un fenomeno che sembra sempre più marcato e diffuso nel cinema contemporaneo, ovvero l’insistenza sui primi piani dei volti, ben oltre ogni esigenza narrativa ed espressiva. Alcuni hanno detto che il cinema contemporaneo copia in questo le regie televisive perché i campi medi e lunghi non sono congeniali al piccolo schermo. Un’altra ragione, sempre legata alla televisione, potrebbe essere la grande quantità di volti piangenti (o, più raramente, esultanti) a cui ci ha abituato la Reality Tv. Da decenni ormai questa televisione insiste nell’inquadrare in primo piano le emozioni di chi abbia appena perso o vinto del denaro ; di chi abbia subito un lutto ; di chi soffra la fame in un’isola di famosi o venga eliminato in una casa del Grande Fratello ; di chi venga sorpreso o offeso da una domanda impertinente durante un talkshow o un’intervista. Tutti i conduttori e soprattutto le conduttrici sembrano ormai specializzati soprattutto nel provocare scoppi emotivi che verranno immediatamente colti al volo da una sapiente e allertata regia.
Eppure l’influenza della cultura televisiva non basta a spiegare l’eccessiva insistenza sui primi piani che contraddistingue senza eccezioni tutto il cinema contemporaneo, nazionale e straniero, di alto, medio, basso livello. Va considerata innanzi tutto la tendenza umana ad abbracciare le soluzioni più economiche non appena esse appaiano collettivamente accettabili. In questo l’eccesso di primi piani è simile all’eccesso di descrizioni nei romanzi di cui si è parlato nel paragrafo precedente : una volta legittimato, in ambito letterario, il fatto che si possano infarcire i romanzi di descrizioni prolisse e fini a se stesse, che conferiscano un’aura di virtuosismo all’autore e un effetto di realtà all’ambientazione, perché non indulgere in una pratica molto economica dato che, come si è detto, è molto facile memorizzare dei dettagli e riportarli poi nelle opere ?
- Note de bas de page 22 :
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Cfr. R. Barthes, L’ovvio e l’ottuso, Torino, Einaudi, 2002. Titolo originale : L’obvie et l’obtus, 1982.
Così anche il primo piano cinematografico, se ci si pensa, è una forma molto economica perché riduce ogni lavoro su montaggio, inquadratura, scenografia, luci, atmosfere. Come nell’eccesso di descrizione letteraria ci si affida alla presunta espressività del dettaglio “vero”, così, insistendo sul primo piano, si scommette che il volto, con la sua antropologica intensità, possa compensare tutte le pigrizie di cui sopra. Mi è molto difficile pensare che questi registi si ispirino al Quadrato nero di Malevich (1914) ovvero a un suprematismo che elegga il primo piano di Scarlett Johansson o di Brad Pitt a matrice oscura, di carattere quasi teologico, del senso. Per quanto bello e interessante, dopo un po’ che lo guardiamo, un volto diventa ottuso non perché apra “all’infinito del linguaggio” (come diceva Barthes22) ma perché “sciocco”. Come nella celebre fiaba dei vestiti nuovi dell’imperatore, sarebbe ora che qualcuno dicesse che tutti questi volti in primo piano se ne vanno in giro senza uno straccio di senso addosso. Non ci sono infatti attori o attrici che, inquadrati troppo a lungo in primo piano, possano sfuggire all’effetto “faccia facciosa” che la terribile Lucy attribuisce a Charlie Brown.
- Note de bas de page 23 :
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P. Magli, Pitturare il volto, Venezia, Marsilio, 2013, p. 48.
Di fronte all’ennesimo, primissimo piano di un attore / attrice, cominciamo a reificarlo, ad analizzarlo analiticamente. Come dice Patrizia Magli, quanto più ci avviciniamo a un volto (o quando ce lo troviamo di fronte troppo a lungo) “vediamo solo occhi, capelli, naso bocca, labbra, pupille, iridi, eruzioni cutanee, peli, leggere cicatrici, qui un impercettibile ricamo azzurrino di capillari, là il promontorio di un neo e poi la distesa sconfinata dei pori, pori che se visti a distanza ancora più ravvicinata affiorano sulla superficie della pelle come crateri mentre le rughe vi si affondano dentro come anfratti, e così via, all’infinito”23. Se il riferimento è a persone storicamente vissute, il gioco è a misurare la somiglianza della persona vera con l’attore che ne fa la parte, come nel biopic su Jimi Hendrix dove André Benjamin viene scrutato dalla cinepresa per indurci a commisurarne labbra, carnagione e zazzera con quelli del celebre chitarrista.
- Note de bas de page 24 :
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Cfr. R. Barthes, “Introduzione” a D.A.F. de Sade, Le 120 giornate di Sodoma, Parma, Guanda, 1977.
Ma che volti sono, poi, questi che il cinema di oggi mette sotto la lente di ingrandimento ? Negli ultimi decenni si è progressivamente imposta una feroce revisione del viso umano, soprattutto femminile : le immagini della moda, della pubblicità, del cinema negano rughe, macchie, cedimenti, irregolarità dei lineamenti. Come le fanciulle e i fanciulli arruolati dai libertini sadiani (è ancora Barthes che ci ispira24), anche questi ragazzi e queste ragazze non sembrano in carne e ossa ma l’immagine stessa della purezza e della bellezza che il sadico vuole offendere e il mercato vendere.
Se confrontiamo le serie televisive vediamo che in Friends, andato in onda dal 1994 al 2004, i protagonisti sono passati dalla paffuta bellezza dei vent’anni a quella già un po’ segnata dei trenta mentre in una serie più recente, Grey’s Anatomy, in onda dal 2005, le protagoniste tendono a ringiovanire stagione dopo stagione. Anche nel cinema questa tendenza viene confermata, a parte alcuni eccezioni in cui l’invecchiamento delle protagoniste è rilevante per la storia come in Boyhood, girato nell’arco di dodici anni, in cui Patricia Arquette ingrassa scena dopo scena ; o in Sils Maria dove Juliette Binoche fa la parte di un’attrice al tramonto e quindi primi piani estenuanti ne mettono in risalto il volto segnato.
Dobbiamo connettere forse questo eccesso di primi piani al cinema con la cultura del primo piano nel selfie, pratica ormai diffusissima (un milione di selfie al giorno, pare, solo in Italia). Autoprodotto, come dice la parola stessa, il viso nel selfie, oltre a essere ravvicinato per ovvi motivi, ha anche uno stile molto sorvegliato data l’immediata selezione delle immagini da parte di chi si fotografa. Gli scatti passabili sono subito dopo lanciati verso la galassia dei social networks : in questo modo il soggetto si ritrae in modo conforme a un modello e porge se stesso agli altri in quanto replica di quel modello. Quindi è per una serie di diverse ragioni che mai come oggi “il volto è attore”. Inevitabile che questo abbia delle ricadute anche al cinema dove una volta il primo piano era un momento raro e di grande intensità che faceva trapelare il mondo interiore del personaggio in modo tale, come diceva Sergei Eisenstein, da estendere questa tonalità emotiva all’intero film. Come non pensare al primo piano finale di Gloria Swanson in Viale del tramonto ; o a certi primi piani di Joan Crawford in Mildred Pierce dove, da sotto le folte sopracciglia, gli occhi emanavano la luce immortale della Tragedia della Madre ?
- Note de bas de page 25 :
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Cfr. R. Barthes, La chambre claire, Parigi, Hill & Wang, 1980. Th. Davis, The Face on the Screen. Death, Recognition & Spectatorship, Chicago, University of Chicago Press, 2004.
- Note de bas de page 26 :
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G. Deleuze, L’immagine-movimento, Torino, Einaudi, 1984. Titolo originale : L’image-mouvement, 1983.
- Note de bas de page 27 :
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Aumont, Jacques, Du visage au cinéma, Parigi, Editions de l’étoile,1992.
Diversi autori danno un’interpretazione mortifera del volto in primo piano. Jean-Pierre Vernant dedica per esempio un saggio a “il bel morto” dove il giovane nobile, nell’antichità classica, viene rappresentato sulla stele funeraria non in maniera eroica ma ridotto alla sua figura corporea, per rendere l’idea della bellezza e della giovinezza che la morte prematura ha reso eterne. Questo filone sinistro si trova anche in Barthes quando parla del ritratto fotografico e nel più recente libro, dedicato proprio al primo piano al cinema, di Therese Davis25. Gilles Deleuze ha una teoria più complessa, troppo per essere compiutamente riportata qui, ma finisce anche lui per “devitalizzare” il primo piano26. Come noto, Deleuze definisce il primo piano al cinema una “immagine-affezione” che però, perdendo la sua funzione di mettere l’essere umano in relazione con gli altri, possiede una sorta di nudità pre-umana, quasi animale. Il tema viene ripreso da Jacques Aumont quando postula una contrapposizione fra il “viso che esprime l’anima” nella Nana di Vivre sa vie di Jean-Luc Godard e il viso-maschera di Persona attraverso cui Ingmar Bergman esprimerebbe il suo sostanziale antiumanesimo27.
Ma l’“assenza agghiacciante di profondità” di cui parla Aumont a proposito dei primi piani di Bergman è la stessa che rileviamo nei primi piani della cinematografia attuale ? Sicuramente a volte le cose inanimate sono più “voltizzate”, ci guardano cioè con altrettanta intensità di un volto umano, come accade ai monumenti romani fotografati in modo magistrale ne La grande bellezza di Paolo Sorrentino. Le sontuose e arcane architetture barocche del film premio Oscar sono sicuramente più espressive dello Sean Penn post human del film precedente di Sorrentino.
- Note de bas de page 28 :
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Verso della poesia Sacred Emily (1913), compresa poi nel libro Geography and Plays del 1922 e oggi disponibile nell’edizione omonima dell’University of Wisconsin Press (Madison, 1993).
Al di là della riuscita o meno della singola interpretazione, il vero problema è quello dell’eccesso. Il cinema è, per sua natura, una grammatica di inquadrature. Se, per usare una metafora musicale, si riduce alla sola nota del primo piano, allora qual è il suo intento ? Forse quello di produrre un effetto di “monocorde allusivo”, come nel celebre verso di Gertrud Stein Rose is a rose is a rose is a rose dove chi legge tende a dare un’interpretazione diversa a ogni occorrenza della stessa frase28. Ma mentre la poesia si nutre di ripetizioni ed elementi in parallelo, il cinema, in quanto immagine movimento, narrazione situata in un ambiente che non può non essere mostrato, e sviluppata nel tempo, come nei testi orali, viene in qualche modo spogliato dalle proprie stesse possibilità espressive se adotta staticità e ripetizione in eccesso. Oltre tutto, per quanto riguarda le emozioni, il cinema non ha la stessa possibilità dei romanzi di dire che cosa stanno provando i personaggi e quindi, a volte, le facce di per loro risultano abbastanza imperscrutabili.
- Note de bas de page 29 :
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M.P. Pozzato e P. Violi, La messa in discorso delle passioni. Il caso di Segreti e bugie di Mike Leigh, Versus, 93, 2002.
- Note de bas de page 30 :
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Cfr. F. Marsciani, “La maschera neutra”, Carte semiotiche, 7, 1990.
Nel corso di un esperimento da me condotto con Patrizia Violi all’Università di Bologna chiedemmo a una cinquantina di studenti di dire quali fossero secondo loro i sentimenti dei protagonisti in una determinata scena del film Segreti e bugie29. Le descrizioni concordavano laddove i personaggi agivano in base alle loro emozioni, per esempio sbattendo la porta per rabbia ; ma divergevano enormemente quando un personaggio era inquadrato in primo piano senza ulteriori specificazioni. Abbiamo rilevato insomma una sostanziale opacità del viso in primo piano, dato che ne venivano date interpretazioni molto variabili un po’ come succede con la maschera neutra che viene usata nelle scuole di mimo. Francesco Marsciani ne ha studiato il meccanismo cogliendone la paradossalità : le azioni del mimo che indossa la maschera neutra sono univocamente interpretabili (arrampicarsi su una scala, correre, trovare una parete di vetro come ostacolo, ecc.) mentre la sua emotività rimane aperta a ogni interpretazione30.
- Note de bas de page 31 :
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Op. cit., da p. 150, cap. V, “Le visage défait”.
La mia ipotesi, in conclusione, è che il primo piano al cinema, se non è più sporadica epifania degli stati interni del soggetto, diventa sostanzialmente Kitsch perché non trae la propria intensità dall’insieme del testo filmico, come i bellissimi primi piani in bianco e nero nei film del regista polacco Paweł Pawlikowski, per esempio Ida (2013) e il recente Cold War (2018). Si prenda per esempio La vita di Adèle, vincitore a Cannes nel 2013, dove alla fine siamo sfiniti dalla visione al microscopio dei volti delle due giovanissime protagoniste. In questo film i primi piani sono arricchiti da una messe di fluidi corporei (sudore, secrezioni nasali, lacrime) che li rende rubricabili, nella classificazione di Aumont, come “visi disfatti”31. Cosa tutto ciò aggiunga a una già problematica abbondanza di fondo schiena schiaffeggiati non è facile capire.
- Note de bas de page 32 :
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J. Lotman, Il girotondo delle muse, Bergamo, Moretti & Vitali, 1998, p. 62.
Forse al bravo Elio Germano, che interpreta il grande poeta Giacomo Leopardi ne Il giovane favoloso, è stato risparmiato lo strazio di questi primi piani perché era narrativamente utile mostrarne la gobba, cosa che ha fatto prevalere il piano americano. La contrapposizione fra Arte con la “A” maiuscola da un lato, e Kitsch come “effetto di artisticità” dall’altro, è stata naturalmente messa molto in discussione dagli anni ’60 ad oggi, ma rimane a mio avviso una delle poche armi che ancora abbiamo per smascherare alcuni fenomeni di pseudo-artisticità. Quando analizza il genere del ritratto, Jurij Lotman ci ricorda : “Di nuovo ci troviamo di fronte a una regola : in arte la cosa più semplice è la più complessa”32. L’autore cita la poesia di N.A. Zabolockij Portret (Il ritratto) in cui il poeta, descrivendo una pittura, la traduce in immagini dinamiche :
Quando giungono le tenebre
E si avvicina la tempesta,
Dal fondo della mia anima baluginano
I suoi bellissimi occhi.
In questo modo, conclude il semiologo russo, “il visibile è solo una simbolica incarnazione dell’invisibile. In questo modo la concretezza e la visività caratteristici di tutta l’estetica di Zabolockij si ‘de-concretizzano’ e si trasformano nel loro opposto creando lo spazio artistico dell’inesprimibile”.
Quanta distanza dal ritratto vuoto di senso di certa cinematografia di oggi.
3. Le ripetizioni nella musica di consumo
- Note de bas de page 33 :
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Gilles Deleuze, Félix Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, parte III, “Sul ritornello”, Roma, Castelvecchi, 2010. Titolo originale : Mille plateaux, 1980.
Ognuno di noi, non di rado, urla silenziosamente “basta !” all’ennesimo motivetto che ci martella da altoparlanti ormai onnipresenti. Una musica persecutoria accompagna l’utente di ogni aeroporto, bar dalle happy hours, negozio, centro commerciale, palestra. Forse i ritornelli della musica di consumo, come i canti delle varie specie di uccelli in natura, istituiscono e definiscono intorno a noi un territorio urbano nel quale, altrimenti, ci sentiremmo spaesati. Come dicono in Millepiani Deleuze e Guattari “ritornello” è sinonimo di principio di organizzazione contro il caos : nel buio, colto dalla paura, il bambino si rassicura canticchiando, “si mette al riparo con la sua canzoncina”33. Forse per lo stesso motivo cantiamo sotto la doccia, quando siamo svestiti, esposti a un getto d’acqua che altera la nostra temperatura e invade le nostre superfici e i nostri orifizi. Con il consueto gusto del paradosso, Woody Allen immagina un tenore che riesce a cantare solo sotto la doccia cosicché gli allestiscono un box con tanto di acqua corrente sui palcoscenici dei teatri d’opera (To Rome with Love, 2012).
- Note de bas de page 34 :
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Op. cit., p. 64 della tr. it.
Ma che territorio sonoro è questo che sicuramente non siamo noi a istituire e scegliere ? Possiamo girare con i tappi nelle orecchie o contrapporre alla musica ambientale un’altra musica attraverso I-Pod, computer, cellulari ; in ogni caso non possiamo girare liberamente, a orecchio esposto, libero, senza incorrere in qualche insistente proposta uditiva. In questo caso il ritornello non è più né cosmo contrapposto al caos, né territorio come possesso, contrapposto a spazio estraneo. Qui il suono diventa al contrario qualcosa che ci irretisce in virtù del fatto che è un medium potente, primario, coercitivo : “Non si smuove un popolo con dei colori, le bandiere non possono nulla senza le trombe. Fascismo potenziale della musica”, dicono Deleuze e Guattari34.
- Note de bas de page 35 :
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Oliver Sacks, Risvegli, Milano, Adelphi, 1995. Titolo originale : Awakenings, 1973.
- Note de bas de page 36 :
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O. Sacks, Musicofilia, Milano, Adelphi, 2007, p. 39. Titolo originale : Musicophilia, 2008.
Eppure moltissime persone non solo non sembrano soffrire di questa intrusione, ma anzi, in assenza di musica, tendono a percepire un luogo come disadorno, triste, senile, tanto che se chiedi a un barista di abbassare il volume della musica, lui ti guarda storto e ti dice che la clientela non gradirebbe. La questione è sia culturale (come ci divertiamo, come dobbiamo essere sempre festosi e allegri), sia neurologica : come per qualsiasi sovra-stimolazione percettiva, ci sono delle forme di assuefazione. Oliver Sacks ha sottolineato due aspetti antitetici della fruizione musicale : da un lato, la musica è uno strumento potente di aggregazione, di riorganizzazione della personalità ; diventa addirittura metafora della salute mentale quando, per esempio in Risvegli Sacks parla dei soggetti malati come di “soggetti smusicati”35. In un libro più recente dedicato totalmente alla musica, Musicofilia (2007), il celebre neurologo parla della “straordinaria robustezza della base neurale della musica” tale per cui molte persone ormai dementi sono ancora in grado di suonare e cantare perfettamente36. Per queste persone, la musica non è un lusso, bensì una necessità che può restituirli, seppure momentaneamente, a sé stesse e agli altri.
- Note de bas de page 37 :
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Ibid., p. 65.
E tuttavia, proprio come in Millepiani, anche in Musicofilia la musica mostra la possibilità di una degenerazione : da forma di riorganizzazione a mostro invasivo. Il terribile motivetto che ci si ficca in testa viene definito “verme dell’orecchio” (earworm), o “verme del cervello” (brainworm, come Sacks dice di preferire). Il ritornello da cui non riusciamo a liberarci con un atto di volontà infesta i nostri circuiti cerebrali, gira nella nostra mente per ore o giorni, anche quando si tratta di musica non gradita o addirittura odiosa. Il nostro cervello è indotto, dice Sacks, a scaricarla in modo autonomo e ripetuto, come accade per i tic e per le crisi epilettiche. I vermi sonori dimostrano “la sensibilità oppressiva, e a volte inerme, del nostro cervello nei confronti della musica”37. Noi abbiamo la possibilità di rielaborare le immagini, di riorganizzare una scena secondo nostri punti di vista ma la musica no, la musica si scolpisce nel nostro cervello senza che quest’ultimo possa difendersene.
La ripetitività tipica della musica ce la rende piacevole perché ci rassicura, come nelle filastrocche infantili, ma proprio questa ripetitività fa sì che una sensibilità si traduca in una vulnerabilità. Questo fenomeno è universale e vero in qualsiasi epoca ma la mia impressione, da ascoltatrice (i musicologi mi perdoneranno), è che la musica di oggi sia particolarmente insidiosa. Del resto anche Sacks esprime questo timore quando conclude : il nostro sistema uditivo oggi è sovraccaricato e questo non può non avere conseguenze terribili.
Cerchiamo allora di capire che cosa produrrebbe, nella musica contemporanea, questo effetto di insistenza. La forma-canzone prevede parti introduttive (verse), parti salienti destinate a “uncinare” l’attenzione e la memoria dell’ascoltatore (hook), e ritornelli, che si ripetono uguali un numero variabile di volte (chorus). Il musicologo Franco Fabbri dice che nelle canzoni si alternano “parti grigie”, introduttive, e “parti colorate”, più orecchiabili :
- Note de bas de page 38 :
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Franco Fabbri, “Dont’ bore us — get to the chorus : serve la noia alle canzoni” in Luca Marconi, Gino Stefani, Eero Tarasti, La significazione musicale tra retorica e pragmatica, Bologna, Clueb, 1998, p. 104.
Il piacere (la bella melodia, l’inciso accattivante, i versi indimenticabili) è la conseguenza di un percorso, giunge al termine di una fase preliminare, è un premio, il risultato di una dimostrazione, la conclusione di una vicenda appassionante : il Paradiso dopo il Purgatorio, l’orgasmo al termine dell’amplesso (e corale, quindi simultaneo), la vittoria dopo la guerra, la torta dopo la bistecchina con gli spinaci.38
- Note de bas de page 39 :
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L’autore ne parla in diversi suoi saggi dedicati alla letteratura fra cui Sei passeggiate nei boschi narrativi, Milano, Bompiani,1984.
- Note de bas de page 40 :
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“A hook is a musical idea, often a short riff, passage, or phrase, that is used in popular music to make a song appealing and to catch the ear of the listener” (http://en.wikipedia.org/wiki/Hook_%28music%29).
- Note de bas de page 41 :
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Come ricorda Daniele Barbieri, ci sono due tipi di rilievo inteso come elemento emergente del testo in grado di colpire il fruitore : il rilievo di novità, quando l’elemento rappresenta una deviazione rispetto alle aspettative (una figura che non c’entra con la scena, una melodia diversa, il passaggio a un registro lessicale diverso, ecc.), e il rilievo di posizione quando il picco è legato al rispetto delle aspettative (l’incipit di un brano è un rilievo di posizione, o la ripetizione di una note in un ritmo ostinato). Il rilievo di novità è aprente, va alla ricerca di nuovi ritmi ; il rilievo di posizione è chiudente, completa schemi consolidati e quindi dona sollievo alla tensione (finché, ovviamente, non crei effetto di saturazione, con noia e frustrazione). Cf. D. Barbieri, Nel corso del testo, Milano, Bompiani, 2004, p. 74.
Insomma anche la canzone conoscerebbe l’arte dell’indugio di cui parla Umberto Eco39. La mia impressione è però che la canzone contemporanea privilegi lo hook40, cioè la funzione di agganciare l’ascoltatore soprattutto attraverso il ritornello, che viene ripetuto con insistenza. La teoria di Leonard Meyer secondo cui, nella musica, le emozioni sarebbero provocate da uno scarto rispetto a quello che ci attendiamo, non sembra più attuale : nelle forme contemporanee della canzone, dove l’introduzione (verse) è ridotta al minimo e il ritornello (chorus) è insistito al massimo, c’è piuttosto una riconferma puntuale di ciò che ci si aspetta, con un effetto di intensificazione emotiva che non è prodotto da un rilievo di novità ma da un rilievo di posizione41.
- Note de bas de page 42 :
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D. Barbieri, op. cit., p. 75.
- Note de bas de page 43 :
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D. Barbieri, “Da Sant’Ambrogio al rap : la parola collettiva, l’immersione, il ritmo”, in M. P. Pozzato e L. Spaziante (a cura di), Parole nell’aria, Pisa, ETS, 2009.
- Note de bas de page 44 :
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Cfr. il “recto tono” (gregoriano) a cui fa riferimento A.J. Greimas ne De l’Imperfection (Périgueux, Fanlac, 1987) ; o i rituali medio orientali analizzati da Morteza B. Moein e Jean-Paul Petitimbert in Sémiotique des pratiques mystiques, Actes Sémiotiques, 118, 2015.
Mi sembra un fenomeno analogo a quello che Daniele Barbieri descrive a proposito della scena di passione fra Tristano e Isotta dove Richard Wagner crea una interminabile iterazione melodica42. L’ascoltatore ha l’impressione di un crescendo anche quando in realtà la musica cala per intensità e altezza, e questo perché ogni ripetizione acquisisce rilievo per il semplice fatto di essere lì. A maggior ragione, quando si tratta di vendere musica, quest’ultima deve acquisire qualche forma di immediata persuasività. Anche questa problematica non è nuova : di nuovo Daniele Barbieri ci racconta che il primo rapper della storia è stato sorprendentemente sant’Ambrogio43. Per contrastare gli ariani che stavano per avere il sopravvento sui cattolici nella Milano del IV secolo, il venerabile vescovo va a ripescare la tradizione greca dell’inno in cui si loda Dio ma in modo ritmico. Come nel rap, l’inno dà uguale importanza alla parola e al ritmo (il dimetro giambico, in questo caso), coinvolgendo il fedele in una trance immersiva che lo induce ad aderire alla confessione cattolica. Dopo la musica potenzialmente fascista e potenzialmente patogena, arriviamo alla musica persuasiva, fondata su una adesione che è mentale, corporea e affettiva a un tempo44.
L’inno ambrosiano ci traghetta verso i nostri tempi : vediamo il caso di una delle canzoni di maggior successo del 2014, Happy, di Pharrel Williams, che è una riedizione molto interessante del Gospel tradizionale con tutto il suo corredo di alleluja, fede, gioia ritrovata, riscatto. La parentela con il Gospel è confermata anche dal video dove a tratti il coro è proprio un coro Gospel dentro una chiesa, con il cantante che gli canta e danza davanti. Pharrel, il cantante-stilista americano (che sia anche uno stilista è un dettaglio interessante), ripete nella sua canzone qualcosa come “batti le mani con me se ti senti come una casa senza tetto, se senti che la felicità è la verità”.
- Note de bas de page 45 :
Nel video ufficiale di Happy45, il carattere condiviso della felicità è ribadito dal fatto che in ogni inquadratura c’è una persona comune diversa che balla e canta solo apparentemente il motivo poiché la voce che si sente è sempre quella del cantante. La canzone e la felicità di cui narra sono istantaneamente, dionisiacamente, assunte dagli utenti. Perso il legame con la religione, l’alleluja diventa una faccenda del tutto laica che ciascuno declina a modo proprio : il ciccione facendo solo la mossa di saltare, la piccola afro-americana mimando una deliziosa break-dance, l’invalida sulla sedia a rotelle muovendo le braccia a tempo, e così via. È evidente che nessuno può resistere a un ritmo e a un messaggio di questo tipo : a chi non piace una musica allegra e ben arrangiata ; un filmato di quattro minuti, girato e montato alla perfezione, dove tutti sono simpatici, bravi e soprattutto felici ?
- Note de bas de page 46 :
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Pierre Bourdieu, La distinzione : critica sociale del gusto (1979), Bologna, Il Mulino, 2001. Titolo originale : La distinction, 1979. Sullo snobismo e il dandismo analizzati dal punto di vista semiotico, cfr. E. Landowski, Passions sans nom, Parigi, PUF, 2004, p. 267 e seguito.
- Note de bas de page 47 :
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Fabrizio Festa, Musica. Usi e costumi, Bologna, Pendragon, 2008. Carl Wilson, Musica di merda, Milano, Isbn edizioni, 2014. Titolo originale : Let’s talk about love, 2007.
Con meno pericoli di certe sostanze che comunque vanno per la maggiore, Happy procura un piccolo paradiso artificiale a cui difficilmente possono rinunciare anche gli snob, quelli che in genere cercano di distinguersi in base ai propri gusti46. Perché certa musica livella il gusto, ti costringe a canticchiare quel motivo anche se non vuoi, e a provare quelle emozioni anche se non vuoi. Queste produzioni sradicano la vexata quaestio dell’opposizione fra musica nobile e musica main stream, su cui sono intervenuti vari specialisti : vedi per esempio lo studio del compositore Fabrizio Festa e quello del critico musicale Carl Wilson47. L’ossessione di Wilson è Céline Dion e il suo successo planetario. In particolare è My Heart Will Go On, tema principale di Titanic, a imporsi come verme sonoro globalizzato. Vale la pena di leggere le parole di Wilson :
Quell’introduzione di flauto irlandese fischiettava comunque contro di me dagli altoparlanti nei bar, nei chioschi dei kebabbari, nei negozi, nei taxi quando me li potevo permettere. Schivare My Heart will Go On nel 1997-98 avrebbe richiesto di ritirarsi dalla civiltà del suono alla maniera di Unabomber. Per giunta ero un critico musicale. (Op. cit., p. 13 dell’ed. it.)
Quando viene chiesto alla cantante come si difenda dai critici ostili, lei risponde : “Facciamo il tutto esaurito da quattro anni. Il pubblico è la mia risposta. Allora il raffinato critico musicale del New York Times prende l’aereo e va a Las Vegas per verificare fisicamente chi siano i fan di Céline. Pieno di pregiudizi, si siede in platea per assistere allo show A new day e, secondo il suo stesso racconto, viene letteralmente risucchiato dalla musica tanto che, ascoltando Because you loved, gli si rigano le guance pensando alla propria recente separazione. Ma è giunto il momento di fare qualche precisazione e qualche esempio concreto.
Da quando il suono è riproducibile in modo casalingo, e cioè dall’invenzione del grammofono, è la pervasività dei motivi di successo che è cambiata. Dal punto di vista della durata oggettiva non si può dire che le canzoni, per esempio, siano più lunghe di una volta. Le playlist prevedono brani abbastanza corti, proprio perché lì la fruizione è veloce e un giovane fruitore non rimarrebbe facilmente per sei-sette minuti sullo stesso brano. Nelle extended version dei brani invece, abbiano un allungamento dei tempi, per un uso ambientale della musica, come sottofondo nei locali, per esempio. Anche l’accoppiamento di un brano con un video impone di regola alcune tempistiche legate allo script del video. Le canzoni di Sanremo sono passate dai cinque minuti dei primi decenni ai tre minuti e mezzo delle edizioni più tarate sulla fruizione televisiva moderna. Nella musica rock-pop del passato, accanto ai brani brevi dei Beatles c’erano i brani lunghi e lunghissimi dei Santana, o dei Pink Floyd, per citarne solo alcuni molto famosi ancor oggi. Insomma, se si volesse fare un ragionamento sulla lunghezza dei brani, bisognerebbe tenere conto di molti fattori : generi, contesti, d’uso, ecc.
Anche la ripetizione è connaturata alla musica. Si prenda per esempio un’opera barocca come Tisbe di Giuseppe Antonio Brescianello (1690-1758) : l’amato Piramo sta morendo fra le braccia di Tisbe e lui, alla sventurata (ispiratrice della Giulietta shakespeariana), ripete una quarantina di volta “mira serena, alma innocente, il mio morir”. Si noti qui come la ripetizione sia particolarmente assurda : perché mai una giovane donna dovrebbe guardare serenamente il suo amato mentre muore e come mai quest’ultimo ha tanto fiato in fin di vita ? È ovvio che qui non si può invocare il senso comune perché sono i canoni di un dato genere musicale e la ricerca di patetismo che danno un senso alla ripetizione.
- Note de bas de page 48 :
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Dura 3,29 minuti nel video ufficiale : https://www.youtube.com/watch?v=IyVPyKrx0Xo
- Note de bas de page 49 :
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http://www.dailymotion.com/video/x17e5fy_rihanna-shine-bright-like-a-diamond_music
- Note de bas de page 50 :
Nella musica di oggi, la sensazione che un brano non finisca mai e che ci si ficchi in testa deriva da una mancata articolazione fra “parti colorate” e “parti grigie”, per riprendere le parole di Franco Fabbri. In molti casi si va sempre, implacabilmente, ripetutamente, al punctum sonoro. Il concetto “Uuuuu uu uh You-you-you’re just my type” viene ribadito un numero impressionante di volte, con un sottofondo di ottoni da caravanserraglio ottomano, nel successo del 2014 dei Saint Motel intitolato My type48. Oppure si prenda poi la canzone di Rihanna Shine Bright like a Diamond (2012, 4,40 minuti nella versione video), dove sia l’uncino (Shine bright like a Diamond) sia il ritornello (We are beautiful like diamonds in the sky) vengono ripetuti innumerevoli volti in modo costante e ipnotico49. Non così accade, se si vuole fare un piccolo paragone, nella canzone dei Beatles che inevitabilmente richiama quella di Rihanna, Lucy in the sky with diamonds (1967, 2,39 minuti), dove il ritornello è sempre introdotto da un’ampia versificazione, ogni volta variata50.
- Note de bas de page 51 :
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Rispettivamente https://www.youtube.com/watch?v=hziG9Nr6KHU e https://www.youtube.com/watch?v =StJLvbPIvTw
Sempre per fare dei paragoni con il passato, vediamo Raindrops keep fallin’ on my head di Hal David e Burt Bacharach (1969), che dura meno di tre minuti, e confrontiamola con Sky Fall di Adele, (2012, 4,48 minuti nel video ufficiale51) : dopo un minuto e mezzo di introduzione, il refrain ci dice che il cielo cade e a due minuti e mezzo è già caduto quattro, cinque volte. Anche senza considerare le immagini rocambolesche dell’omonimo film di 007, vediamo che questo bel tema, cantato peraltro magistralmente dalla cantante britannica, indulge a una ridondanza che è sconosciuta al brano di Bacharach, nato anch’esso come colonna sonora di un celebre film (Butch Cassidy). Il cambiamento della lunghezza dei brani è un parametro molto significativo, dunque. The long and winding road dei Beatles (1970), con i suoi 3,68 minuti, era una canzone lunga per il gruppo di Liverpool, che di solito sviluppa in breve i suoi mirabili temi : per esempio Yesterday, dura 2,02 minuti. Una melodia così meravigliosa oggi sarebbe stata fatta durare almeno dieci minuti !
- Note de bas de page 52 :
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Lucio Spaziante, Sociosemiotica del Pop, Roma, Carocci, 2007, p. 113.
L’idea che voglio proporre è insomma che ci sia oggi uno sfruttamento intensivo della trovata musicale, una ripetitività che va ben oltre ogni ragione espressiva. Ci possono essere dei sintagmi seriali musicali dove la ripetizione crea effetti raffinati, quasi di isomorfismo con i ritmi corporei, come nel caso di Cowgirl degli Underworld studiato da Lucio Spaziante52. Ma non è di questo ciò di cui si parla qui. L’“uncinatura” (o hookizzazione) è un sistema confermativo anziché creatore di attese ; per usare di nuovo le parole di Franco Fabbri, è l’abbuffata di torta senza passare dalla bistecchina con gli spinaci.
Conclusioni
- Note de bas de page 53 :
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Su questo tema, cfr. Populisme et esthésie, Actes Sémiotiques, 121, 2018 e M.P. Pozzato, “Il giudizio di qualità sui testi estetici. Quali strumenti metodologici ?”, in Il metodo semiotico, a cura di Ana Maria Lorusso, Guido Ferraro e Riccardo Finocchi, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2008.
Abbiamo visto tre casi di eccesso : quello di descrizioni nei romanzi, come se le cose dovessero balzare dalla pagina da sole e con estremo grado di dettaglio ; quello di primi piani al cinema, come se il volto con la sua espressività antropologica ed etica dovesse di per sé fornire un significato pieno e interessante, solo per il fatto di essere ripreso en gros plan ; e quello nella musica di consumo, dove la ridondanza (nelle intenzioni) dovrebbe rendere superflua l’intermediazione del testo, della cultura, per far penetrare direttamente una canzone nella memoria e nel corpo del pubblico53.
- Note de bas de page 54 :
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Il verso è contenuto nella celebre canzone cantata da Lucio Battisti Eppur mi son scordato di te, del 1971. Mentre l’espressione “rosso rame” sarebbe stata ragionevole poiché il rame è rossastro, l’accoppiamento del rame con il verde è inusuale, soprattutto in riferimento ai capelli di una ragazza, soprattutto se consideriamo che in italiano esiste il termine “verderame” per indicare un anticrittogamico usato in agricoltura contro varie malattie delle piante.
I tre casi sono diversi fra loro ma indicano tutti un arretramento delle ragioni compositive, dell’articolazione delle opere, a favore di un materiale sempre più bruto, semi-lavorato, lasciato al destino di una fruizione acritica. Questo lo si vede anche nei testi delle canzoni contemporanee, più approssimativi che in passato. Se Giulio Repetti, in arte Mogol, scriveva “non piangere salame dai capelli verderame” era perché voleva di proposito introdurre una variante poetico-ironica rispetto a “non piangere salame dai capelli rosso rame”54 che, metricamente, ci sarebbe stato altrettanto bene. Quando c’è invece l’aggiustamento frettoloso della parte verbale alla musica, abbiamo versi incongruenti. Porto a esempio un brano musicalmente molto bello come Non me lo so spiegare di Tiziano Ferro (2003) dove la quarta strofa dice : “Mi ricordi che rivivo in tante cose / Case, libri, auto, viaggi, fogli di giornale / Che anche se non valgo niente perlomeno ho te / Ti permetto di sognare/”. Anche se il prodotto nel suo complesso è notevole, non ci si può sottrarre all’impressione che a livello di lyrics si poteva fare di meglio, e senza grande sforzo. Mai comunque peggio di Valerio Scanu, giustamente messo alla berlina sui social per i versi di Per tutte le volte che (2010) : “Per noi ... coperti sotto il mare / A far l’amore in tutti modi / in tutti i luoghi / in tutti i laghi / in tutto il mondo...”. Sarebbe bastato rinunciare alla miserevole allitterazione e scrivere “prati” invece di “laghi” e ci si sarebbe salvati dal ridicolo.
- Note de bas de page 55 :
Niente a che vedere con il demenziale voluto, di cui è piena la canzone rock e pop di tutti i tempi, tanto che non vale nemmeno la pena di fare esempi perché ciascuno di noi ne avrebbe a decine. Un caso ancora diverso è quello in cui, oggi come ieri, a un motivo musicale bellissimo fa coppia un testo banale. Si pensi alle note torbide e quasi ossianiche di Smoke on the Water dei Deep Purple (1973), musica indimenticabile il cui testo, tradotto, suona all’incirca : “Eravamo andati tutti a Montreux / Sulla spiaggia del lago di Ginevra / Per fare dischi con un furgoncino / Non avevamo molto tempo / Frank Zappa e i Mothers / Erano in una posizione migliore / Ma qualche stupido con una pistola a razzi / Incendiò l'edificio radendolo al suolo / Fumo sull'acqua, fuoco nel cielo”55.
- Note de bas de page 56 :
Purtroppo non sempre questa vena cronachistica è riscattata da una musica eccezionale. In L’abitudine di tornare di Carmen Consoli (2014) il ritornello, orecchiabilissimo e ripetuto molte volte, accompagna una storia famigliare che potrebbe essere parafrasata così : “Ho un amante che da anni dorme da me il sabato sera ma non lascia la moglie. Chi lo spiegherà al bambino che abbiamo avuto ?” Infine, quando una versificazione insensata si accompagna a un ritornello insistito, si ha un effetto trash di rara potenza, come nel Gangnam style di Psy con 3.259.214.618 visualizzazioni su Youtube (dato di gennaio 2019) e primo posto in classifica in trenta diversi Paesi nel 2012, anno della sua uscita56.
- Note de bas de page 57 :
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Cf. Hans Belting, Facce. Storia del volto, Roma, Carocci, 2014.
In questo caso tuttavia, il successo della canzone è inscindibile da quello del video, ovvero non è pensabile senza l’istrionismo in salsa orientale del cantante sudcoreano. Perché se il descrittivismo inesausto dei romanzi ha come sfondo la serialità e la Reality Tv ; se il primo piano insistito al cinema si innesta sulla “società facciale” dei selfie57 ; nel ritornello uncinante si ha sotto traccia la cultura video, nel senso che la ripetizione del ritornello e l’impoverimento del testo sono compensati dalle immagini. Quando Rihanna canta ossessivamente “Shine bright like a diamond” sembrerebbe una gallina che ripete il suo verso se nel frattempo non vedessimo, o ricordassimo, la sua splendida faccia sognante e sexy. Insomma dietro tutte queste estetiche della ridondanza va indagato un immaginario intermediale senza il quale tali ripetizioni non sarebbero accettabili.
- Note de bas de page 58 :
Un ultimo esempio, opposto, è anche un omaggio a un artista prematuramente scomparso. In un filmato che gira sul web58 si vede il grande cantante e musicista napoletano Pino Daniele mentre fa sentire per la prima volta al regista e attore Massimo Troisi il suo pezzo Tu dimmi quando (1991), scritto per il film di Troisi Credevo fosse amore… e invece era un calesse. Il regista ascolta con attenzione l’amico Daniele che gli canta la canzone accompagnandosi con la chitarra in una camera d’albergo, alla fine gli fa dei complimenti e poi, senza imporsi, quasi scusandosi, sussurra che forse, a un certo punto, quando la canzone dice “sì vivrò, e aspetterò tutto il giorno per vederti ballare”, si potrebbe invece mettere “sì vivrò, e aspetterò tutto il giorno per vederti andar via”. Pino Daniele non se lo fa dire due volte, riprova a cantare la canzone con il verso suggerito da Troisi e poi commenta : “sì, funziona”.
- Note de bas de page 59 :
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Denis de Rougemont, L’amore e l’occidente, Milano, Rizzoli, 1998. Titolo originale : L’Amour et l’Occident, prima edizione nel 1939 ma la versione ritenuta definitiva è quella a partire dal 1972.
Ora, chi conosce la canzone sa che il verso suggerito da Troisi è quello che dà il colpo d’ala al brano, perché non è banale, sorprende, va contro il senso comune : ma come ? Un innamorato che aspetta l’allontanamento dell’amata ? Ma chiunque abbia letto qualche romanzo o poesia d’amore, conosce il nutrimento paradossale che l’amore trae dall’assenza dell’amato, anche senza scomodare Denis de Rougemont59.
Insomma, un maggior lavoro sui testi, e un maggior ricorso a intelligenza, sensibilità e cultura possono creare un’alternativa alla facile e commerciale cultura contemporanea della ridondanza.