Le ragioni di una scelta (im)pertinente

Giulia Ceriani

Università di Siena

https://doi.org/10.25965/as.1296

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Parole chiave : autoriflessivit, differenza, insolenza, pertinenza, polemica, sospensione, sovversione, spostamento

Auteurs cités : Joseph COURTÉS, Algirdas J. GREIMAS, André Martinet, Michel MEYER, Piergiorgio Odifreddi, Dan Sperber, Alain Touraine, Deirdre Wilson

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Texte intégral

Le riflessioni contenute in questo volume sono raccolte intorno a una cifra comune : l’impertinenza, provocazione minima di ordine concettuale che andiamo di seguito a percorrere nelle sue diverse accezioni,  non può essere mai accidente  surrettizio o casuale.

Note de bas de page 1 :

 Cfr. anche P. Odifreddi, Il matematico impertinente, Milano, Longanesi, 2005.

Al contrario, è interesse di lungo corso, che forse faremmo meglio a chiamare inclinazione esistenziale. E che ha a che vedere, nel senso più ampio possibile, con un’epistemologia della ricerca  e più in generale del pensiero analitico, insofferente alle delimitazioni gerarchiche e ai comportamenti conformi ; ma anche,  con un riflesso di resistenza pronto a maturare sempre più come “imperativo morale e politico”1, nel senso pieno di non appartenenza a una congiuntura per molti versi sgradevole e immeritevole di consenso. Ma questa è un’altra storia. O forse no, se è vero che la matrice di impertinenza trae ovviamente origine in non pertinere, e  — nella non chiusura all’interno di un confine ben definito e ad essa dunque logicamente antecedente —, trova la sua ragion d’essere primaria.

L’impertinenza si porrebbe dunque anzitutto come un movimento reattivo, la risposta testimone di un’insofferenza insopprimibile a un paradigma, a un sistema, a una convenzione. Altro modo, e modo più vulgato, per indicare  — attraverso la lunga lista di sinonimi con cui costruisce il proprio campo semantico (insolenza, anzitutto, e poi impudenza, sfacciataggine, sconvenienza, arroganza, in un crescendo che arriva curiosamente fino alla procacia…) — un duplice contesto di esistenza che ne fa la seconda e non ultima ragione del nostro interesse : ambito del conflitto di senso da un lato, pronto a tracciarne la non ammissibilità all’interno di una logica data ; e ambito dell’indisponibilità sociale dall’altro, disposto a sottolinearne la connotazione patemica e provocatoria, dall’intenzionalità apertamente autocompiaciuta.

L’impertinente è forzatamente marginale (viene dopo, e nel ruolo di portatore di atteggiamento negativo verso uno stato convenzionale), dunque isolato ; dunque felicemente individualista.  Dunque diverso. La differenza che lo qualifica non è evidentemente estranea né sorprendente, poiché mette in gioco quell’opposizione tra alterità e identità che è condizione primaria della produzione di senso. Va detto allora che l’impertinenza presuppone la conoscenza, da parte del soggetto che la pratica, dell’attante a cui si contrappone per fondare la propria individualità ; il suo gesto è sempre atto di resistenza prima che di affronto, organizza una risposta rispetto alla presa di coscienza di una situazione, e sulle basi di quella risposta stessa inscrive la propria attività.  Appartiene all’ordine del polemico, che gestisce con gradualità diverse e all’interno di configurazioni tematiche che vanno dalla topicalizzazione rivoluzionaria a quella meramente controinterpretativa, fino a toccare ambiti retorici dalle diverse possibili connotazioni, dal sarcasmo, all’ironia, all’irriverenza.

E appare come cifra prepotentemente identificativa della spinta alla rottura di una congiuntura irrigidita e satura, svuotata di senso proprio in funzione dell’inseguimento prono del consenso.

1. Il concetto di impertinenza

L’impertinenza rappresenta dunque un’area concettuale che ci interessa per  un doppio ordine di ragioni, semantico e socio-relazionale, testuale e contestuale al contempo, se mai le due dimensioni potessero essere artificiosamente scisse.

Note de bas de page 2 :

 Cfr. Algirdas Julien Greimas e Joseph Courtés, Dictionnaire raisonné de la théorie du langage, Paris, Hachette, 1979, p. 276.

E dunque, sul piano semantico, la questione è evidentemente quella di tracciare i contorni di quanto possa essere definito in opposizione alla pertinenza (voce sacrale quest’ultima, voce espunta da ogni dizionario quella che la nega). Se pertinente è, nell’accezione semio-linguistica che discende da Martinet, il tratto distintivo che qualifica l’utilità a comunicare, e poi in senso più esteso la regola secondo la quale non devono essere presi in considerazione di un sistema che gli elementi utili a esaurire la sua definizione, fino all’adozione del punto di vista significativo (quello pertinente) come garante dell’ammissione o dell’esclusione a/da un corpus all’interno del circuito privilegiato dell’analisi2, allora il concetto di impertinenza ha fortemente a che vedere con quello di legittimazione (o meglio, con la negazione di quest’ultima).  Fatta salva l’opportunità di focalizzare un fuori campo — un’area della non pertinenza, per l’appunto — che consenta di individuare percorsi alternativi in quanto non appartenenti a ordini di riferimento precostituiti ; e dunque forieri di nuova immaginazione, di significazione altra e altra significazione.

Il secondo percorso concettuale che ci interessa, altrettanto bene retto dal fatto che il nostro lessema  di riferimento è tra i più ambigui e controversi dell’enciclopedia  (come non notare la difficoltà  dizionariale ad attribuire sinonimi e contrari effettivamente affini, e non sovrainvestiti da un giudizio negativo, dal quale invece la parola stessa /impertinenza/ appare in sé miracolosamente preservata), è dunque quello sociologico e relazionale, là dove come “impertinente” si qualifichi un comportamento che esula da quanto consentito dalla dimensione contrattuale stabilita, andando ad alterare con varia intensità passionale (dall’ardire all’arroganza, dall’insolenza alla derisione, ecc.) l’equilibrio previsto tra le parti in causa. Da questo secondo punto di vista, l’impertinenza è molto più vicina all’insolenza (negazione questa di /solere/, avere l’abitudine) : come dire che appartenenza e consuetudine volentieri si ricoprono, molto togliendo al senso pieno/volontario dell’appartenere ; piuttosto, un’adeguazione passiva, alla quale il gesto insolente/impertinente opporrebbe un sussulto volontario e del tutto intenzionale. Idea di una competenza interiore potenzialmente minacciosa, proprio perché atta a sviluppare dall’interno la sua sfida, minando insidiosa  le basi del contratto sociale.

Note de bas de page 3 :

 Cfr. Michel Meyer, De l’insolence, Paris, Grasset et Fasquelle, 1995, p. 10.

Come Michel Meyer scrive opportunamente, nello sforzo di definire quanto giustifica l’irruzione dell’insolenza come arma di rovesciamento, “Le social est fondé sur une fiction : l’adéquation de l’ être et du paraître. Est général celui qui porte les insignes du général comme est prêtre celui qui en a les marques apparentes, et par là — c’est le but de tels signes — on se place dans l’ordre de l’évidence3.  Il “reale” non è se non l’effetto di senso generato dalla relazione tra essere e apparire : precondizione di ogni riflessione semiotica ma anche necessario criterio di presa di distanza dalla strettoia dell’oggettività di regime. Meyer colloca nel 1460 l’apparizione della parola impertinenza, e  pareva allora significare solo l’insolito e l’inabituale. Oggi invece (come testimonia largamente la disapprovazione tradita dai dizionari contemporanei), essere insolenti è essere impertinenti a un livello di ben maggiore pericolosità sociale, significa dichiarare la possibilità di altre certezze, di altri modi di esistere, di una diversa soggettività.

Di fatto, l’impertinenza apre le porte alla costruzione di un sistema alternativo, che — superato il momento della negazione — assume inevitabilmente il riconoscimento di regole proprie.  Diciamo allora che, all’interno di una retorica propria legata all’inversione, essa tocca una configurazione specifica e impegnativa, quella della sfida : cui assolve con una sovversione precisa delle apparenze, che trova modo di essere a sua volta ritualizzata (vedi la figura del buffone shakespeariano, vedi la canonizzazione delle maschere della Commedia dell’Arte, vedi la riconoscibilità dei canoni deformanti di molta satira) ma anche di cristallizzarsi — ed è oggi quanto più ci interessa —, in figure/icone di straordinario consenso : è stata a suo tempo impertinente  la vittoria di un candidato come Barack Obama, lo è l’acquisto di una Tata Nano  (2000 dollari ) invece di una Fiat Cinquecento, lo è stato nella televisione italiana il minivarietà di Fiorello e Baldini, lo sono le sneaker Converse pittateda  Frida Kahlo,  ma anche una materia impossibile come la bio- plastica che rimette in discussione i confini tra naturale e artificiale, e ancora più tra eco-sensibilità e eco-opportunità.

In tutti questi esempi — che sono finalmente quelli di un’impertinenza “trionfale” perché collante di larghissimo consenso —, si avvera l’equilibrio perfetto tra una negazione vistosa (non approvazione del sistema di riferimento) e la ricreazione grazie a questa di una nuova definizione del mondo : di altra pertinenza sulla base della prima impertinenza investita.

Invertire, smontare, confondere, irridere : l’impertinenza è una forma di aggressività non distruttiva, anzi riteniamo fortemente intenzionata alla ricostruzione, restia ad esaurirsi nella pura negazione. Per questo, si presenta come una piattaforma concettuale fertile, attraverso la quale mettere a frutto le potenzialità di un presente in sé tendenzialmente disforico. E appare dimensione privilegiata di una riflessione interdisciplinare che riconosca l’utilità di un approfondimento del rapporto con la ragione logica per contemplare le ragioni della devianza e la natura degli effetti di senso generati a partire dalla presa in conto di uno scarto. Che lo si consideri come forma di spreco produttivo o al contrario di insostenibile provocazione, come arricchimento della scena cognitiva o come perturbazione della quiete intersoggettiva.

2. La struttura dell’impertinenza

Note de bas de page 4 :

 Cfr. Algirdas Julien Greimas e Joseph Courtés, Dictionnaire, op.cit., p. 88.

Se l’insolenza è il rovescio dell’autorità “consacrata” — privilegio dei folli, dei buffoni e, sempre meno, degli intellettuali — il riconoscimento della sua esistenza passa da una rottura vistosa del patto enunciativo fondato sul mutuo scambio. Avalla uno spostamento, enuncia — autoriflessivamente — anzitutto il luogo di una differenza, l’irruzione all’interno della continuità discorsiva di una discontinuità denegatoria : è la gamba di una sedia improvvisamente annodata (Les Bourroulec), è il braccio di Michelle Obama dietro le spalle della regina (o viceversa), è l’hacker che si infila nei monitor del Pentagono.  Si nega e contemporaneamente si afferma, si abbattono i vincoli del contesto a cui si apparteneva (la categoria, la situazione, il ruolo, ecc.) e si propongono/impongono le regole appartenenti a una diversa legittimazione. Operazione di denegazione, che presuppone dunque l’esistenza di un enunciato di asserzione o di negazione anteriore, implicando di necessità una prospettiva sintagmatica ancorché di implicazione4.

Inoltre : atto di rottura enunciazionale ben prima che enunciativa, cambio di paradigma che rinnova la competenza semiotica, predicato intenzionale che rompe la corrispondenza artificiosa tra essere e apparire e porta l’apparenza a rinviare ad altra sostanza.

Partita a tre : tra un soggetto che lancia la sfida e un anti-soggetto che dalla non accettazione della provo­cazione trae la miglior difesa, l’antidoto perfetto : non raccogliere il guanto, non riconoscere la rottura come  provocazione, poiché chi è responsabile dell’impertinenza non può essere un eguale, e attraverso il suo stesso gesto impertinente si pone al di fuori del cerchio protetto di quanto è legittimo. Al centro, un oggetto della contesa che è il senso legittimato, il perno del rovesciamento isotopico: chi sta dentro  e chi fuori, chi è pertinente e chi impertinente, la questione è demandata all’assunzione ideologica dell’impertinente stesso, che propone all’osservatore — terzo e imprescindibile attante — una via seconda, parallela e possibile.

La struttura narrativa della sequenza appare in questo contesto tanto elementare quanto canonica: la prova qualificante si fa forte di una competenza modale rinnovata, che interviene là dove l’essere dell’antisoggetto decide di lavorare sulla propria intenzionalità prima che sull’azione conseguente, investendo in un programma manipolatorio che lascia credere al soggetto detentore della legittimità di assistere a una “semplice” lotta per il potere. Ma il programma è più complesso, proprio perché non frontalmente oppositivo : l’impertinente investe la prova decisiva spiazzando il suo avversario, obbligandolo a riorganizzare il proprio punto di vista. Guadagna tempo, in questo modo, e si aggiudica la disgiunzione del valore dal consenso allargato, in una parola la riapertura dei giochi, il confronto e la sfida.  Dove glorificante sarà l’acquisizione della sanzione positiva di una platea altra e in qualche modo vergine, che si riconosce nella frattura e calza con orgoglio gli occhiali che consentono la nuova visione.  Ricostruendo di lì in poi una propria rinnovata identità.

Ma se questa è — ci sembra — grosso modo la struttura narrativa dell’impertinenza, ci preme ritornare sul momento apicale, quello dell’equilibrio paradossale in cui il giudizio negativo considera l’impertinenza uno sgarro e quello in cui, contemporaneamente, un giudizio possibilmente positivo interviene a correggerlo, e a mostrarne perfino il valore positivo di un’apertura.  Si tratta di una configurazione inequivocabilmente binaria, che mostra la facoltà di chiudere un contratto e  contemporaneamente di aprirne un altro opposto e simmetrico: a colpire, è il picco di assoluta potenzialità aperto dallo scarto impertinente ; per questo rischioso, offensivo, represso da alcuni, quanto amato, praticato, scelto come prassi esistenziale da altri.

Luogo retorico in cui si decide, strutturalmente di non appartenere. Sottrazione di consenso, e miracolo attualizzato di una sospensione possibile dell’urgenza di realizzazione.  Finché sono impertinente (dunque, tutto sommato, pazzo non pericoloso e assassino non mortale) posso evitare di scegliere, posso aspettare di concludere — durerà poco, ma è un tempo che pure, esiste —, posso non essere proprio perché mi sono spogliato dell’apparenza approvata, e evitarmi almeno temporaneamente di indicare la strada di un altro modo di esistere che mi ricondannerà alla persistenza. Alla pertinenza.

3. Le pertinenze dell’impertinenza

Come mostra l’articolazione variegata degli interventi contenuti in questo volume, le pertinenze dell’im­pertinenza sono molteplici. Se, per quanto ci concerne, l’esigenza era quella di dare forma e spessore a una diversa procedura interpretativo-generativa la cui urgenza ci è sembrata maturare in seno allo studio — e alla pratica — dei fenomeni di tendenza in ambito socioeconomico, ben più vasti sono gli ambiti in cui è investito l’insieme delle riflessioni qui presenti : dall’epistemologia dell’impertinenza, ovvero il suo mettere in discussione tanto la decisione isotopica quanto la scelta di un’interpretazione artistico-creativa data, alle sue responsabilità dentro prese di decisione relative allo scarto, alla resistenza, al déplacement di un gesto solo apparentemente osservante, fino al suo investimento nelle pratiche che caratterizzano l’attività intellettuale stessa.

Ma l’accezione di impertinenza alla quale più volentieri facciamo riferimento — ancorché in questo volume non esplicitamente affrontata, ci sembra largamente condivisa —, è quella politica, che investe la dimensione sovversiva di un “penser autrement” ripartendo dalla forza rivoluzionaria del soggetto per rovesciare le debolezze di un attante collettivo alla cui identità condivisa non ci si sente più di credere.

Abbiamo avvicinato proprio con questa intenzione impertinenza e insolenza, e su questa scia ci permettiamo di citare ancora Michel Meyer :

Note de bas de page 5 :

 Op. cit., p. 204.

“L’insolence, c’est l’innocence du regard, c’est la voix de l’idéaliste, et si elle est aussi l’irrespect de la différence à l’encontre d’un égalitarisme absolu qui tue à terme la bonne insolence, elle n’en est pas moins indispensabile à toutes les sociétés, y compris la nôtre.  Une insolence qui, de toute façon, ne tient pas lieu de solution, sans doute parce qu’elle ne prétend pas, elle, être autre chose qu’une remise en question”5.

Note de bas de page 6 :

 Dan Sperber e Deirdre Wilson, Relevance, Oxford, Blackwell, 1986.

Niente di più lontano, come si vede, dall’algida teoria ostensivo-referenziale di Dan Sperber6, nel nostro contesto dichiaratamente non pertinente : la vis polemica dell’impertinenza porta con sé una qualità passionale peculiare. La sua non appartenenza non si configura come uno stato, ma come un’istanza tensiva  suscettibile di caricarsi diversamente in funzione del rapporto che si crea tra forme e sostanze, e più precisamente nell’interazione tra soggetti che vedrà l’oscillare dell’impertinente tra soggetto cognitivo e soggetto patemico in funzione della qualità/quantità di intenzionalità investita nell’atto che lo connota come tale : discontinuo e brusco come un movimento oppositivo, continuo e sottopelle come una disobbedienza non vistosa, non discontinuo e quasi metodico, come uno sgarro ripetuto, non continuo e brusco come un’intolleranza (ecco un altro interessante quasi sinonimo), che si manifesta improvvisa e non prevista quanto passionalmente necessaria.

4. Il gusto dell’impertinenza

Un piacere proprio e fortemente soggettivato, ci sembra, quello che avvicina altrimenti l’impertinenza a un atto di disturbo non troppo grave, a una minaccia gentile, a una forma di aggressività tollerabile e in qualche modo non priva di connivenza con il bersaglio stesso delle proprie provocazioni. Il gusto dell’impertinenza è una forma di autocompiacimento che mira dritto al piacere di sentirsi/ascoltarsi voce fuori dal coro.

Effetto di uno sdoppiamento : tra sé e sé, in ragione dell’osservazione del proprio atto ; tra sé e l’altro, in funzione della necessità di riconoscerlo volta a volta come nemico e come testimone, come nemico e come complice, come complice e come ostaggio di una configurazione specialmente tramata per trarne un nostro specifico godimento.

Gusto che apre alla duplicità di esistenza dell’impertinente, quello che ne assume le figure secondo i canoni stereotipi dello strappo, della sgrammaticatura, del rovesciamento di ruoli, secondo modalità prescritte dai diversi contesti di riferimento ; e quello, che diremmo — forse in modo impreciso — assume l’impertinenza come implicito, come non detto, come impasse sostanziale che ne interpreta la dinamica plastica, ma resiste all’assunzione di un ruolo tematico, quale che sia.

Piacere, in ogni caso,  della distanza. Della differenza. Dell’isolamento di un soggetto che si rapporta anzitutto a un soggetto altro, e ha finalmente poco a che spartire con l’istituzionalizzazione di un’oggettualità quale che sia. Il compiacimento è meccanismo eminentemente autoriflessivo, l’impertinenza soddisfa fino in fondo i capricci e le esigenze, i tratti (im)pertinenti e le caparbie di una relazione al mondo che si vuole brusca e sgarbata anche, ma ancora capace di reazione, e di resistenza.

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