Il paradosso dell’organizzazione « creativa »

Pierluigi Cervelli

Università di Roma La Sapienza

https://doi.org/10.25965/as.6274

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Mots-clés : ajustement, formation, groupe de travail, organisation, programmation

Auteurs cités : Maria Cristina ADDIS, Tiziano BOTTERI, Michel de CERTEAU, Guido CREMONESI, Paolo DEMURU, Chester ELTON, Henri FORD, Adrian GOSTICK, Eric LANDOWSKI, Claude LÉVI-STRAUSS, Jean-Paul PETITIMBERT, Rosario SICA

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Texte intégral

Introduzione

L’obiettivo di questo contributo è riflettere sul rapporto fra comunicazione e organizzazioni nell’ambito della formazione delle « risorse umane », ed in particolare della formazione relativa alle « competenze trasversali ». Si tratta di « saperi » non legati alla specifica mansione lavorativa ma alla qualità dell’interazione in un gruppo di lavoro : la comunicazione « efficace », la « creatività », la capacità di lavoro « in gruppo ». Utilizziamo le virgolette perché queste capacità non sono « conoscenze » o « competenze » come le altre. Sono difficilmente definibili, e sopratutto la loro trasmissione nel corso dei processi formativi non può ridursi né a una serie di « buone pratiche » da riprodurre meccanicamente né a un sapere puramente teorico.

Note de bas de page 1 :

Roberto Ciccarelli, Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale, Roma, DeriveApprodi, 2018.

Dal punto di vista del lavoratore la modalità di organizzazione del lavoro a cui queste competenze sono connesse è presentata come un’opportunità : l’opportunità di avere un lavoro in cui potersi esprimere, in cui poter decidere cioè autonomamente contenuti, modalità e tempi di lavoro, e persino, sulla base dello specifico compito da svolgere, la leadership del gruppo. Si è obiettato che questa è solo una « retorica » e che di fatto i modelli produttivi che hanno introdotto la « creatività » e il lavoro di gruppo all’interno dell’azienda hanno poi incentivato controlli costanti della produzione individuale, anche attraverso dispositivi elettronici e un calcolo al secondo dei tempi1.

Tuttavia queste critiche, di cui non ci proponiamo di negare la validità, non sembrano individuare il fatto paradossale che queste richieste di lavoro « creativo » e comunicativo, più che nell’aumento dei controlli, abbiano come esito la richiesta di nuovi doveri. La competenza interazionale « accresciuta » dalla formazione si fonda infatti sul postulato di una incompetenza modale del lavoratore. Da questo derivano l’estrema difficoltà ed i rischi per l’azienda connessi alla trasmissione di queste forme di sapere che non sono riducibili a contenuti disciplinari specifici ma relativi a pratiche di interazione, modi di essere e fare assieme.

1. La programmazione organizzativa ed il suo contromodello

Note de bas de page 2 :

Rosario Sica (a cura di), Employee Experience. Il lato umano delle organizzazioni nella quarta rivoluzione industriale, Milano, FrancoAngeli, 2018, p. 105.

1. Rosario Sica, uno fra i maggiori esperti italiani del rapporto fra trasformazioni organizzative e nuove esigenze di formazione scrive : « (…) le organizzazioni sono oggi impegnate in uno sforzo senza precedenti per mobilitare, adattare e cambiare il loro assetto di fronte a mercati in forte trasformazione. (…) alcuni osservatori collocano il tasso di fallimento di questi tentativi al 70 %. Ci sono varie interpretazioni al riguardo, ma una delle più comuni è quella che sottolinea la propensione dei leader aziendali per strutture formali e interventi sui processi anzichè per alternative human centered »2. Le « strutture formali » da cui ci si dovrebbe distaccare sono quelle dell’industria di massa, di tipo fordista.

Questo tipo di industria era basata su una programmazione dei processi produttivi che implicava poche operazioni semplici e ripetitive, con controllo rigido dei tempi di lavoro. Per lavorare bene era sufficiente l’apprendimento di un numero ridotto di regole e l’adattamento del lavoratore alla macchina, tale da permettere lo svolgimento dei compiti nel modo più veloce possibile. Non c’era alcun bisogno di preparare il lavoratore all’interazione con gli altri lavoratori, perché l’interazione comunicativa all’interno dell’azienda seguiva uno schema fissato in anticipo : in caso di evento critico all’interno del processo produttivo — l’irruzione del caso in un processo che doveva tendere alla regolarità — i lavoratori comunicavano seguendo una catena gerarchica fissa sino ad arrivare al livello aziendale necessario per la risoluzione dei problemi. Si trattava di una programmazione della comunicazione basata su un modello gerarchico che escludeva ogni forma di autonomia (e a fortiori l’idea stessa di una « creatività » individuale) da parte dei « subordinati » e che per questo non richiedeva nessuna competenza particolare in tema di comunicazione. In termini socio-semiotici il modello organizzativo prevedeva una distribuzione della competenza modale degli attori molto squilibrata : ogni lavoratore conosceva in modo molto dettagliato il suo « ruolo tematico », ossia la sua mansione. Ma non aveva, nè era necessario che avesse, alcuna coscienza dell’organizzazione complessiva ; la sua competenza, e il saper fare che essa permetteva, era valorizzata solo nell’ottica della mansione lavorativa individuale. La conseguenza dal punto di vista interazionale era che, per i lavoratori subordinati, non c’era nessuna possibilità di prendere l'iniziativa se non in casi strettamente attinenti al proprio compito.

Note de bas de page 3 :

Henri Ford, La mia vita, le mie opere (1922), trad. Milano, La Salamandra, 1980. Parlando dei tipi di lavoro egli infatti afferma : « E noi trovammo che 670 potevano essere affidati a uomini privi dell’uso delle gambe, 2637 a uomini con una gamba sola, 2 a uomini senza braccia, 715 a uomini con un braccio solo, e 10 ai ciechi (…) », p. 111.

La selezione e l’inserimento del personale avvenivano dunque senza alcun bisogno di dialogare o negoziare l’occupazione assegnata al lavoratore, trasformato così da soggetto in oggetto. La formazione del lavoratore era sostituita infatti da un processo di apprendimento di tecniche per l’ottimizzazione produttiva, attraverso la collocazione dell’elemento singolo in un’ambiente già costituito in cui non restava altra possibilità che l’adattamento. Non a caso questa forma organizzativa era perfetta per il re-inserimento dei feriti in guerra, dei mutiliati e degli invalidi : parlando del lavoro nella catena di montaggio Ford magnifica proprio questa capacità3.

Negli stessi anni in Italia la stessa concezione si è tradotta concretamente nell’idea che fosse possibile indicare il ruolo lavorativo adeguato sulla base di una verifica delle disposizioni fisiche e delle capacità di adattamento del futuro lavoratore che iniziava già prima del lavoro, sin dall’infanzia e dalla scuola, ad opera di medici specialistici. Nella città di Roma era infatti attivo nel 1926 un « gabinetto di psicotecnica » in cui sulla base di modelli di lavoro fordisti e tayloristi si misuravano la resistenza alla fatica e si valutavano le attitudini psicofisiche degli alunni degli istituti professionali. In casi come questi, non vi è alcuna considerazione dei desideri, delle aspirazioni, dei progetti del lavoratore, ridotto ad uno strumento più o meno docile di un destinante — l’« esperto » — sia esso imprenditore, ingegnere o medico. Il regime semiotico proprio di questa organizzazione è ovviamente quello della programmazione.

Il modello fordista, ed i suoi equivalenti, si basano infatti su un numero limitato di operazioni semplici da ripetere un numero variabile di volte e non hanno perciò bisogno di individui dotati di competenze globali, capaci di analizzare un problema complesso, di scomporlo, di evidenziare i punti critici su cui agire. In questa concezione meccanica e quantitativa del lavoro, che richiede la massimizzazione dell’adattamento del lavoratore ai processi di produzione, il sapere ed il potere sono interamente dal lato di uno dei attori coinvolti, l’imprenditore. I processi organizzativi si caratterizzano per una naturalizzazione dell’esperienza lavorativa, in cui il collocamento del lavoratore assume un valore « ecologico » di inserimento, collocazione e adattamento in un ambiente già dato, che può essere gestito senza che il lavoratore sia mai consultato. I lavoratori subordinati non hanno, almeno teoricamente, bisogno di imparare nulla, se non quanto strettamente connesso al proprio compito da svolgere : sono ridotti a degli esecutori meccanici di programmi ripetitivi i cui comportamenti sono virtualmente prevedibili nel loro sviluppo futuro in ogni fase del lavoro.

Note de bas de page 4 :

Michel de Certeau, L’invenzione del quotidiano, Roma, Edizioni Lavoro, 1990.

2. Ma ogni dispositivo, ogni regime di interazione tende inevitabilmente, dalla propria dinamica, a generare — a partire dal « rimosso » che lo costituisce — una sorta di suo « contromodello ». Nel caso qui evocato, dove la creatività e l’individualità erano espunte dai processi lavorativi, é ben noto che esse riemergevano surrettiziamente in pratiche come quella della perruque, ossia il « lavoro di straforo ». Michel de Certeau ne ha fatto l’analisi come una « pratica del riuso » di scarti e di tempo all’interno dell’azienda4. Egli considera il caso in cui i lavoratori impiegano i tempi morti della produzione per produrre a partire da materiali di scarto degli oggetti da donare, e giudica questo processo come un rovesciamento « sovversivo » dell’organizzazione del lavoro. Alla logica della produzione e del profitto, scrive infatti de Certeau, i lavoratori sostituiscono una logica del dono e un’etica della tenacia.

Note de bas de page 5 :

Cfr. Paolo Demuru, « Prendere posizione », Actes Sémiotiques, 120, 2017 ; id., « De Greimas a Eric Landowski. A experiência do sentido, o sentido da experiência : semiótica, interação e processos sócio-comunicacionais », Galaxia, 2019. E. Landowski, Rischiare nelle interazioni, trad. Milano, FrancoAngeli, 2010.

Ma si tratta anche di una pratica dell’astuzia, il cui progetto rovescia, per produrre qualcosa di individuale e creativo, il senso degli strumenti e dei residui che l’organizzazione della produzione seriale produce. De Certeau riferisce anche questo modello, fondato sull’idea della pratica come « arte » di utilizzare « ciò che è imposto », alla nozione di bricolage teorizzata da Claude Lévi-Strauss come fondamento del « pensiero selvaggio ». L’accostamento non è casuale : non a caso l’antropologo situava il pensiero selvaggio, nelle società occidentali, nel campo della marginalità : le grandi periferie urbane, le classi subalterne. In termini socio-semiotici, tale strategia si avvicina molto all’idea sviluppata da Paolo Demuru a partire della nozione landowskiana di aggiustamento in contesto polemico, ovvero di un aggiustamento resistenziale in cui il soggetto, senza mai opporsi al suo avversario, guadagna la propria forza approfittando delle sue stesse azioni : ad esempio nel duello, dallo slancio dell’altro, o, nelle relazioni con le organizzazioni (istituzionali o aziendali), dalla rigidità cieca della loro logica d’azione5.

Sia il modello della « perruque » che quello del « bricolage » condividono senza dubbio l’idea di una sovrapproduzione di senso a partire dal già dato : come il pensiero selvaggio « produce del nuovo con del vecchio » a partire da « blocchi di significato preformati », ossia quello che si ha sottomano, a disposizione, allo stesso modo il lavoro di straforo riproduce questa dimensione — di per sé creativa — che per de Certeau rovescia la logica stessa della catena di montaggio, tipica della relazione organizzativa spersonalizzante basata sulla programmazione.

Note de bas de page 6 :

Cfr. Umberto Eco, “Per una guerriglia semiologica”, in Umberto Eco (1973), Il costume di casa, Milano, Bompiani.

La tattica, sottilmente e altamente conflittuale, dell’evitamento del conflitto aperto si traduce nella dissimulazione di una contro-interpretazione, per certi versi affine alla « guerriglia semiologica » di cui aveva parlato Umberto Eco6. Essa caratterizza per de Certeau molte pratiche di resistenza : ad esempio la risemantizzazione da parte degli Indios colonizzati della religione cattolica loro imposta. Ma è anche il caso dell’uso politico della religione nel culto di Frei Damiao da parte dei contadini brasiliani del Pernambuco, che si traduceva concretamente nel mantenimento del solo livello figurativo del discorso religioso, di cui era sostituita un’isotopia tematica di tipo politico. Così la vicenda dei racconti di miracolo che riguardavano il santo veniva interpretata dal punto di vista di una contrapposizione fra sfruttati e sfruttatori.

Note de bas de page 7 :

Cfr. Jean-Marie Floch, Identità visive, trad. Milano, FrancoAngeli, 1995.

Note de bas de page 8 :

M. de Certeau, op. cit., p. 50.

Quello che de Certeau aggiunge al modello Lévi-straussiano del bricolage (e che segna una differenza radicale con l’uso che ne ha fatto Jean-Marie Floch7) ci pare situarsi nella presenza della dimensione polemica e strategica (contro-programmatoria e/o anti-manipolatoria) sottesa alla risemantizzazione : mentre per Lévi-Strauss questo aspetto rimaneva implicito, è al conflitto sotterraneo contro la società della produzione e del consumo che de Certeau fa continuamente riferimento8.

2. Alla ricerca di una formazione rinnovata

1. La ricerca intorno alla formazione dei lavoratori si presenta come una branca disciplinare legata alle trasformazioni del lavoro dovute al superamento dei modelli organizzativi fordisti e adatta al contesto produttivo contemporaneo in cui occorrono soluzioni personalizzate e risoluzioni ad hoc di problemi complessi.

Note de bas de page 9 :

Cfr. Abraham Maslow, Teoria della motivazione umana, trad. Milano, Pirelli, 1973.

Questo processo è definito come un passaggio dalla produzione di massa all’« industria della conoscenza », ossia da un’organizzazione lavorativa centrata sulla macchina a una, più flessibile, comunicativa, « centrata sulle persone ». Il suo punto di inizio è situato negli Usa degli anni ’50 del ’900, quando inizia una ricerca specifica sulle organizzazioni di impostazione motivazionale. Tale approccio nasce nelle ricerche sulla motivazione dei lavoratori, principalmente seguendo le teorie di Abraham Maslow, come una branca applicata della psicologia che si propone l’obiettivo di aumentare la motivazione dei lavoratori ottimizzando e « migliorando » i processi lavorativi, in vista di una maggiore facilità nel raggiungimento degli obiettivi dell’impresa. Così si pone per la prima volta il tema delle interazioni nelle organizzazioni di lavoro come fattore necessario non solo al raggiungimento degli obiettivi produttivi ma al funzionamento stesso dell’organizzazione9.

Note de bas de page 10 :

Adrian Gostick e Chester Elton, Vince il migliore. La guida definitiva per i team leader. Come sviluppare team collaborativi, produttivi e creativi, Milano, Francoangeli, 2018, p. 36.

La necessità di questo tipo di trasformazione viene presentata tuttora (dai formatori e dalle aziende che si occupano di formazione) ai partecipanti come una conseguenza della trasformazione dei sistemi di organizzazione e di produzione contemporanei, incentrati sulla personalizzazione, la diversificazione, la flessibilità. Ad esempio, in un paragrafo significativamente intitolato « La struttura organizzativa : da comando a responsabilità diffusa », in un recente testo Adrian Gostick e Chester Elton scrivono : « La struttura organizzativa tradizionale gerarchica funziona secondo una linea ben precisa di responsabilità ed è inequivocabilmente disegnata per rispondere a problemi e questioni complicate piuttosto che complesse. (…) La velocità e molteplicità di risposte richieste dalla complessità del mondo attuale comportano invece una struttura organizzativa meno strutturata e più agile, in cui le persone siano in grado di dare le risposte che servono in tempi brevi e bypassando tutta una serie di costrizioni e convinzioni gerarchiche che rallentano il meccanismo e rischino di inficiarne l’efficacia »10.

Per questo le capacità « creative », le abilità comunicative e la relazione fiduciaria fra i membri del gruppo di lavoro sono — o sarebbero — attualmente in primo piano. Il modello della comunicazione unidirezionale e dell’interazione programmata viene accantonato per privilegiare dei modelli di impresa definiti « a rete » o « a matrice », caratterizzati da possibilità di interazione e comunicazione variabili sulla base delle effettive necessità organizzative, in modo da poter rispondere con maggiore flessibilità alle crisi (o « accidenti ») organizzativi. Il presupposto di questo modello è la necessità di conformare le risposte aziendali agli improvvisamente mutevoli « bisogni » del mercato : se Ford era convinto di poter annullare tutte le variabili extraproduttive, nel contesto contemporaneo bisogna essere pronti a rispondere ad ogni improvviso cambiamento ossia, di fatto, essere pronti a ri-progettare la produzione aziendale — sia in termini di oggetti che di conoscenza — sulle variabili idiosincratiche e al limite individuali (dei singoli clienti / consumatori).

Note de bas de page 11 :

Cfr. Jean-Paul Petitimbert, « Entre l’ordre et le chaos : la précarité comme stratégie d’entreprise », Actes Sémiotiques, 116, 2013.

L’esito di questo tipo di trasformazione è la valorizzazione di interazioni autonome e non completamente prevedibili né preordinate fra i membri del gruppo di lavoro. Tutto questo al fine di un incremento della capacità organizzativa di affrontare e risolvere autonomamente problemi che in un contesto organizzativo basato sulla programmazione avrebbero richiesto il coinvolgimento dell’intero sistema produttivo. Per questo il nuovo modello incorpora una misura variabile di casualità al suo interno11. Per far fronte a questa imprevedibilità, cui è necessario rispondere per vincere la competizione con le altre imprese, la divulgazione sulla formazione ha messo l’accento sull’inserimento nell’organizzazione del lavoro di una forma di creatività, di capacità di un pensiero « impensato », inatteso. Questo si traduce concretamente nella necessità di una trasformazione dei processi lavorativi che li renda flessibili, capaci di adattarsi ai cambiamenti e di rinnovare le prassi standard.

Note de bas de page 12 :

Tiziano Botteri e Guido Cremonesi, Smart working e smart workers. La scienza delle organizzazioni positive, Milano, FrancoAngeli, 2016, p. 124.

Mai veramente definita in sé, questa nuova forma organizzativa si definisce attraverso un tipo di interazione che dovrebbe permettere « naturalmente » ai lavoratori di esprimere creatività, di praticare autonomia, di comunicare efficacemente : « Quando la leadership è vissuta come condizione di superiorità ed esercizio del potere finalizzato alla soddisfazione di bisogni e interessi esclusivamente personali non si ottiene la fiducia, empowerment e coinvolgimento delle persone. Quando la leadership è vissuta come servizio agli altri si ottiene spontaneamente creatività, extra impegno e prestazioni eccellenti »12.

2. Dal punto di vista dell’interazione è possibile dare una descrizione semiotica di questo modello organizzativo attraverso il concetto di aggiustamento, sebbene in una chiave parziale, in modo da eliminarne gli effetti potenzialmente dirompenti, ossia in modo da tali non mettere in discussione gli obiettivi aziendali (che restano eterodefiniti rispetto al gruppo) e da essere applicato solo alle modalità del loro raggiungimento.

Note de bas de page 13 :

Cfr. Gilles Deleuze e Félix Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, trad. Roma, Edizioni enciclopedia Italiana, 1987.

Il modello interazionale e comunicativo « arborescente » tipico dell’organizzazione gerarchica in cui ogni elemento è connesso solo a quelli immediatamente superiore e inferiore della catena in cui si colloca dovrebbe così esplodere in un circuito comunicativo aperto (a-gerarchizzato) in cui tutti i punti dell’organizzazione sono virtualmente in relazione. L’albero dovrebbe cioè diventare così un rizoma, permettendo ad ogni membro dell’organizzazione di comunicare con qualunque altro, senza filtri o passaggi gerarchici13. Adottare una tale prassi comunicativa vuol dire stabilire un patto fiduciario — sia fra pari che fra lavoratori appartenenti a livelli gerarchici diversi — anteriore alla relazione lavorativa per cui un superiore non potrà sentirsi « scavalcato » se un sottoposto anziché comunicare con lui dovesse rivolgersi ad un suo superiore, dato che il superiore non utilizzerebbe le informazioni ricevute se non per risolvere un problema organizzativo o un’incapacità. Si tratta di un compito davvero arduo.

Note de bas de page 14 :

Questo tipo di modalità organizzativa è stata teorizzata da ottimi testi di psicologia del lavoro. Cfr. Giampiero Quaglino e Claudio Cortese, Gioco di squadra, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2003.

Al cuore di questa visione si situa l’idea che un gruppo di lavoro possa funzionare come un attore collettivo capace di supplire a momentanee carenze materiali e organizzative con lo sforzo individuale attraverso un clima di lavoro che si basa, in fondo, sull’empatia — ossia su una capacità generalizzata all’accoglimento reciproco delle emozioni altrui. Oltre a questo rientra nel modello una disponibilità continua all’ascolto e all’autocritica, ossia l’adozione di una comunicazione dialogica o polilogica in cui ognuno può prendere la parola e a sua volta occupare la posizione di soggetto di discorso per chiedere chiarimenti, fare proposte, cioè per definire, se non gli obiettivi dei processi lavorativi (che restano prerogativa dei vertici aziendali), per lo meno le modalità del loro raggiungimento14.

Di fatto in questo quadro si configura la condivisione (secondo una logica dell’« unione ») di una competenza sensibile che emerge direttamente dall’interazione di gruppo.

La leadership relativa a questo tipo di interazione organizzativa deve essere slegata dal ruolo gerarchico svolto da ognuno in modo da essere attribuita dal gruppo di lavoro al suo membro che, a seconda delle circostanze, ha maggiori competenze in relazione ai compiti da affrontare. Si tratta di fatto — dal punto di vista semiotico — dell’emersione del gruppo come destinante che stabilisce di volta in volta di « sanzionare » la competenza dei suoi membri. Questo modo di definire la leadership segna un punto di contatto fra la formazione e la riflessione semiotica perché, di fatto, stabilisce una relazione di indipendenza fra leadership e ruolo gerarchico occupato nell’azienda, analoga alla relazione di indipendenza in semiotica fra attante e ruolo tematico (che può corrispondere alla posizione occupata in un’organigramma). Resta chiaro che la « messa in pratica » di questo tipo di modello, benchè necessaria, incontra nella pratica tutti i tipi di limitazioni connesse all’esercizio concreto del potere e ai vincoli strategici, relativi alla definizione degli obiettivi dell’organizzazione. Essi non sono mai veramente discutibili fino in fondo, pena la trasformazione identitaria dell’organizzazione in quanto attore collettivo : un processo virtualmente incontrollabile se l’orientamento all’aggiustamento è coerente fino in fondo.

3. Pratiche della formazione : narrazione e interazione a rischio

La formazione alle « competenze trasversali », e dunque appunto alla leadership dinamica, alla flessibilità e alla creatività, non ha una definizione univoca : sembra comprensibile dato che essa opera essenzialmente su caratteristiche generalissime degli esseri umani — sapere comunicare, lavorare insieme, essere creativi — per renderle funzionali al sistema produttivo. La generalità delle competenze e la specificità dei singoli gruppi di lavoro implicano che le specifiche « tecniche » di formazione applicate dai formatori in aula varino in funzione degli obiettivi specifici del gruppo di lavoro con cui si ha a che fare e siano in gran parte legate all’esperienza e alla sensibilità individuali. Così, la formazione si può tradurre in una semplice presentazione di contenuti teorici o, all’opposto, in un vero lavoro sulle pratiche di interazione.

Il formatore che si limita alla trasmissione di « tecniche » (di gestione del tempo, organizzazione della riunione ecc.) come se fossero contenuti equivalenti ad un sapere oggettivo assume il ruolo rassicurante (per lui) dell’esperto tecnocrate che fornisce « strumenti neutrali » per « gestire » (verbo tipico della visione distaccata dell’« esperto ») le relazioni lavorative. Questa scelta limita la varietà degli effetti imprevedibili dell’interazione « formativa », e anche qualora i contenuti trasmessi pretendessero di essere in linea con processi « dinamici » e « creativi », la scelta tattica delle modalità di funzionamento della formazione farebbe in realtà ricadere l’interazione in una forma di programmazione. All’opposto si situa la pratica formativa di analisi critica di interazioni lavorative vissute, o della loro simulazione, organizzate in modo tale da provocare una riflessione potenzialmente collettiva e trasformativa, guidata dal formatore, sulle concrete esperienze di interazione dei partecipanti (anche attraverso dei testi narrativi che hanno valore di modelli/rielaborazioni dell’esperienza).

Note de bas de page 15 :

Su questo genere di apprendimento mediante l’interazione intersomatica, cfr. Maria Cristina Addis, « Forme d’aggiustamento. Note semiotiche sulla pratica dell’aikido », in Ana C. de Oliveira (éd.), As Interações sensíveis. Ensaios de sociossemiótica, São Paulo, Estação das Letras e Cores, 2013.

Ad esempio, alcuni formatori che lavorano sulla fiducia organizzano delle prove in cui sono coinvolte due persone che lavorano assieme. Uno dei due si lascia cadere da un muro basso, di spalle, e l’altro deve prenderlo al volo15. Altri che lavorano sulla collera cercano di riprodurre situazioni di lavoro stressanti a partire dai racconti dei lavoratori per trovare assieme o spesso semplicemente indicare ai partecipanti che cosa accade concretamente in una esplosione di rabbia e il modo in cui controllarla. Altri si soffermano sull’organizzazione del lavoro e del tempo, ma incappano inevitabilmente in questioni fiduciarie : l’attribuzione dei compiti, ad esempio, entra in relazione con le questioni della fiducia, della sua costituzione e conferma nel lavoro quotidiano.

Note de bas de page 16 :

Metodo narrativo elaborato col mio collega, psicologo e formatore, Gianfranco Guidi, che ringrazio anche per le osservazioni fornite per questo articolo.

Opposto rispetto a modelli meccanicisti, come la programmazione neurolinguistica (che ci sembra del tutto inutile per un vero cambiamento organizzativo), abbiamo messo in atto per circa due anni con decine di gruppi di lavoro un modello di tipo narrativo basato sul racconto dell’esperienza e sulla disarticolazione della persona dal ruolo e dal programma narrativo svolto, ossia sull’indipendenza del rapporto fra attanti e attori16. Ovviamente questa stessa pratica dell’interazione formativa è adottata da molti formatori capaci senza alcun bisogno di essere formalizzata in questi termini. Una « formazione narrativa » di questo tipo ci pare l’unico caso in cui i partecipanti (formatori compresi) devono improvvisare in interazioni in atto, per quanto basate su simulazioni. Rappresenta dunque l’unico caso in cui la formazione è coerente con il modello dell’aggiustamento, quali che siano i modelli teorici di riferimento. Solo nella formazione di questo tipo l'oggetto di « lavoro » concreto è il gruppo di lavoro, cioè l’ambito di interazione pragmatica in cui le competenze alla comunicazione, alla leadership e alla creatività dovrebbero trovare applicazione.

Note de bas de page 17 :

E. Landowski, « Régimes de sens et formes d’éducation », colloque « La sémiotique face aux défis sociétaux du XXIe siècle », université de Limoges, CeReS, 2015 (http://www.unilim.fr/colloquesemiodefisshs ; https://sistemas2.uft.edu.br:8004/index.php/entreletras).

A partire da queste esperienze simulate o narrate il formatore deve riuscire a sviluppare delle discussioni collettive di riflessione comune, che sono esse stesse una pratica di aggiustamento, ed è in questo momento che può forse emergere la creatività, di per sè una pratica interpretativa e di interazione — un certo modo di fare (sia con qualcun’altro che con qualsiasi materia) — più che un contenuto che si può pretendere di insegnare. Uno degli elementi costitutivi di questa pratica, che non si può garantire ma va rinnovata di volta in volta, è l’accettazione di una certa dose di casualità che ogni simulazione o discussione collettiva comporta, e che deve essere ricercata favorendo un tipo di comunicazione informale, in cui si aumenti il livello di imprevedibilità dell’interazione fra partecipanti, e diminuisca proporzionalmente la sicurezza del formatore in quanto esperto distaccato dalle interazioni che dovrebbe « analizzare ». Infatti, come ha notato Landowski, in un’interazione di questo tipo « les positions de l’educator et de l’educandum apparaissent interchangeables, et corrélativement l’educans (la « matière » à enseigner) perd son caractère traditionnel d’objectité pour en venir à se confondre avec le processus interactionnel même »17.

Questo comporta chiaramente un’interazione « a rischio » per il formatore e per gli stessi partecipanti : l’interazione infatti, non più programmata sulla base dei ruoli organizzativi, può continuamente finire nel caos, sfuggendo di mano agli attori in interazione e diventando conflitto o manipolazione. Oppure, anche quando l’interazione si risolve positivamente, definendo dei nuovi oggetti di valore comuni e ridiscutendo il valore dei valori, il conflitto ed il caos non possono essere eliminati e nulla può assicurare che l’interazione positiva sperimentata in un contesto guidato possa poi essere riprodotta nei singoli gruppi di lavoro (con altri attori con cui interagire). E tuttavia questo tipo di formazione, che non è in grado di garantire a priori un risultato, ci pare l’unica capace di assumere il valore di un’analisi critica delle interazioni lavorative vissute, coerente con gli assunti propagandati dalla teoria della organizzazione e formazione contemporanea (almeno nei casi limitati che abbiamo citato).

Conclusione

Un’esperienza pluriennale come formatore mi ha mostrato però, proprio attraverso l’analisi dei processi produttivi come a fronte della trasformazione teorica delineata precedentemente, che accada ancora qualcos’altro nella pratica lavorativa concreta. Nel momento in cui entrano in gioco dinamiche organizzative più ampie c’è sempre il rischio che anche un modello basato — almeno teoricamente — sull’aggiustamento si rovesci e divenga costrittivo.

Il fatto che le « competenze » alla creatività e alla comunicazione siano divenute necessarie, almeno agli occhi del discorso organizzativo, per la realizzazione del processo produttivo ha fatto si che la non realizzazione degli obiettivi sia oggi non più attribuita a difetti organizzativi ma alle carenze del singolo gruppo di lavoro, incapace di costituirsi e lavorare come tale sfruttando le competenze trasversali acquisite nella formazione. Per questo, non è difficile capire che il lavoro sulla comunicazione e la creatività attraverso la formazione possa diventare attribuzione non del valore modale del potere (un poter-essere, comunicativo o creativo ecc.) ma di un dover-fare molto difficile da sostenere. Il permesso dato ai lavoratori di essere creativi, autonomi, capaci di comunicare, di lavorare in gruppo e risolvere problemi si traduce di fatto nell’obbligo ad esserlo, ossia non in una acquisizione di competenza ma in una rinnovata richiesta di performanza altamente complessa. La possibilità di condizioni lavorative soddisfacenti diventa obbligo alla capacità di coordinare o lavorare in un lavoro di gruppo mantenendo alta la qualità dell’interazione al suo interno e contemporaneamente soddisfacendo il raggiungimento degli obiettivi aziendali.

Da questo dipende la richiesta paradossale rivolta al lavoratore di apprendere continuamente nuove modalità di lavoro. Retoricamente definita come la « capacità di imparare a imparare », e impossibile da fornire attraverso i contenuti delle stesse competenze trasversali, essa si configura in realtà come una disponibilità a ricominciare continuamente. Presentata come una acquisizione di competenza essa si configura, semioticamente, come perdita di competenza che si può rinnovare senza limiti.

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