Dinamiche di violenza nella pratica mistica del digiuno Dynamics of violence in the mystical practice of fasting - Dynamique de la violence dans la pratique mystique du jeûne
Jenny Ponzo
Università degli Studi di Torino
Questo articolo si concentra su un corpus di agiografie che riguardano mistiche vissute tra il Medioevo e il XX secolo e caratterizzate da pratiche di digiuno estremo. Le storie di queste donne hanno dei tratti comuni che ci permettono di riconoscere una forma di vita specifica (Fontanille). L’analisi esplora, all’interno della categoria della violenza, alcuni aspetti degli stili esperienziali, della prassi e pratici (Colas-Blaise) che formano questa forma di vita. L’adozione di questa prospettiva e l’applicazione delle teorie semiotiche e delle riflessioni di Barthes, Eco, Kristeva, De Certeau, Deleuze e Marin permettono di far luce sulle sfaccettature dell’erotica del dolore, sul ruolo ambivalente del corpo, sul tema dell’obbedienza e sull’anticonformismo di queste figure.
Cet article est centré sur un corpus d’hagiographies de femmes mystiques qui ont vécu entre le Moyen Age et le XXe siècle. Caractérisées par des pratiques de jeûne extrême, les histoires de ces femmes présentent des traits communs qui permettent de reconnaître une forme de vie (Fontanille) spécifique. L’analyse explore, au sein de la catégorie de la violence, les styles expérientiels, praxiques et pratiques (Colas-Blaise) qui configurent cette forme de vie. L’adoption de cette perspective et le recours aux théories et aux réflexions sémiotiques de Barthes, Eco, Kristeva, De Certeau, Deleuze et Marin, permettent d’éclairer des facettes d’une érotique de la douleur, ainsi que d’approcher le rôle ambivalent du corps, le thème de l’obéissance et l’anticonformisme de ces figures.
This paper takes into consideration a corpus of hagiographies concerning female Catholic mystics lived between the Middle Ages and the 20th century and characterized by the fact of practicing extreme forms of fasting. The stories of these women present recurring features that allow to recognize a specific form of life (Fontanille). The analysis looks into aspects of the experiential, praxic and practical styles (Colas-Blaise) shaping this form of life through the category of violence. This interpretative key and the application of semiotic theories and reflections by Barthes, Eco, Kristeva, De Certeau, Deleuze and Marin sheds light on the erotism of pain and the ambivalent role of the body, the theme of obedience and the unconventionality of these figures.
Index
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Mots-clés : corps, douleur, forme de vie, jeûne, mystique
Keywords : body, fasting, form of life, mystics, pain
Parole chiave : corpo, digiuno, dolore, forma di vita, mistica
Auteurs cités : Roland BARTHES, Michel de CERTEAU, Marion COLAS-BLAISE, Umberto ECO, Jacques FONTANILLE, Algirdas J. GREIMAS, Julia KRISTEVA, Louis MARIN
Quale ascensione! E quante agonie di volontà mi sono occorse per morire a me stessa.
Marthe Robin in Guitton (2012: 60)
Introduzione
Le mistiche dedite all’estremo digiuno, pur essendo una minoranza tra la moltitudine dei santi, negli ultimi decenni sono state oggetto di numerosi studi, specie a partire dalla controversa opera di Bell (1985), che interpreta le pratiche di sante medievali quali Caterina da Siena come sintomi di anoressia.
- Note de bas de page 1 :
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V. ad es. il Catechismo della Chiesa Cattolica e più in generale Pozzo (2020).
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Influenzato dallo stoicismo e dal neoplatonismo; si pensi ad es. ai Padri del Deserto; cfr. Montanari (2016: 128).
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Si è scelto di prendere in esame solo figure femminili poiché mistica maschile e femminile presentano tratti in parte diversi e un confronto sarebbe stato materia eccessiva per questo saggio.
Nel cristianesimo, le restrizioni alimentari sono regolamentate dall’autorità ecclesiastica secondo un criterio ispirato alla moderazione1. Specialmente nella tradizione cattolica, per “digiuno” non si intende una totale rinuncia al cibo, ma l’assunzione di un unico pasto al giorno invece di due (Montanari 2016: 109, 125) e il limitarsi agli alimenti “di magro”. Nel corso della loro storia, inoltre, queste restrizioni non sempre sono state interpretate come una forma di penitenza e di mortificazione assoluta del piacere del mangiare, costituendo piuttosto un segno di identificazione sociale della comunità religiosa (Montanari 2016: 116-117). Eppure, accanto a questa linea di pensiero e di azione esiste una tradizione alternativa – che si ritrova fin dal cristianesimo delle origini2 e si spinge fino almeno al Novecento – consistente nel praticare forme di digiuno radicali. Mistiche quali Chiara d’Assisi (1194-1293), Caterina da Siena (1347-1380), Lydwine di Schiedam (1380-1433), Marguerite Marie Alacoque (1647-1690), Teresa Neumann (1898-1962), Marthe Robin (1902-1981) e Alexandrina Maria Da Costa (1904-1955) sono rappresentative di questa seconda linea. Nei racconti delle vite di queste sante3 il corpo ha un valore fondamentale e in un certo senso ossimorico: vile opponente contro cui l’anima deve lottare, è allo stesso tempo oggetto di valore prezioso, indispensabile per compiere un percorso di elevazione spirituale.
- Note de bas de page 4 :
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Sugli attanti e la narratologia, v. Greimas (1966: capp. X-XI).
Se, come dimostra Fontanille (2004), è vero che l’identità dell’attante è sempre doppia, nel caso delle mistiche digiunatrici la distinzione tra chair e corps propre (in cui si distinguono soi-idem e soi-ipse) è particolarmente marcata. Adottando la terminologia di Colas-Blaise (2012), possiamo dire che l’articolazione dei tre assi dell’identità è correlata rispettivamente a uno stile esperienziale, uno stile praxico e uno stile pratico che, insieme, compongono una forma di vita. Nelle agiografie qui considerate, il moi-chair delle protagoniste è determinato in primo luogo dalla valenza disforica attribuita dalla loro cultura al corpo, la quale rende più profondo il débrayage tra moi e soi e si lega a uno stile esperienziale in cui il dolore è valutato positivamente e diventa fonte di piacere e gioia. La costruzione del soi-idem avviene mediante il rigore nel conformarsi alle pratiche religiose prescritte dalla Chiesa e mediante il rapporto che le mistiche intrattengono con vari tipi di destinanti4 che rappresentano codici e modelli socio-culturali radicati (la dottrina della Chiesa, la famiglia), rapporto che trova una manifestazione particolarmente efficace nel motivo dell’obbedienza. Non a caso, molte mistiche fanno parte di ordini religiosi, oppure desiderano entrare a farne parte. Eppure, la condotta di queste sante va ben oltre il conformarsi a codici prestabiliti (infatti le mistiche sono quasi sempre guardate con sospetto e spesso osteggiate dalla Chiesa stessa, almeno in alcune fasi della loro vita) e l’adozione di forme estreme di dominio del corpo è soggetta a una progressione dovuta al desiderio di raggiungere un ideale di perfezione che coincide nell’annullamento di se stesse in Dio: in questa progressione, dominata da una tensione teleologica e in cui si esplica il margine di libertà e anticonformismo di queste sante, che le porta ad eccedere regole e modelli prestabiliti, si può riconoscere l’articolazione del loro se-ispe.
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Intesa (senza pretesa di esaustività e a fini operativi) come la tendenza “a usare la forza fisica o psicologica al fine di imporre la propria volontà, e per estensione, ogni forma di influenza, condizionamento o controllo delle potenzialità pratiche e intellettuali degli esseri umani” (Pagani e Robustelli 2000).
Il presente saggio si propone di indagare questi aspetti nell’articolazione della forma di vita delle mistiche digiunatrici così come sono narrati nei testi agiografici. Chiave interpretativa privilegiata sarà il concetto di violenza5. Categoria finora poco esplorata nello studio semiotico del discorso mistico, specie in relazione al digiuno, la riflessione più compiuta in tal senso si deve a Julia Kristeva (2015: 207) che, mettendo a confronto una anoressica dei nostri giorni e Caterina da Siena, osserva che quest’ultima è stata colei che ha messo in evidenza “la violenza del Verbo”, intesa come l’altra faccia, la meno evidente, dell’amore. Partendo da queste basi, esploreremo dunque alcune dinamiche di violenza nell’articolazione degli stili che definiscono gli assi dell’identità delle sante digiunatrici.
1. Erotica del dolore
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V. Eco (2014), Galimberti (2020: capp. 2-3, 43-44), Testoni (2002).
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Ad es. Alacoque (2020: 77) si descrive come “fogna” e ad Alexandrina capita di vedersi sudicia e provare orrore per se stessa, “porcheria e putridume” (Amorth 2018: 128).
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Ad es. Guitton (2012: 81, 104-105); Amorth (2018: 35); Capua (2013: 234-236).
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Sul senso di vergogna, v. Montanari (2016: 147-148).
Lo stile esperienziale delle mistiche digiunatrici è profondamente influenzato da quella componente del pensiero cristiano che, attribuendo una valenza negativa al corpo, porta ad una valutazione positiva del dolore – che assume una funzione salvifica –, della morte – in quanto passo necessario verso la liberazione dell’anima –, del sacrificio di sé come ideale di perfezione e di santità6. Nel discorso delle e sulle mistiche, attanti sdoppiati, abbondano espressioni più o meno metaforiche che evocano lo strenuo combattimento che esse conducono contro la propria “carne” o “natura”. Ad esempio, Caterina “si levò contro se stessa, ossia contro la sua carne e il suo sangue, con determinazione: macerando la sua carne…” (Capua 2013: 128), considera la cura del corpo un peccato grave (Capua 2013: 67-68, 84) e sviluppa l’idea del “santo odio”, verso la “propria parte sensitiva”: “Guai! Guai a quell’anima nella quale non c’è il santo odio, che le è indispensabile, perché dove il santo odio non c’è, domina l’amor proprio, che è il focolaio di tutti i peccati…” (Capua 2013: 123). Talvolta, l’odio verso di sé si esprime in metafore scatologiche7 e si spinge fino alla tentazione del suicidio8. La stessa assunzione di cibo, così come d’altra parte il dover rivelare in pubblico di non poterne assumere, è in molti casi fonte di vergogna, passione ricorrente nel corpus9.
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Ad es. Kempis (2012: 67-69) e Guitton (2012: 60, 70-71)
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Sul motivo della leggerezza, v. Montanari (2016: 147).
Umberto Eco (2014: 22) chiama erotica del dolore un gusto tipicamente cristiano per la bruttezza e per la rappresentazione della sofferenza a fini moralistici e devozionali. In effetti, le mistiche digiunatrici sono spesso descritte come corpi che progressivamente si riducono all’essenziale, spogliandosi della carne, disfacendosi negli organi e tessuti, riducendosi alle ossa. Non sono infrequenti crude descrizioni delle loro membra emaciate e torturate dalla penitenza, dal digiuno e dalla malattia10. L’estetica del corpo ossuto si può da una parte ricondurre a una più generale estetica delle ossa (si pensi alla loro importanza nell’arte e perfino nell’architettura cristiano-cattoliche, specie in relazione al motivo del memento mori) e dall’altra al topos che oppone il peso del corpo, gravato dalla “carne”, alla leggerezza dell’anima, incorporea e volatile11. Al di là di questo gusto genericamente cristiano, l’erotica del dolore relativa alle mistiche digiunatrici si colloca in una specifica dinamica semiotica in cui si intrecciano una particolare percezione del dolore e una erotizzazione del rapporto con la divinità.
Riguardo alla prima, quando le mistiche raggiungono, come vedremo, uno stadio avanzato nelle pratiche spirituali, sperimentano un netto rovesciamento del gusto e dell’interpretazione degli stimoli sensibili: il cibo, prima desiderato, provoca ribrezzo e vomito, mentre l’ingestione di sostanze rivoltanti, una volta vinta la naturale ripugnanza, finisce spesso per risultare straordinariamente appagante; umiliazioni e abiezione sono le uniche fonti di gioia e piacere, mentre quanto prima era divertimento, come la convivialità, ora è fonte di pena. Ad esempio:
… per Caterina non vi è una pena maggiore di quella che le causava il dover prendere cibo; soffriva più lei di quanto possa soffrire una persona a cui venga a mancare il cibo già scarso.
Un dolore acuto aggrediva il suo corpo dopo aver mangiato, come avviene per il malato a causa della febbre alta. Questa era una delle cause per le quali […] cercava di prendere cibo per affliggere se stessa e tormentare il suo fragile corpo. (Capua 2013: 69)
… non mi permettevo di provare tra le creature più alcun piacere, tranne che in quelle occasioni di incomprensione, di umiliazione e di abiezione, che erano il mio cibo prelibato, e che egli [Gesù] mi faceva sempre capitare, senza mai dire basta. (Alacoque 2020: 51)
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Ma anche le ferite di Cristo, ad es. Celano (2014: 152, 168-169), Alacoque (2020: 20, 33), Kempis (2012: 71-72, 179-180, 183-184).
Inoltre, per tutte, il cibo materiale è sostituito da cibi spirituali, che le saziano pienamente, in particolare l’Eucaristia12.
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Nel senso di Jakobson (1960).
Sia l’inversione del gusto sia la sazietà legata al cibo spirituale si possono comprendere alla luce dell’erotizzazione del rapporto con Cristo. De Certeau (2017: 4) parla di erotica del Corpo-Dio in relazione al senso di nostalgia, separazione e mancanza (nei confronti dell’Altro, oggetto d’amore) che contraddistingue l’esperienza mistica di santi come Teresa d’Avila, caratterizzata da una semiosi che assume “forme fisiche, relative a una capacità simbolica del corpo […]. Una capacità che accarezza, ferisce, risale la gamma delle percezioni, raggiungendo l’estremo che eccede. […] Si traccia in messaggi illeggibili su un corpo trasformato in emblema o in memoriale inciso dalle ferite d’amore” (De Certeau 2017: 6). Come osserva Kristeva (2006b: 130-131), nel cristianesimo la sofferenza si pone “all’interfaccia tra l’umano e il divino” riconciliandoli. In tal senso possiamo dire che la sofferenza, o meglio il corpo sofferente, funziona come canale e come messaggio13 che permette la comunicazione e, ancor più, la comunione con la divinità; di conseguenza, la sua descrizione ha una funzione poetica. Proprio Kristeva (2006b: 132), in una riflessione generale sulla sofferenza nel cristianesimo, tocca quello che possiamo identificare come il punto fondamentale nella definizione del moi-chair delle mistiche: i “rituali della mortificazione” sono manifestazione di una “sofferenza erotizzata” che per queste donne diventa la marca imprescindibile della loro identità: “‘io’ sono solo se – e solamente se – soffro; solo sentire dolore mi fa esistere; è il dolore che dà senso al mio essere”.
L’erotizzazione del rapporto con Cristo si spinge nel racconto delle mistiche fino a un’unione che spesso ha le caratteristiche del rapporto fisico tra uomo e donna (comunissimo è infatti il topos delle “nozze mistiche” con lo Sposo celeste). Kristeva (2006ª: 50), riferendosi in particolare a Teresa d’Avila, definisce questo tipo di esperienza come “fantasie incarnate”, “percezioni, con tutti i sensi, della presenza avvolgente […] dello Sposo”. Anche in questa forma di amore coniugale spicca la dimensione della violenza, intesa come com-passione o partecipazione anche fisica alla violenza subita dallo Sposo. Alla luce di questa dinamica di amore e violenza si spiega, secondo la lettura psicanalitica di Kristeva (2006a: 49), anche il potere materialmente saziante dell’eucaristia: “l’incitamento alla sofferenza si calma però con una soddisfazione orale: l’eucarestia riconcilia il credente con il Padre picchiato a morte […]. Molti melanconici e anoressici del Medioevo affluivano nelle chiese per ingerire un solo alimento: una lamella del corpo sanguinante e maltrattato dell’Uomo Dio, che consentiva loro di mantenere per molti anni questa esaltazione, malgrado la fame e unicamente tramite la soddisfazione orale e simbolica”.
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Risulta impossibile qui ricostruire la complessa riflessione che Marin fa a partire dalla Logique de port-royal. Per un commento su questa teoria, v. Fabbri (1993).
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Nel senso di Austin (1962).
Testimonianze sul potere saziante della particola si trovano ben oltre il Medioevo, per esempio nelle storie delle novecentesche Teresa Neumann, Marthe e Alexandrina. Per comprendere la straordinaria portata simbolica e insieme il potere materialmente nutritivo dell’eucaristia risulta fondamentale il lavoro di Louis Marin14, il quale osserva come l’ostia valga come “parola-corpo”, mangiando la quale l’uomo accede all’essere, vi si assimila (Marin 2017: 145). Per Marin (2017: 203), la transustansazione vale come atto di parola performativo15, in quanto la formula della consacrazione implica una disgiunzione (operata mediante la fede) tra la sensazione e la cosa. Marin (1983: 134) sottolinea che la “manducazione” del pane transustanziato è “segno” che il corpo di Cristo è “nutrimento dell’anima”. Tuttavia, nel caso delle mistiche digiunatrici, la felicità di questo performativo, si dà mediante un particolare effetto perlocutorio, vale a dire la capacità dell’ostia consacrata di saziare la fame non soltanto dell’anima, ma anche del corpo, che non ha più bisogno di assumere altro cibo materiale.
2. Obbedienza
Nelle storie delle mistiche digiunatrici compaiono tipicamente vari destinanti, che spesso assumono contemporaneamente anche il ruolo di opponenti.
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Celano (141-143, 157-160), Capua (2013: 73, 91-92), Guitton (2012: 60).
I primi destinanti-opponenti sono i parenti. Specie durante l’infanzia e la giovinezza, molte mistiche fanno un grande sforzo per conformarsi alla volontà dei genitori, i quali spesso ricorrono alla violenza fisica e psicologica per imporre alle figlie uno stile di vita conforme al ruolo socialmente attribuito alla donna in famiglia. Particolarmente violente e tenaci sono l’opposizione dei parenti di Chiara al ritiro suo e di sua sorella Agnese in convento e della famiglia e soprattutto della madre Lapa nei confronti delle pratiche ascetiche di Caterina; molto più mitigata appare l’azione dei parenti delle sante novecentesche, i quali si limitano a volte a forzarle a mangiare spinti dalla preoccupazione per il loro stato di salute, provocando così dolore e vomito16.
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Ad es. il direttore spirituale di Alexandrina le dà una volta l’autorizzazione a vivere con particolare intensità le sofferenze della Passione (Amorth 2018: 37-38).
Anche i direttori spirituali, i superiori religiosi e i rappresentanti della Chiesa assumono spesso il ruolo di destinanti-opponenti. Queste figure limitano la libertà delle sante regolando e a volte limitando – ma senza annullare – le loro mortificazioni, come i digiuni troppo estremi (Celano 2015: 152; Capua 2013: 84). Marguerite, ad esempio, trova nell’obbedienza una nuova forma di sacrificio e martirio, dal momento che le sue superiore da una parte le proibiscono alcune penitenze che lei desidera infliggersi, ma dall’altra gliene comminano di diverse e a volte ugualmente intense. Uno dei supplizi più duri a cui si sottopone per ben otto anni le è in effetti prescritto da una sua superiora, e consiste nel mangiare formaggio, cibo per cui ha un’invincibile avversione (Alacoque 2020: 46-48). Anche questo aspetto è molto mitigato nella storia delle sante novecentesche, ma non del tutto assente17.
Il destinante principale è tuttavia lo stesso Gesù, il quale impone in prima persona alle mistiche sofferenze sia fisiche sia spirituali. Ad esempio, Caterina racconta che come segno della concessione di una grazia, Gesù le trafigge la mano con un chiodo, provocandole un immenso dolore fisico (Capua 2013: 221), Marthe che Egli le preme dolorosamente la corona di spine sul capo (Guitton 2012: 199) e Marguerite che le chiede ripetutamente di infliggere a se stessa penitenze come prostrarsi ai suoi piedi e darsi una dura disciplina. Una volta Gesù chiede anche a Marguerite di digiunare per cinquanta giorni a pane e acqua, ma dato che i superiori della religiosa non glielo consentono, Gesù le fa capire che in compenso può stare cinquanta giorni senza bere; in altri casi invece le impone di limitare le sue pratiche di mortificazione, ma sempre prova piacere nel vederla umiliata e sofferente (Alacoque 2020: 23, 63, 100-101). Alcune agiografie, specie quelle di Caterina e Marguerite, riportano inoltre episodi in cui, per vincere le proprie ripugnanze, le sante inghiottono liquami purulenti e disgustosi, ricevendone in cambio una sanzione positiva da Cristo, il quale durante un’estasi tiene la bocca della santa sulla propria piaga (Alacoque 2020: 69-70) oppure la fa bere dal suo fianco (Capua 2013: 183, 189-191).
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Su questo concetto, specie in relazione alla dinamica del sacrificio, v. Testoni (2002: 19-28), Galimberti (2020: 67), Eco (2014: 21).
Le sante non si limitano a subire passivamente il dolore, ma lo ricercano attivamente, proprio per meritarsi la sanzione di un premio che non necessariamente è rimandato alla vita dopo la morte, ma può essere esperita come forma di piacere fisico (naturalmente inestricabile dal dolore) durante l’estasi: “Chiedo tutti i giorni sofferenze e sento grande consolazione spirituale nelle ore in cui soffro di più, perché ho di più da offrire al mio Gesù” (Alexandrina cit. in Amorth 2018: 31). Frasi come questa dimostrano che il corpo è un oggetto di valore di somma importanza: ha un valore di scambio18 imprescindibile per ottenere degli scopi spirituali, per questo non può essere del tutto annientato. Le mistiche sono un corpo senza il quale il loro percorso spirituale non potrebbe in nessun modo aver luogo, un corpo utopico che, proprio “nella sua materialità, nella sua carne”, dunque nella sua finitezza, “fa entrare tutto lo spazio del religioso e del sacro, tutto lo spazio dell’altro mondo” (Foucault 2019: 17).
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Cf. Fontanille (2004: 39).
La combinazione di violenza, sessualità ed erotismo nel rapporto tra le mistiche e i loro destinanti, e soprattutto Cristo, presenta somiglianze con gli schemi caratteristici del sadismo e del masochismo. I tratti comuni rispetto al sadismo, così come è descritto da Barthes (2016), sono principalmente due. Il primo è l’isolamento dei protagonisti, i quali hanno bisogno di collocarsi al di fuori di una società che non ne condivide la forma di vita e per cui la solitudine costituisce “una qualità di esistenza, una voluttà dell’essere” (Barthes 2016: 20). Così come i personaggi sadiani si isolano in un irraggiungibile castello, così le mistiche anelano alla solitudine della loro cella, e considerano lo stare nel mondo un compito greve. Il secondo è l’equilibrio di regola e sregolatezza che si manifesta nella pianificazione ordinata della perdita di sé: “a perdita incondizionata non è la perdita incontrollata: bisogna precisamente che la perdita sia ordinata perché possa divenire incondizionata” (Barthes 2016: 9). Così come l’esperienza sadica è fatta di pratiche estreme e sfrenate ma sempre controllate da un destinante che ne detta le regole, l’esperienza delle mistiche, pur andando al di là dell’ordinario, si combina con una costante obbedienza nei confronti di destinanti che regolano (a volte frenano) le loro pratiche, come il digiuno, in una costante tensione tra conformismo (relativo all’asse del soi-idem) e distinzione (relativo all’asse del soi-ipse), tensione che contraddistingue la loro eccentricità19.
- Note de bas de page 20 :
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Il che non stupisce, considerando l’importanza dell’immaginario biblico e cristiano nell’opera di Masoch, su cui v. Deleuze (2007: 83-84).
Più pertinente ancora pare il confronto con il masochismo20, che ha in comune con l’esperienza mistica (ma non con il sadismo) il concetto di espiazione (Deleuze 2007: 35), inscindibile rispetto all’esperienza amorosa, e la dimensione contrattuale (Deleuze 2007: 20, 67). Il contratto istituisce una forma, un ordine nel rapporto tra destinante e soggetto e, nonostante apparentemente ponga la mistica nella posizione della vittima, di fatto implica una manipolazione reciproca fra i due attanti (l’una cerca di ottenere dei favori con una serie di pratiche come il digiuno e la mortificazione del corpo, l’altro sanziona tali pratiche acconsentendo o meno allo scambio sofferenza/doni spirituali). Da questo punto di vista, il tema del matrimonio mistico tra la mistica e Gesù costituisce una efficace manifestazione figurata di questo contratto.
3. Irriducibilità
- Note de bas de page 21 :
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Il nesso causale tra digiuno e debilitazione del corpo è evidente ad es. in Capua (2013: 88-89) e Celano (2015: 152): “Così alternativamente si susseguivano i giorni di scarsa refezione a quelli di acerba mortificazione, di modo che la vigilia di un digiuno assoluto, la passava quasi in festa a pane e acqua. Non è da meravigliarsi se un tale rigore, osservato per tanto tempo, sottomise Chiara alle infermità; si esaurirono le forze, si fiaccò il vigore del corpo”.
- Note de bas de page 22 :
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Il fenomeno non riguarda solo figure femminili, si pensi a Giuseppe da Copertino, a Carlo Girolamo Severole e a Ignazio di Loyola, sui quali v. Eco (2014: 29-32).
Le mistiche qui considerate condividono la capacità di sopravvivere per anni nutrendosi solo dell’Eucaristia. Tale capacità non si manifesta improvvisamente e miracolosamente, ma si colloca in punti precisi di determinate catene sintagmatiche di eventi. In particolare, nel corpus il digiuno si inserisce in due diversi programmi narrativi: nell’uno si configura come una violenza autoinflitta, una competenza acquisita progressivamente e per libera scelta, generalmente fin dall’infanzia; nell’altro, è subito come conseguenza di eventi indipendenti dalla volontà della mistica. Nel primo caso, il digiuno, insieme ad altre forme di mortificazione, è causa di debolezza, malattie e, in certi casi, della morte, mentre nel secondo è conseguenza di malattie e incidenti21. Il primo programma narrativo riguarda piuttosto le mistiche medievali, come Caterina e Chiara, mentre il secondo riguarda piuttosto le mistiche moderne e contemporanee come Marthe, Teresa e Alexandrina. Non si tratta però di una distinzione netta: ad esempio, Simone Weil in pieno Novecento segue le orme di Chiara e Caterina imponendosi duri digiuni (Testoni 2002), la medievale Lydwine è costretta a digiunare a causa di una malattia, mentre Marguerite comincia a non mangiare per circostanze estranee alla sua volontà (ossia perché dopo la morte del padre lei e sua madre diventano vittime di persone senza scrupoli che le fanno vivere di stenti), ma in seguito affina volontariamente la pratica del digiuno per favorire l’esperienza mistica (Alacoque 2020: 13, 19-20, 34)22.
- Note de bas de page 23 :
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Ad es. la privazione del sonno (spesso messa in relazione con il digiuno come forma di negazione delle necessità basilari del corpo), l’indossare cilici, l’autoflagellazione e la scarificazione, v. Alacoque (2020: 33, 96, 127-128), Celano (2015: 136, 153), Capua (2013: 83-84, 104-105).
- Note de bas de page 24 :
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Ad es. Celano (2015: 149); Alacoque (2020: 46-48, 67), Eco (2014: 29-32).
Nel primo programma narrativo, il digiuno si colloca in un repertorio piuttosto vasto di pratiche di mortificazione del corpo23, alcune delle quali riguardano l’ingestione e il contatto della bocca, come nutrirsi di cibi dal sapore cattivo (come erbe amare) o per cui si prova ripugnanza, rendere il cibo insapore o disgustoso aggiungendovi acqua, cenere o terra24. Legate al contatto della bocca sono anche le pratiche di baciare i piedi o le orme altrui (Celano 2015: 146-173; Capua 2013: 62).
Il secondo programma narrativo rovescia il primo: mentre nel primo si registra un percorso di inasprimento delle pratiche di mortificazione risultato dall’acquisizione di un saper fare, nel secondo c’è una progressiva e inevitabile perdita del poter fare. Così, partendo da una condizione di normalità, in vari casi di grande vigore e vivacità, un evento sconvolge la vita delle sante. Lydwine cade pattinando sul ghiaccio a 15 anni rompendosi una costola, e da allora è soggetta a malattie e orrende infezioni; Teresa Neumann a 20 anni si provoca un grave danno alla schiena soccorrendo i suoi vicini durante un incendio, Marthe e Alexandrina contraggono la febbre tifoidea in giovane età. Sebbene ciascuna sia poi colpita da sintomi peculiari e da fasi alterne di miglioramenti e peggioramenti, si riscontra un pattern di sintomi comuni: una progressiva paralisi, che diventa in molti casi totale e permanente e che in tutti i casi inficia la capacità di deglutire, e dunque di assumere cibi e bevande, e a volte rende la parola difficile; la cecità o l’intolleranza alla luce, e dunque l’esigenza di vivere al buio; l’impossibilità di dormire; percezione di un dolore costante e diffuso.
- Note de bas de page 25 :
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Ad es. Lydwine nei primi anni della malattia rimpiange amaramente la salute, ma il suo confessore le impone di “fare violenza su se stessa” e meditare sulla Passione, pratica per cui lei inizialmente prova “disgusto” (Kempis 2020: 109-113).
Lo sforzo di volontà che queste mistiche compiono nella prima parte della loro storia non è quindi volto a mortificare il proprio corpo, ma al contrario a riuscire ad accettare il dolore e la perdita di controllo su di esso: la violenza che infliggono a se stesse consiste nella rinuncia totale alla propria volontà e al naturale desiderio di guarigione dettato dall’istinto vitale, oltre che nell’imporsi un sentimento di gratitudine verso Dio e pratiche di meditazione e adorazione che non sempre costituiscono una vocazione spontanea25. Le tappe di questa accettazione vanno più o meno in parallelo con l’aggravarsi dei mali e con il progresso del loro percorso mistico, che le conduce a una liberazione spirituale grazie ad aiutanti soprannaturali (Cristo, la Vergine, santi, angeli) e ad esperienze estatiche che le portano fuori dal loro corpo e dal loro angusto spazio vitale. Tale corrispondenza tra il deteriorarsi del corpo e lo sviluppo spirituale si vede bene nelle descrizioni che riguardano la progressiva difficoltà ad assumere cibo.
In entrambi i programmi narrativi c’è dunque uno sviluppo graduale, un processo durativo di perfezionamento, punteggiato però da momenti chiave, incoativi, che segnano punti di svolta. Per esempio, per Caterina il punto di svolta si può identificare con una mortificazione particolarmente difficile (bere il pus di una malata) ricompensata dall’ottenimento della grazia di bere dal fianco di Cristo: da quel momento la santa si alimenta solo più con la Comunione, vomitando qualunque altro cibo, mentre Teresa giunge al digiuno assoluto nel 1926, in concomitanza con la prima visione di Gesù (Capua 2013: 188-200, Corona 2012: 14-15, 33).
Sebbene, come si è visto, le mistiche spesso si sforzino di conformarsi il più possibile alla volontà dei loro destinanti (medici, familiari, superiori e direttori spirituali), risulta loro impossibile assecondarne le richieste in materia di comportamento alimentare. Proprio il loro digiuno rappresenta la cifra dell’irriducibilità di queste donne, il loro inevitabile porsi al di là della norma e dell’ordinario. In questo senso, la loro condotta alimentare può essere interpretata come mezzo di emancipazione, di affrancamento e affermazione personale rispetto a schemi sociali prestabiliti (Bell 1985).
Conclusioni: una forma di vita esemplare?
- Note de bas de page 26 :
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Sul concetto cattolico di eroicità e sulla sua evoluzione, v. Ponzo e Rai (2019).
- Note de bas de page 27 :
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Il dolore autoinflitto non è però del tutto scomparso dalla tradizione cattolica, come dimostrano ad es. i rituali dei flagellanti o degli empalaos, analizzati in Leone (2014).
Nel corso del tempo, la valutazione e il ruolo della violenza fisica autoinflitta cambiano: mentre nelle agiografie medievali e moderne ha un valore positivo – che va messo in relazione a un’idea di eroicità26 ancora legata a imprese straordinarie atte a suscitare la meraviglia del lettore, invece che a una virtù che si dispiega nella vita quotidiana senza imprese eclatanti –, nel Novecento essa risulta meno accettabile e prevale invece il tema dell’accettazione di un dolore non procurato attivamente, anche se spesso invocato da mistiche che finiscono per desiderare e chiedere insistentemente a Cristo sempre nuove sofferenze, soprattutto spirituali27.
- Note de bas de page 28 :
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Ad es. le consorelle che curano la sua autobiografia censurano un passaggio in cui Marguerite descrive con troppa crudezza l’ingestione di materiali disgustosi annotando: “La delicatezza del nostro secolo non potrebbe sopportare il racconto che l’obbedienza fa scrivere qui alla nostra Beata. Bisogna che N Signore intervenga egli stesso per arrestarla nell’eccesso della mortificazione” (Alacoque 2020: 70).
- Note de bas de page 29 :
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Ad es. Capua (2013: 83-84), Amorth (2018: 80).
- Note de bas de page 30 :
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Celano (2015: 149-150), Capua (2013: 327-329, 331-337), Kempis (2012: 94-99, 101-102, 116, 118).
- Note de bas de page 31 :
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Capua (2013: 98, 103), Kempis (2012: 89-90).
Sebbene sia gli agiografi medievali che quelli moderni e contemporanei giudichino il prodigioso digiuno come segno di eccellenza, la loro sanzione delle pratiche alimentari delle mistiche non è del tutto positiva, in quanto le ritengono eccessive rispetto al gusto e al decoro, proprio per la loro intollerabile violenza28. In particolare, gli agiografi concordano sul fatto che le pratiche di digiuno delle mistiche non sono imitabili, non possono costituire un modello29. Curiosamente, forse con il rischio di sovrainterpretare un poco, possiamo dire che neppure le sante sanzionano in modo pienamente positivo le loro pratiche, in quanto tendono ad applicare un doppio metro di giudizio: mentre il cibo materiale ha per loro un valore negativo, assume un valore positivo quando è destinato agli altri. Chiara, Caterina e Lydwine fanno molti miracoli di moltiplicazione del cibo per sfamare il loro prossimo30 e Caterina e Lydwine, sebbene desiderino (e ottengano) la povertà per sé e per le proprie famiglie, sono generosissime nel dare beni ai poveri per migliorarne le condizioni di vita31.
- Note de bas de page 32 :
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Nel senso di Mauss (1936).
Di conseguenza, queste agiografie nel loro complesso presentano schemi narrativi e temi ricorrenti, che insieme delineano la forma di vita di cui qui sono stati analizzati alcuni aspetti – relativi agli stili esperienziale, pratico e praxico – secondo la categoria della violenza. In questa forma di vita gioca un ruolo fondamentale una specifica tecnica del corpo32, un modello di comportamento (anche alimentare) descritto in modo talmente dettagliato che potrebbe costituire un esempio imitabile. Tuttavia, i testi stessi dissuadono il lettore dall’imitare questa tecnica. Tale contraddizione non è risolvibile, anzi la combinazione di esemplarità e inimitabilità, di conformismo e eccezionalità, è una delle caratteristiche peculiari della vita dei santi, ed è proprio questa loro “stranezza” rispetto al contesto culturale cui appartengono che conferisce loro quello che Lotman (1985) definisce “diritto alla biografia”, ossia rende la loro storia fuori dal comune e quindi degna di essere raccontata e ricordata.
Se non ha valore esemplare, il digiuno delle mistiche ha senso soprattutto come segno, di eroicità per le mistiche pre-novecentesche (per suscitare lo stupore e l’ammirazione del lettore e attirarlo così alla fede), del valore dell’Eucaristia come cibo spirituale per le mistiche novecentesche (Amorth 2018: 80, Corona 2012: 7). Inoltre, nel suo complesso, la forma di vita rappresentata dalle mistiche digiunatrici serve a dimostrare l’idea che l’anima possa e debba prevalere sul corpo: le mistiche sono descritte come creature superiori al resto delle persone proprio per la loro vittoria nella lotta contro il corpo. Questo si vede bene ad esempio nella biografia di Marthe, il cui autore, il filosofo cattolico Guitton, descrive Marthe come “un cadavere”, “un cervello” particolarmente sviluppato e dalle capacità eccezionali, in grado di pensare costantemente grazie all’assenza totale di sonno, e senza il disturbo degli stimoli sensoriali (per via della paralisi, della reclusione e del buio in cui vive la mistica). Marthe è per Guitton l’esemplare di una forma superiore di umanità che ha vinto la “natura”, prevalendo con facoltà mentali e spirituali sul corpo e le sue debolezze, ossia di homo mysticus, visto come sviluppo dell’homo sapiens (Guitton 2012: 241).
Lasciando da parte la connotazione più strettamente religiosa, questa concezione è di fatto molto attuale: una parte della cultura secolarizzata di oggi ancora pone l’accento sui limiti del corpo umano e sul loro superamento. Certo, i programmi narrativi mainstream in cui questa assiologia si figurativizza sono diversi da quelli qui considerati: specie per via della svalutazione dell’idea di fare violenza su se stessi e per la centralità dell’idea del benessere, non si basano tanto su una lotta aperta contro il corpo, ma piuttosto sul supporto della tecnologia, sulla creazione di un’intelligenza artificiale, pensiero disincarnato che in molte utopie segnerà una svolta nello sviluppo umano verso una sempre maggiore autonomia nei confronti del corpo e dei suoi limiti.