Iconoclastie del sé. Pratiche della verità e ideologia della rappresentazione nell’arte comportamentale di Marina Abramović
Maria Cristina Addis
Università di Siena
Il contributo tenta di sondare alcune delle questioni estetiche e biopolitiche sollevate dalla performance art elaborata da Marina Abramović nel corso di più di cinque decadi, concentrandosi sulle forme di istituzione dell’artista/performer come soggetto di verità e dell’arte della performance come pratica del dire-il-vero.
Insieme macchina estetica coercitiva e progetto esistenziale, l’arte del comportamento (Abramović 2012) sembra riattivare negli spazi mondani dell’arte contemporanea alcune antiche pratiche del sé che trovano matrice nella parrēsia, figura di verità rubricata da Michel Foucault fra le aleturgie, forme tramite cui l’individuo si rappresenta a se stesso ed è riconosciuto dagli altri come veritiero.
Il titolo, Iconoclastie del sé, condensa i meccanismi e gli effetti di un dispositivo enunciazionale imperniato sulla costruzione e distruzione di immagini di soggetto che offendono e suscitano violenza, figurano la lacerazione del sé e disgregano lo sguardo, esibiscono gli stati e i moti di corpo e coscienza e mobilitano il ‘mondo interiore’ dell’osservatore al punto di condurlo a interrompere la performance.
Lo studio propone l’analisi comparata di alcune opere – le cinque performance che compongono il ciclo Rhythm (1973-74) e The Artist is Present (2010) – la cui distanza cronologica, tematica ed espressiva meglio evidenzia la comune logica figurale e tensiva che struttura e modella di volta in volta il processo di “teatralizzazione del principio di non dissimulazione” (Foucault 2009) incarnato dal corpo performativo e la teoria dell’individuo ad esso sottesa.
The paper explores some of the aesthetic and biopolitical issues raised by the performance art inaugurated and elaborated by Marina Abramović over the course of more than five decades, focusing on the forms by which it shapes the artist/performer as subject of truth and performance art itself as practice of telling the truth.
As a coercive aesthetic machine that subjugates the gaze, and an existential project that involves spiritual agonism, performance art seems to reactivate in the mundane spaces of contemporary art some ancient practices that finds its matrix in the act of Parrēsia, figure of truth listed by Michel Foucault among aleturgies, i.e. among the culturally typified forms by which an individual represents himself and others as a subject of truth.
The title, Iconoclasms of the Self, summarises the mechanisms and effects of an enunciational device centred on the production and laceration of ‘images of the subject’ that offend and provoke violence, depict the laceration of the self and disintegrate the gaze, exhibit the states and motions of the body and consciousness, and mobilise the "inner world" of the observer to the point of leading him to interrupt the performance.
The study proposes a comparative analysis of some works – the five ones included in the cycle Rhythm (1973-74) and The Artist is Present (2010) – whose chronological, thematic and expressive distance best highlights the common figural and tensive logic that shapes the process of “theatricalisation of non-dissimulation” (Foucault 2009) embodied by the performing body and the theory of the individual underlying it.
Cet article cherche à approfondir quelques questions esthétiques et biopolitiques soulevées par l’art de la performance artistique inauguré et élaboré par Marina Abramović au cours de plus de cinquante ans, en se concentrant sur les formes d’institution de l’artiste/performeur en tant que « sujet de vérité » et de l’art de la performance lui-même en tant que « pratique du dire vrai ».
Machine esthétique coercitive qui soumet le regard, terrain d’une technologie du soi qui exige la reconnaissance des autres pour se réaliser, projet existentiel qui passe par l’agonisme spirituel, la performance artistique semble réactiver dans les espaces mondains de l’art contemporain l’ancienne pratique du « Dire Vrai Sur Soi-meme » qui trouve une sorte de modélisation dans l’acte de Parrēsia, figure et pratique de la vérité classée par Michel Foucault parmi les aleturgies, c’est-à-dire parmi les formes culturellement typées par lesquelles un individu se représente et représente les autres comme sujet de vérité.
Le titre, Iconoclasties du Soi, résume les mécanismes et les effets d’un dispositif énonciatif reposant sur la production et la lacération d’« images du sujet » qui offensent et qui suscitent la violence, mettent en scène la lacération du soi et désarticulent le regard, exhibent les états et les mouvements du corps et de la conscience, et mobilisent le « monde intérieur » de l’observateur au point de le conduire à interrompre la représentation.
L’article propose une analyse comparative de quelques œuvres – les cinq pièces composant le cycle Rhythm (1973-74) et The Artist is Present (2010) – dont la distance chronologique, thématique et expressive met parfaitement en évidence la logique figurale et tensive commune qui structure et façonne le procès de « théâtralisation de la non-dissimulation » incarné dans chaque cas par le corps performatif et la théorie de l’individu qui le sous-tend.
Index
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Mots-clés : arts vivants, Marina Abramović, parrēsia, sémiotique de l’art, théorie de l’image
Keywords : Art Theory, Living Arts, Marina Abramović, Parrēsia, Semiotics of Art
Parole chiave : arti viventi, Marina Abramović, parrēsia, semiotica dell’arte, teoria dell’immagine
Auteurs cités : Marina ABRAMOVIĆ, Michel FOUCAULT, Bruno LATOUR, Louis MARIN
1. Introduzione: sulla verità a rischio di morte
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Risposte offerte durante le interviste di Iwona Blazwick presso la Tate Gallery di Londra nel 2010 e di Patricia Cohen per il canale televisivo del New York Times nel 2012, tr. nostra.
“L’artista non deve mai mentire a se stesso e agli altri”, recita il primo comandamento del manifesto stilato da Marina Abramović nel 2009. “Il teatro è finto, la performance è vera. A teatro il coltello è finto, il sangue è ketchup; nella performance il coltello è vero, il sangue è vero sangue”1, risponde la stessa, più volte, interrogata sulla differenza fra pièce teatrale e performance art.
Nella tensione fra il dovere di trasparenza del performer e la materialità della performance enunciati nelle due dichiarazioni si addensano un’etica e tecnica delle arti viventi che sembrano riattualizzare in seno all’arte contemporanea alcune figure e pratiche di verità che trovano matrice nella parrēsia, antica “virtù, dovere e tecnica del dire-il-vero”:
La parrēsia va cercata sul versante dell’effetto che il dire-il-vero può produrre sul locutore: dell’effetto di ritorno che il dire-il-vero può produrre sul locutore a partire dall’effetto che egli produce sull’interlocutore. Platone e Dione [rivolgendosi a Dionisio e accogliendo il rischio della sua collera] sono persone che praticano [...] la parrēsia, poiché [dicendo la verità] espongono se stessi – coloro che l’hanno detta – a pagare un certo prezzo per averla detta. E in questa circostanza sono pronti a pagare (e affermano, con il loro dire-il-vero, di essere pronti a pagarlo) non un prezzo qualsiasi: questo prezzo è la morte. (Foucault 2009: 147-148 tr. it.)
Le parole del filosofo francese descrivono un’interazione dialogica indissociabile dal duello, sorta di “struttura agonistica con due personaggi che si fronteggiano e che entrano in lotta, l’uno contro l’altro, attorno alla verità” (ibidem). “Verità che divide”, la parresia si esprime sull’ēthos, “dice in modo polemico ciò che ne è degli individui e delle situazioni” (ibidem), comporta l’ostilità dell’altro perché intacca la sua immagine di sé, il simulacro con cui si rappresenta a se stesso e si presenta agli altri.
La performance art condivide con la parrēsia la tensione fra verità e rischio di morte: gioco vertiginoso di forze credute e credenze efficaci, l’“arte del comportamento” [“art of behaviour”, Abramović 2012] deve i suoi effetti epistemici, estetici e fattitivi alla produzione e scambio di immagini di sé e del Sé che riproducono ricorsivamente una scissione, una divisione, una lacerazione del corpo e del soggetto riflesso dal dispositivo rappresentazionale suscettibile a sua volta di condurre l’osservatore e la stessa rappresentazione al limite.
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La dimensione teorica del lavoro di Abramović è evidenziata in particolare da Cristina Demaria (2004). In dialogo con gli studi storici e critici sulle arti viventi, la semiologa individua un’impasse della ricerca sulla performance art dovuta alla sua natura aleatoria e singolare, che la escluderebbe dal dominio della testualità. Demaria mette in luce come al contrario l’assunzione di testualità, e quindi di discorso, sia condizione necessaria per rintracciare ed esplicitare la teoria del soggetto e la critica dei suoi stereotipi incarnata dal “corpo performativo”: “Performance and its bodies are therefore a language not because they are made by signs, as verbal language, but because they utter a discourse, that is, they produce their own levels of significance. Performance is thus that discourse, that practice, through which perception and categorization together can open the body and change it, opposing the scleroticization of the shared uses and stereotypes of any enunciative praxis which closes the potential openness of the body” (Demaria 2004: 301, corsivi nostri).
Come osserva Omar Calabrese (1991), l’atto di morire è esso stesso un evento-limite, e in quanto tale emblematico di ogni processo passionale, sia in senso etimologico di sofferenza che più in generale come moto dell’animo: il contenuto aspettuale del trapasso, insieme puntuale e durativo, costituisce un’aporia topologica e semantica che ha imposto alle arti figurative, e in particolare proprio nell’ambito del martirio - una delle figure di parresia più codificate e drammatizzate della cultura occidentale – un’intensa elaborazione teorica. Per quanto il lavoro di Abramović attinga spesso all’iconografia e letteratura sacra barocca e sia denso di riferimenti alla causa partigiana slava come alla biografia familiare dell’artista, la verità su di sé in gioco nella performance non è una figura, un tema o un contenuto convocati nel discorso, ma un dispositivo che interessa la passione e il martirio in primo luogo in termini sintattici, relativi al campo tensivo aperto dall’“esser sul punto di e l’esser appena morti” (Calabrese 1991: 99) e alla sfida teorica, prima ancora che esistenziale, che esso impone alla rappresentazione2.
Il titolo, “iconoclastie del sé”, prefigura un dispositivo enunciazionale imperniato sulla costruzione di immagini di soggetto che offendono e suscitano violenza, figurano la lacerazione del sé e disgregano lo sguardo, esibiscono gli stati e i moti del corpo e della coscienza e mobilitano il “mondo interiore” dell’osservatore al punto di condurlo a interrompere la performance.
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Louis Marin definisce “totalizzante e totalitario” il punto di vista istruito dalla rappresentazione sul mondo che rappresenta, esito della neutralizzazione dello scarto fra il mondo della vita e il mondo dell’immagine operata dalla cornice del quadro e per estensione dallo spazio dell’arte. la cornice è dunque intesa come operazione teorica di frattura che guida il passaggio dall’aspetto del visibile, dalla differenza che vige nel mondo fenomenico (in cui non si dà una visione stabilita ma lo sguardo stabilisce di volta in volta relazioni variabili fra ciò che gli è dato esperire), al prospetto della rappresentazione, che si istituisce come differenza rispetto alla differenza, quale totalità chiusa e auto-referenziale definibile esclusivamente in negativo. Cfr. in particolare Marin 1994, 2005.
Il sottotitolo, “pratiche della verità e ideologia della rappresentazione”, sintetizza quest’ultimo plesso, cruciale, della performance art, convocato nel parallelo con il teatro istruito dall’autrice: se il sangue e il coltello finti sono funzionali a rappresentare un evento cruento, la performance investe un evento cruento del valore di rappresentazione e assoggetta lo sguardo al suo totalitarismo3. La “lama è vera lama” e “il sangue vero sangue” in quanto attivano un processo fisiologico irreversibile, che l’operazione di cornice operata dalla Galleria, dal Museo, dal Centro Culturale all’interno di un determinato e circoscritto arco temporale renderà oggetto di un’esperienza riflessiva.
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Cfr. infra, § 3.
In dialogo con gli studi di Michel Foucault dedicati alle aleturgie4 e il lavoro di Louis Marin sui rapporti fra potere e rappresentazione, la ricerca propone l’analisi di una serie di performance – il ciclo Rhythm (1973-74) e The Artist is Present (2010) – la cui distanza cronologica, tematica ed espressiva meglio evidenzia la comune logica figurale e tensiva che modella e orienta di volta in volta la “teatralizzazione del principio di non dissimulazione” (Foucault 2009: 458) incarnata dal corpo performativo e la teoria dell’individuo ad esso sottesa.
2. Grammatiche della verità: Rhythm
Rhythm intitola un ciclo di performance realizzate fra il 1973 e il 1974, quasi agli albori della carriera dell’artista: Rhythm 10 (R10, 1973, Fig. 1, Fig. 2), Rhythm 5 (R5, 1974, Fig. 3, Fig. 4), Rhythm 2 (R2, 1974, Fig. 5, Fig. 6), Rhythm 4 (R4, 1974, Fig. 7, Fig. 8), Rhythm 0 (R0, 1974, Fig. 9, Fig. 10).
La numerazione delle opere non corrisponde a una serie progressiva, ma traduce una qualche proprietà numerica delle figure che strutturano l’evento performativo: le cinque dita della mano raddoppiate dalla ripetizione (R10), le cinque punte della stella che circoscrive il corpo “vitruviano” riverso di R5, gli opposti stati psico-fisici indotti dagli psicofarmaci in R2, il chiasma fra ventilatore / corpo e videocamera / monitor in R4. L’ultima, significativamente numerata 0, traduce insieme il grado zero del processo di esteriorizzazione dell’interiorità progressivamente descritto dalle precedenti e il principio di figurazione dell’individuo che vi si elabora.
2.1 Esercizi spirituali: Rhythm 10
Metto un foglio di carta bianca sul pavimento.
Metto 20 coltelli di varie dimensioni e forme sul foglio.
Appoggio sul pavimento 2 registratori con microfoni.
Accendo il primo registratore.
Prendo il primo coltello e lo infilzo tra le dita aperte della mano sinistra, il più velocemente possibile.
Ogni volta che mi taglio, cambio coltello.
Quando finisco di usare tutti i coltelli (tutti i ritmi), riavvolgo il nastro del registratore.
Ascolto la registrazione della prima parte della performance.
Mi concentro.
Ripeto la prima parte della performance.
Dispongo i coltelli allo stesso modo, seguo lo stesso ordine e lo stesso ritmo, e mi taglio negli stessi punti.
In questa performance, gli errori del passato e del presente vengono sincronizzati.
Riavvolgo il nastro del secondo registratore e ascolto il doppio ritmo dei coltelli.
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Cfr. Abramović 2018, p. 84.
Poi me ne vado5.
Realizzata nel 1973 a Roma presso il Museo d’Arte Contemporanea Villa Borghese, R10 si ispira a un “gioco slavo da ubriachi” (Abramović 2018: 83), consistente nell’infilzare iterativamente un coltello fra gli spazi vuoti creati dalle cinque dita della seconda mano stesa su un piano. Mondana pratica della verità, il gioco vede l’individuo offrire ai compagni un piccolo spettacolo di sé, sfidando spavaldamente il proprio stato alterato con un’azione rischiosa che necessita controllo e padronanza di sé.
Fig. 1 - Rhythm 10, 1973, Roma, Museo d’Arte Contemporanea Villa Borghese, © Abramović 2018
Fig. 2 - Rhythm 10, 1973, Roma, Museo d’Arte Contemporanea Villa Borghese, © Abramović 2018
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Gli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio di Loyola formalizzano un genere di pratica religiosa incentrata sull’immagine e i suoi poteri: la rappresentazione pittorica o scultorea ha la funzione di proiettare il corpo dell’esercitante nell’immagine e accompagnare e guidare un atto di conformazione. Nelle dense ricerche dedicate al “bel composto” di Bernini, Careri (2017) mostra – in particolare nell’analisi della Cappella Fonseca in San Lorenzo in Lucina – la sintassi comune alle modalità di contemplazione definite dagli esercizi di Loyola e il dispositivo patetico espresso dal composto. Sul ruolo dell’immagine e dell’immaginazione nell’esercizio spirituale cfr. inoltre Barthes 1971, Corrain 1996.
Tale attività è a sua volta incassata in una pratica articolata nell’insieme come un esercizio spirituale, di cui conserva il medesimo rapporto fra soggetto, immagine e immaginazione6: strutturata in quattro atti, R10 alterna per due volte una serie di azioni del e sul corpo e un’operazione cognitiva di sintesi e ricostruzione mnemonica dell’evento mediata dal suono registrato.
Contenuti, temi e oggetto ultimo dell’esercizio sono di natura riflessiva: la performance ruota attorno a un passato e un presente che è essa stessa a istruire, e il suo soggetto si cimenta in un esercizio mnemonico di conformazione all’Io di allora. Le immagini che guidano la ricostruzione sono di natura sonora, e loro funzione è supportare l’immaginazione nella ricostruzione dell’evento passato “come se fossi lì presente” (Loyola [114]: 25 ed. it.).
Il ritmo – titolo del ciclo e della performance e secondo nome dei coltelli – descrive la sintassi della conformazione che coinvolgerà il soggetto della pratica e tramite di esso l’osservatore della performance: la traccia sonora esprime un dispositivo topologico che orienta il vertiginoso incassamento di débrayage ed embrayage enunciazionali conosciuti dal corpo performativo e il parallelo montaggio di punti di vista che scandisce il percorso dello sguardo.
2.1.1. Dividere il corpo: figura e movimento, carne e forza
Ognuna delle due macro-sequenze pragmatiche si compone di venti micro-racconti innescati dall’avvio del gesto e conclusi dal taglio.
Il primo atto vede il soggetto in scena esplodere in quattro istanze soggettive in conflitto fra loro. Il medesimo corpo ricopre insieme il ruolo di aggressore e aggredito: la mano destra gestisce una forza distruttiva (il coltello) che rischia di lacerare la pelle e penetrare la carne della mano sinistra, la quale occupa al contrario la posizione di corpo senziente, oggetto di un fare distruttivo e soggetto di un sentire disforico. La scissione riflessiva fra agente e paziente è inoltre duplicata dalla tensione fra integrità e lacerazione della carne e fra controllo e perdita di controllo della propria forza che anima rispettivamente i due gesti.
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Cfr. in particolare le voci dedicate nei classici Greimas-Courtés 1979, 1986 e Fontanille-Zilberberg 1998.
- Note de bas de page 8 :
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Figura per eccellenza della passione ed emblema della prova di verità offerta da Cristo a San Tommaso (esplicitamente ripresa da Abramović nella performance Lips of Thomas, del 1975), la ferita condensa l’intero dispositivo veridittivo e patetico dischiuso dalla retorica della lama e del sangue. Sulla funzione veridittiva e patetica della ferita cfr. fra gli altri Didi-Huberman 2008. Un’analisi della dimensione aspettuale e tensiva della micro-narrazione inscritta nella ferita si deve a Angela Mengoni (2012), che propone un’articolata analisi della configurazione aspettuale e tensiva dischiusa dalla rottura di continuità dell’epidermide nel quadro di una più ampia ricerca sull’’oggetto teorico ferita’ in seno all’arte contemporanea. Su quest’ultimo punto cfr. inoltre Corrain 2016, pp. 57-87.
Com’è noto, in semiotica la tensività7 indica la relazione che il sema durativo intrattiene con il sema terminativo. Il rapporto statico fra azione della mano destra e passione della mano sinistra è animato dai rapporti aspettuali e tensivi innescati dal suo carattere riflessivo: l’iteratività del gesto volontario è sovra-modulata dalla velocità, che oppone la capacità di controllo del movimento agli effetti disgreganti del moto sincopato; lo stato della mano ferma è anch’esso sovra-modulato dal rischio di lesione e si tramuta in una stasi, presenza marcata esito di una contro-forza che l’individuo esercita su di sé per non sparire, per non sottrarsi al raggio d’azione della lama e sventare così il rischio di trauma8.
L’avvio del gesto e l’avvento del taglio circoscrivono un duplice percorso degressivo, o tensivo, che parte dallo stato di quiete iniziale delle due mani (valore estensivo) per dipartire il punto di vista sull’azione fra la velocità progressiva della prima mano e la resistenza indefessa della seconda (valore teso), fino all’evento puntuale che sancisce il termine dell’azione: il taglio. La successione di “ritmi”, lungi da “distendere” la tensione la rinnova e amplifica: come evidenzia Mengoni (2012), ogni apertura esibisce la memoria sintattica del trauma subito, conservando il tratto di imperfettività innescato dal taglio. L’accumulo progressivo di “aperture” del corpo descrive una serie di eventi incompiuti, e che in quanto tali pertengono ancora tutti al presente.
La prima sequenza si conclude con la traccia fisica - sulle dita e il dorso della mano a sua volta incorniciata dal foglio bianco che ne isola la figura - di venti “errori del passato”, traccia di eventi di mancata conformità dell’azione all’intenzione e costellazione di marche che li presentificano.
2.1.2. Staccare la coscienza: immagine e immaginazione di sé
Il momento in cui le venti opzioni vengono esaurite vede un radicale cambiamento di punto di vista del soggetto: prima doppiamente scisso in Io e Sé dalla dinamica dell’azione (coltello) e della passione (mano immobile), il soggetto della performance occupa adesso la posizione cognitiva di un osservatore terzo, un Egli, impegnato a decifrare un evento oggettivato e messo a distanza dal registratore, che ne restituisce una seconda traccia, sonora.
- Note de bas de page 9 :
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Sulla differenza fra esercizio spirituale e visione mistica cfr. anche Corrain 1996 pp. 99-102.
La letteratura prima citata sugli Esercizi concorda nell’evidenziare la differenza fra la pratica di immedesimazione e la visione mistica. Come osserva Barthes, “l’immagine ignaziana non è una visione, è una veduta, nel senso che la parola ha nell’arte dell’incisione (‘Veduta di Napoli’, ‘veduta del Pont-au-Change’, etc.)”, e questa veduta “va inoltre presa in una sequenza narrativa” (Barthes 1971: XVII)9: fine ultimo del percorso patetico-cognitivo del praticante non è il collasso della competenza cognitiva e di ogni distanza fra sé e il mondo, ma la sciente costruzione di rappresentazioni di cui il soggetto è insieme il fabbricatore e il beneficiario. L’esperienza sensuale, centrale nella pratica, ha la funzione di supportare la costruzione di un’immagine di sé su cui il praticante ritorna continuamente: “vedere le persone con la vista immaginativa […], con l’udito, ascoltare ciò che dicono o potrebbero dire […], con l’olfatto e il gusto, odorare e gustare […], con il tatto toccare, per esempio baciando e abbracciando”, e ogni volta “riflettere in se stesso” e “trarne qualche profitto” (Loyola: [112-125]: 26 ed. it.).
Ritrattosi in un corpo ora immobile, con gli occhi chiusi, il soggetto del comportamento-arte procede alla ricostruzione della scena passata avvalendosi dell’operazione di oggettivazione dell’evento operata dal registratore. I valori tonali che ogni suono acquista rispetto agli altri e la posizione che occupa rispetto a quelli che lo precedono e seguono guideranno la costruzione di un’immagine mentale, che a sua volta orienterà l’azione al centro del terzo atto.
Quest’ultimo prevede un programma molto diverso dal primo. In questo caso, la condotta prosegue l’esercizio di immedesimazione avviato dalla ricostruzione mnemonica e consuma l’embrayage del suo soggetto all’interno della scena: non si tratta più di una sfida contro il caso ma della conformazione dell’azione all’immagine interiore. La tensione fra Io e Sé esibita in precedenza, entrambi a rischio di disgregazione, cede il posto a una coscienza coesa e integrata di cui le due mani sono altrettante emergenze coordinate.
Il secondo momento di ascolto, quello in cui “gli errori del passato e del presente vengono sincronizzati”, ripristina il punto di vista esterno, che anche in questo caso è guidato da un diverso progetto conoscitivo: l’immagine sonora non è più strumento per connettere un prima e un dopo, ma supporta l’esperienza di una durata svincolata dall’evento che l’ha generata.
La struttura dell’esercizio, che vede il soggetto disgregarsi e ricomporsi, esternare il proprio interno e ripiegarsi su se stesso, descrive una parallela azione dello e sullo sguardo. Il primo atto lo coopta nel medesimo percorso a serpentina circolare della lama: lo sguardo è mobilitato dalla dinamica tensiva prima descritta e costretto letteralmente a percorrere con gli occhi il perimetro tracciato dal coltello e apprezzare a ogni colpo la lacerazione della figura umana e l’avvento nell’orizzonte del visibile della sua controparte materica, il sangue. L’immobilità del corpo e la virtualizzazione della vista della performer che inaugurano la seconda parte inscrivono nella scena una posizione fissa di contemplazione sonora che lo stesso osservatore è costretto ad assumere. Il terzo atto duplica il percorso ipnotico degli occhi e ne intensifica gli effetti nella dialettica fra il presente delle ferite avvenute e il presente di quelle che ne rinnoveranno gli effetti. Il quarto definisce infine una nuova posizione contemplativa. “In questa performance, gli errori del passato e del presente vengono sincronizzati” recita la definizione di R10 offerta da Abramović: l’immagine sonora che raddoppia passato e presente è ora musica, le discontinuità percettive che scandiscono il suono sono sollevate dalla loro funzione referenziale e colte in quanto tali.
R10 introduce la natura e le forme della verità in gioco nell’allora nascente arte del comportamento e definisce i suoi meccanismi e obiettivi ultimi, incentrati sulla tensione fra valorizzazione referenziale e valorizzazione estetica dell’evento in corso. Da R10 a The Artist is Present, al centro dei rapporti di sapere e potere dischiusi dalla performance art e fine ultimo della sua pratica è un’esperienza riflessiva della durata dell’evento-arte. Principio primo del suo funzionamento è l’istruzione di una dialettica tensiva fra l’irreversibilità di una trasformazione fisica del corpo e la circolarità autoreferenziale cui lo assegna il suo statuto di immagine.
Le performance successive procederanno ad articolarla ulteriormente, introducendo al contempo alcune variazioni che chiamano in causa esplicitamente l’ultimo limite coinvolto nel dispositivo, quello fra mondo della rappresentazione e mondo della vita.
2.2. Ai limiti dell’individuo: Rhythm 5
Costruisco una stella a cinque punte, riempiendola di trucioli di legno che ho impregnato con 100 litri di benzina.
Dò fuoco alla stella. Ci cammino attorno. Mi taglio i capelli e getto dentro ogni punta della stella. Mi taglio le unghie e le getto in ogni punta della stella. Entro nello spazio vuoto della stella e mi distendo. Non mi rendo conto che il fuoco ha consumato tutto l’ossigeno; rimango sdraiata all’interno, perdo conoscenza. Poiché sono distesa il pubblico non reagisce. Soltanto quando il fuoco comincia a bruciarmi una gamba senza che io reagisca, due perone del pubblico entrano nella stella e mi portano all’esterno.
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Cfr. Abramović 2018, p. 90.
La performance è interrotta10.
Nel 1974, presso il Centro Culturale Studentesco (SKC) di Belgrado, Marina Abramović procede a tutt’altro rituale rispetto alla performance che apre il ciclo.
Fig. 3 - Rhythm 5, 1974, Belgrado, Centro Culturale Studentesco (SKC), © Abramović 2018
Fig. 4 - Rhythm 5, 1974, Belgrado, Centro Culturale Studentesco (SKC), © Abramović 2018
R5 estroverte l’esercizio spirituale e l’atto di conformazione che esso guida: la performer costruisce fisicamente la stella entro cui prenderà letteralmente posto, per assegnarsi al processo propagativo del fuoco e alla sua azione indifferenziante.
La performance correla esplicitamente la topica corporea all’identità politica, nazionale e più in generale sovra-individuale, omologando l’Io a una serie concentrica di soglie. La figura pentagonale formata dalla mano stesa poggiata sul foglio bianco, al centro di R10, è riprodotta su nuova scala dalla grande stella a cinque punte all’interno della quale l’artista collocherà il proprio corpo, distendendo le estremità nei suoi rovesci interni.
L’immagine restituisce un grottesco uomo vitruviano, colto nella sua dimensione materica piuttosto che eidetica, fisica invece che geometrica. Se il primo vede il corpo umano come la forma di raccordo fra quella terrestre (quadrato) e quella celeste (cerchio), in questo caso la stella riproduce e sublima il perimetro del corpo e condensa la dialettica fra la finitezza della carne e l’infinito dello spirito, un cielo stellato che a differenza del cerchio è volume sconfinato ed energia luminosa.
La verticalità, marca della vittoria dell’essere umano sulla gravità e in generale sui bassi istinti, è negata dalla posizione orizzontale. La forma pentagonale è essa stessa corpo, circoscritta e integrata dalle assi di legno e contenente una sorta di corrispettivo inerme del sangue, il truciolato, che ne condivide lo stato informe e vischioso. La benzina gli darà vita, innescando l’azione di alterazione fisica che converte la massa in energia termica, la terra in fuoco e l’aria in fumo.
Il processo di immedesimazione è inaugurato dal gesto che pone in continuità gli estremi inerti della performer (unghie e capelli) e della stella (truciolato), e consumato dall’inscrizione del corpo al suo interno, in uno stato che con la materia condivide l’immobilità, l’inerzia alla gravità, la vulnerabilità alla combustione.
L’azione aggressiva, in R5 come in tutte le performance successive, non è più direttamente riflessiva, ma effettuata da un agente esterno in questo caso impersonale, le fiamme, che dischiude un gioco tensivo del tutto diverso. R5 produce i suoi effetti di presente tramite un’unica tensione, innescata dal rapporto fra il percorso delle fiamme e del fumo dall’esterno all’interno della stella e il parallelo processo di alterazione irreversibile del corpo e perdita più o meno definitiva di conoscenza che inevitabilmente conoscerà l’artista. Combustione e soffocamento sono i rischi speculari accolti da un comportamento in questo caso del tutto ricettivo rispetto a un evento aperto, che sarà la contingenza a scrivere per intero.
Laddove l’osservatore di R10 è catturato in una polifonia di ‘ritmi’ che spostano e mobilitano continuamente il punto di vista, in questo caso il centro del corpo, il centro della stella e il centro dell’immagine coincidono dall’inizio alla fine della performance: ognuno degli osservatori occupa un punto di un ultimo cerchio che circoscrive l’intera scena, preso nel gioco fra sguardo estetico, posto di fronte alla progressiva dissoluzione della forma e della materia nell’energia impersonale della fiamma, e sguardo referenziale, testimone della distruzione irreversibile di una vita.
L’immobilità del corpo, che in R10 marca senza scarti le rispettive posizioni di performer e osservatore rispetto all’immagine sonora riprodotta dal registratore, in questo caso introduce indecidibilità fra stasi (il perdurare intenzionale nell’immobilità) e lassità di un corpo privo di conoscenza.
L’adesso di R5 non è la comune partecipazione a un’esperienza contemplativa della durata, ma il punto del tempo in cui si scontrano contemplazione estetica e dovere etico. Proporzionalmente all’intensità delle fiamme e al rischio di vita della performer, la terzità dell’osservatore si dissolve per convertirsi in posizione necessariamente marcata: aderire al gioco dell’arte e assistere alla morte di un essere umano, intervenire attivamente per salvare una vita a costo di interrompere la rappresentazione. La performance si conclude quando quest’ultimo limite è oltrepassato da alcuni astanti, che resisi conto che la donna ha perso conoscenza, la sottraggono di peso alle fiamme, ponendo termine allo spettacolo.
2.3. Il corpo fuori di sé: Rhythm 2
Uso il mio corpo per un esperimento. Prendo i farmaci usati negli ospedali per il trattamento di catatonia acuta e schizofrenia, provocando effetti imprevedibili nel mio corpo.
Parte I
Guardando il pubblico, ingerisco il primo farmaco. Il medicinale è somministrato a pazienti che soffrono di catatonia, per costringerli a cambiare posizione del corpo. Poco dopo aver assunto la medicina, i miei muscoli cominciano a contrarsi in modo violento, finché non perdo completamente il controllo. Sono perfettamente conscia di ciò che mi sta succedendo ma non riesco a controllare il corpo.
Durata: 50 minuti
Pausa
Sintonizzo la radio su una stazione a caso. mentre mi preparo per la seconda parte, il pubblico ascolta canzoni popolari slave alla radio
Durata: 10 minuti
Parte 2
Davanti al pubblico, ingerisco la seconda pasticca. Questo farmaco viene somministrato per calmare pazienti schizofrenici con violenti disturbi comportamentali. Questo farmaco viene somministrato per calmare pazienti schizofrenici con violenti disturbi comportamentali. poco dopo aver preso il secondo medicinale, sento prima freddo poi perdo conoscenza, dimenticando chi sono e dove mi trovo. La performance termina quando il farmaco smette di avere effetto.
- Note de bas de page 11 :
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Cfr. Abramović 2018, p. 96.
Durata: 6 ore11
R2, realizzata nel 1974 presso la Galerija Suvremene Umjetnosti di Zagabria, vede un processo letterale di esplorazione dei limiti fra gesto intenzionale e forza fuori controllo, fra immobilità volontaria e abbandono inerme.
Fig. 5 - Rhythm 2, 1974, Zagabria, Galerija Suvremene Umjetnosti, © Abramović 2018
Fig. 6 - Rhythm 2, 1974, Zagabria, Galerija Suvremene Umjetnosti, © Abramović 2018
R2 ripropone la scissione del soggetto in quattro istanze autonome, responsabili dell’agire e del sentire del corpo e della coscienza. L’azione disgregante è presa in carico in questo caso da farmaci dagli opposti effetti di forzare il corpo al movimento (il primo) o alla stasi (il secondo) indipendentemente dalla propria volontà. Catatonia e schizofrenia, gli stati patologici che vengono rispettivamente trattati con i due medicinali, descrivono i poli speculari di un’indagine incentrata sullo scollamento fra consapevolezza e sensibilità. L’azione mobilitante e sedativa dei due farmaci sospende in un caso la capacità di governo della propria forza e nell’altro la coscienza della propria carne, descrivendo due forme speculari di dissociazione fra Io e Sé.
Il testo prima riportato, con cui l’artista definisce la performance, esplicita i mutui rapporti che la legano al pubblico, alternando un punto di vista da dentro e da fuori il corpo.
L’azione si apre rendendo partecipe chi guarda dell’innesco del processo di alterazione percettiva che conoscerà in seguito la performer: “Guardando il pubblico, ingerisco il primo farmaco”.
A partire da questo momento, il testo racconta le trasformazioni sensibili di cui il pubblico non vedrà che gli effetti. La prima parte riporta la progressiva autonomizzazione dell’apparato muscolare: a uno stato di estrema lucidità corrisponde la totale perdita della capacità di controllo del movimento.
La seconda parte, avviata dal medesimo rituale di esibizione dell’ingestione, restituisce le sensazioni termiche di diminuzione dell’energia corporea (freddo) e infine la perdita di cognizione di sé.
Anche in questo caso, il passaggio da un atto all’altro è mediato da un’immagine sonora, di natura e funzione tuttavia diverse rispetto a R10. La radio assegna l’osservatore a una rappresentazione terza e ulteriore, descritta in questo caso dalle canzoni popolari slave: il suono non è né traccia dell’evento né la sua controparte musicale, ma uno spettacolo a sé stante, che ha la funzione di straniare lo sguardo rispetto all’evento appena conclusosi e accompagnare il ripristino di uno sguardo conoscitivo che comparerà quanto accaduto nella prima parte a quanto accadrà nella seconda.
2.4. L’immagine fuori si sé: Rhythm 4
Spazio A
Lentamente mi avvicino al ventilatore industriale, cercando di inalare quanta più aria possibile. Mentre mi avvicino al bocchettone del ventilatore, a causa della forte pressione dell’aria perdo conoscenza. La performance non viene comunque interrotta. Cado su un fianco sul pavimento, ma il ventilatore continua a cambiare e muovere il mio viso.
Spazio B
La macchina da presa è puntata sul mio viso e non mostra il ventilatore. Il pubblico, guardando il monitor, ha l’impressione che io sia sott’acqua.
Dopo aver perso conoscenza, la performance continua per altri tre minuti, durante i quali il pubblico è all’oscuro del mio stato.
Nella performance riesco a usare il mio corpo che perde e riacquista conoscenza ininterrottamente.
- Note de bas de page 12 :
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Cfr. Abramović 2018, p. 100.
Durata: 45 minuti12
Realizzata nello stesso anno di R2 presso la galleria Diagramma di Milano, R4 duplica la tensione fra corpo e coscienza in quella fra lo sguardo interno della performer soggetta all’azione dell’aria e lo sguardo esterno di un osservatore esposto all’immagine filmica restituita dal monitor.
Fig. 7 - Rhythm 4, 1974, Milano, Galleria Diagramma, © Abramović 2018, Spazio A.
Fig. 8 - Rhythm 4, 1974, Milano, Galleria Diagramma, © Abramović 2018, Spazio B.
I processi del corpo e i percorsi dello sguardo assumono direzioni contrarie e speculari, marcate dall’opposizione di Spazio A, che vede il corpo della performer occultato alla vista del pubblico, e Spazio B, che mostra a quest’ultimo la ripresa operata dalla telecamera, cui la performer non ha accesso.
Mentre l’immagine sonora in R10 guida il processo di immedesimazione della performer e per suo tramite del pubblico, in questo caso l’immagine visiva è valorizzata al contrario per il suo potere di simulazione, perché fa sembrare la faccia deformata dalla pressione dell’aria un viso immerso nell’acqua, le palpebre chiuse dal getto del ventilatore un’espressione di chiusura volontaria degli occhi, l’apertura forzata della bocca un’espressione indecifrabile, fra il sorriso e il ghigno. Solo la comparazione, alla fine della performance, fra i due spazi permetterà alla performer e al pubblico, ognuno dal lato opposto della frontiera istruita dallo schermo, di integrare il ‘pezzo di verità’ mancante e realizzare il progetto conoscitivo promesso dall’intera operazione. La prima vedrà l’immagine di sé distorta dallo schermo, il secondo scoprirà un corpo soggetto a forze deformanti.
Ognuna delle performance precedenti indaga o mostra in qualche misura la tensione fra individuo animale e soggetto umano, faccia e viso, comportamento volontario e involontario. In R4 tale tensione è duplicata dall’ulteriore scissione fra evento e immagine dell’evento.
L’inscrizione del monitor nel proscenio, che inibisce l’accesso scopico al corpo della performer e ne restituisce il riflesso, riproduce in abîme la dialettica fra “finzione del teatro” e “verità della performance” all’interno di quest’ultima. La verità esito della ricongiunzione dei due spazi non concerne più l’esteriorizzazione dell’interiorità individuale ma l’esibizione dei modi di produzione di un’immagine efficace. Lo schermo blocca lo sguardo in limine, sul piano ideale che tramuta la percezione ordinaria in contemplazione estetica: la reciproca comparazione delle opposte esperienze di passione e visione imporrà all’artista e al pubblico di ricostruire il processo di conversione del visibile in rappresentazione e apprezzare l’azione conformante dell’immagine.
2.5. Iconoclash: Rhythm 0
- Note de bas de page 13 :
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Cfr. Abramović 2018, p. 102.
Sul tavolo ci sono settantadue oggetti che possono essere usati a piacere su di me.
Io sono l’oggetto.
Durante la performance mi assumo la totale responsabilità.
La performance è l’ultima del ciclo dei Rhythm (Rhythm 10, Rhythm 5, Rhythm 2, Rhythm 4, Rhythm 0).
Concludo la mia ricerca sul corpo conscio e inconscio.
Lista di oggetti sul tavolo: pistola, ago, zucchero, proiettile, spilla da balia, sapone, vernice blu, forcina, torta, pettine, spazzola, tubo di metallo, campana, benda, bisturi, frusta, vernice rossa, lancia di metallo, rossetto, vernice bianca, confezione di lamette, coltellino tascabile, forbici, forchetta, penna, piatto, profumo, libro, calice, cucchiaio, cappello, cerotto, cotone, fazzoletto, alcol, fiori, foglio di carta bianco, medaglia, fiammiferi, coltello da cucina, stola di pelliccia, rosa, martello, paio di scarpe, candela, sega, sedia, acqua, pezzo di legno, lacci in pelle, sciarpa, accetta, gomitolo, specchio, bastone, cavo di metallo, bicchiere, osso di agnello, zolfo, quotidiano, uva, fotografica Polaroid, pane, olio di oliva, piuma, vino, rametto di rosmarino, catene, miele, mela, chiodi, sale13.
R0, tenutasi nel 1974 presso lo Studio Morra di Napoli, annoda l’insieme di tensioni dialettiche indagate dalle opere precedenti nel corto circuito che fonda la performance: “Io sono l’oggetto. Durante la performance mi assumo la totale responsabilità”.
In primo luogo, vi si magnifica e satura il processo di figurazione dell’Io operato dalle performance precedenti. Il limite dischiude una configurazione topologica e tensiva che investe ricorsivamente, come nei dispositivi barocchi, la medesima dialettica nel corpo, nel gesto, nel soggetto, nell’evento arte.
La tensione fra interiorità e esternalità, circolarità e linearità, chiusura e apertura, reversibilità e irreversibilità innescata dalle opposte forze di coesione e disgregazione conosciute dal corpo scenico dà figura alla soggettività in termini non dissimili dall’Io-pelle teorizzato da Didieu Anzieu (1985) e ripreso in chiave semiotica in particolare da Jacques Fontanille (1999). In entrambi i casi l’Io è modellato come serie di involucri progressivi che con l’epidermide condividono la duplice funzione di involucro e interfaccia. La pelle contiene e separa – il Sé-corpo proprio dal mondo altro e dall’Io-carne – e media fra queste istanze, matrice di una relazione fra interno ed esterno del soggetto che si riproduce a livello olfattivo, uditivo, gustativo e visivo secondo forme specifiche e relativamente autonome.
I 72 oggetti disposti sul tavolo offrono un paradigma di operazioni di alterazione fisica e percettiva che chiamano in causa ognuno degli involucri che separano il corpo proprio dallo spazio altro e dalla carne vivente: lo spettro visivo (specchio), uditivo (campana), olfattivo (profumo, rosmarino), epidermico (piuma, frusta, pelliccia) e infine la pelle, nel suo duplice statuto di contenitore e di superficie.
Alcuni prevedono la possibilità di riempire il corpo (calice, vino, forchetta, piatto, pane, cucchiaio, miele) o lacerarlo (forbici, lamette, ago, chiodi), scavarlo (bisturi), rivestirlo di nuove pelli (rossetto, scarpe, medaglia), magnificarlo come superficie di scrittura (vernici) o supporto di altri oggetti (polaroid, quotidiano), o ancora di trasformarne lo stato materico (fiammiferi, zolfo). Parallelamente, essi prevedono altrettante operazioni che un soggetto può effettuare su e verso un altro soggetto: ferirlo (lame, oggetti contundenti) e curarlo (cerotti, bende), nutrirlo (cibo), provocargli piacere o dolore.
Ognuno dei processi virtuali inscritti negli oggetti prefigura una dinamica tensiva omologa, in gradazioni molto diverse, a quella innescata dalla lama dei coltelli di R10 e dalle fiamme di R5, che trova il suo picco nella pistola: l’eventualità della fragranza di proiettile sul corpo inerme della performer designa la soglia ultima di offesa dell’altro e prefigura esplicitamente il rischio di morire assunto da colei che si assume “la totale responsabilità”.
Secondo le ricostruzioni operate dalla cronaca dell’epoca e dalla stessa artista, dopo un primo momento di interazione minima o nulla, la performance ha visto un graduale coinvolgimento dei presenti in azioni sempre più numerose e invasive, finché qualcuno ha messo la pistola in mano alla donna e altri presenti sono intervenuti a fermarne l’azione.
Fig. 9 - Rhythm 0, 1974, Napoli, Studio Morra, © Abramović 2018.
Fig. 10 - Rhythm 0, 1974, Napoli, Studio Morra, © Abramović 2018.
A livello enunciazionale, la tensione fra sguardo estetico e sguardo referenziale è condensata dal cortocircuito che vede l’artista scegliere di essere l’oggetto, stabilendo una norma in contraddizione aperta con l’ethos sociale. L’opposizione diametrale fra legge della società e legge della performance evidenzia la natura eterotopica dello spazio dell’arte, mondo terzo e autoreferenziale che in questo caso istruisce letteralmente una società a rovescio, in cui il divieto primo alla base della vita associata – non infierire sugli altri individui – è sospeso.
A partire da questa prima schize, R0 rinnova e porta alle estreme conseguenze la dimensione di esercizio spirituale introdotta da R10 e R5 e annoda all’interno di un unico evento-arte le due facce consustanziali dell’arte della verità esplicitamente tematizzate rispettivamente in R2 e R4: esteriorizzazione dell’interiorità individuale e apertura della rappresentazione.
L’artista, che accetta il rischio di offesa e di morte implicato dalla propria decisione di essere l’oggetto, si cimenta e mostra di cimentarsi in un parallelo governo di sé, fondato sulla capacità di assoggettare i sensi e le passioni a un’intenzione disincarnata, tanto più coesa e integra quanto più perdura nella non reazione all’azione di una forza sempre più disgregante.
Al contempo, la gamma di azioni che la performer è suscettibile di subire innesca la dialettica fra corpo e simulacro, fra il tu di un essere umano e l’egli di un’immagine di soggetto. Come osserva Demaria (2004: 300) a proposito delle cronache dell’evento, il corpo che si offre all’azione del visitatore produce immediatamente immagini stereotipate, in primis di genere (Madonna, madre, prostituta). L’evolversi della performance ne mostra una letterale stratificazione, parallela all’intensificarsi della divaricazione fra essere e sembrare del soggetto. L’inversione di ruoli che fonda R0, nello stesso movimento, da un lato invita il partecipante a sperimentare la condizione di sospensione dei confini giuridici ed etici che governano la società ed eventualmente abbandonarsi ad impulsi sadici, dall’altro determina l’assoggettamento dello sguardo alla tensione, interna al rito, fra la caleidoscopia di immagini prodotte dal sommarsi delle azioni e l’accumulo di marche sul corpo e sul viso dei loro effetti.
- Note de bas de page 14 :
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“Se Dio manifesta il suo disegno salvifico e lo vuole efficace, la sua economia si servirà di tutti i mezzi familiari a un padre per riportare a lui il figlio suo fuorviato, di tutti i sotterfugi del medico per guarire il malato suo malgrado, di tutte le seduzioni care al pedagogo che deve far amare il sapere più arduo. Il discorso, il rimedio, l’astuzia, la condiscendenza, il castigo o la menzogna… Tutti i mezzi dell’economia sono buoni quando se ne fa uso con economia [...]. Inglobando nella loro totalità la strategia e la tattica necessarie alla gestione d’una situazione storica reale, l’economia non fa nessuna fatica a ritrovare la sua vocazione classica: essere il concetto della gestione dell’amministrazione delle realtà temporali, sino esse spirituali, intellettuali o materiali” (ivi: 39 tr. it.).
Secondo l’articolata ricostruzione storico-teorica elaborata da Marie-José Mondzain (1996), la controversia iconoclasta lascerebbe in dono all’istituzione ecclesiastica e per suo tramite al potere secolare una nuova teoria delle immagini, che rifonda su tutt’altro registro la legittimità della raffigurazione sacra incrinata dalle accuse di idolatria: “L’icona non è né metaforica né ridondante. Essa è economia dell’immagine, distribuzione operativa e funzionale della sua potenza salvifica” (Mondzain 1996: 151 tr. it.). Se l’idolo pretende di saldare il visibile e l’invisibile, il mondo materiale e il mondo spirituale, l’icona si fonda sulla loro incommensurabile distanza. L’immagine non è vera ma giusta, non duplica Dio ma serve a governare le sue creature secondo il suo disegno, consegnando al teologo, al medico, all’insegnante un “potente strumento pedagogico” (ibidem), funzionale ad adattare la legge alla vita reale, i mezzi ai fini, la trascendenza alla storia14.
La pedagogia dello sguardo istruita da Rhythm procede in direzione inversa a quella descritta dall’“economia salvifica della rappresentazione” (ibidem), fondando la sua propria economia sull’esibizione forzata del presente e dell’assente, del corpo vivo e del simulacro di sé che esso riflette.
L’aporia semantica e topologica del limite struttura insieme il processo di figurazione dell’individuo e dei suoi limiti e quello parallelo di costruzione dell’osservatore, imperniato sulla tensione dischiusa dall’indecidibilità veridittiva che Bruno Latour definisce iconoclash:
Iconoclastia è quando noi sappiamo che cosa sta succedendo nel momento in cui si distrugge qualche cosa e conosciamo le motivazioni che sono dietro a quel che sembra un chiaro progetto di distruzione. Iconoclash, invece, è quando non si sa, o si esita, o si è in difficoltà di fronte a un’azione per la quale non c’è modo di sapere, senza ulteriori indagini, se sia distruttiva o costruttiva (Latour 2002: 168 tr. it.).
L’impossibilità di assegnare un valore univoco al corpo inerme di R5 e R2 – prova estrema della coscienza o indice della sua perdita? Gesto d’artista o legge di natura? Soggetto all’apice di un processo interiore di trascendenza o corpo singolare privo di intenzione come di sensibilità? – è rinnovata e amplificata, in R0, ad ogni intervento attivo del pubblico: i petali di rosa sui seni sono decorazioni o tracce di un atto osceno? Le lacrime, segno di sofferenza o effetto di un’irritazione? Il rossetto apposto sulle labbra è una decorazione o uno sfregio? La pistola fra le mani dell’artista distesa sul tavolo con gli occhi spalancati (immobile per intenzione o perché ha perso i sensi?) inscena o inaugura la catastrofe? Fino alla fine, nessuno dei due poli della valutazione è suscettibile di sostituirsi del tutto all’altro, e fino alla fine l’ultimo amplifica il primo.
Il sincretismo, nel medesimo corpo, del valore di icona e di feticcio, rappresentazione di soggetto e corpo in presenza, divarica, piuttosto che annullare, la loro distanza e intensifica il paradosso del gesto iconoclasta, “come se sfigurare [defacing] un oggetto generasse inevitabilmente un nuovo volto [face], come se lo sfigurare [defacement] e il ricostruire il volto [refacement] fossero necessariamente contemporanei” (Latour 2002: 170 tr. it.).
- Note de bas de page 15 :
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Nello studio prima citato, Demaria (2004) osserva come le performance di questo periodo siano frequentemente lette in meri termini di “contenuti evocati”, senza tener conto del gioco enunciazionale che mettono in moto. Vattese (2004), ad esempio, riconduce Rhythm 0 a una dimostrazione di sadismo: “[it is] sense of feminine oblation, the renunciation of the self as an offering. None of this is without a sadistic clout: faced with and conceding the possibility of violence, the other is hard-pushed to back down. Since the woman is aware of this, she is not only offering herself as a victim but is essentially acknowledging her non-innocence” (Vattese 2002: 51). La contro-lettura di Demaria suggerisce invece di concentrare l’attenzione sulla dimensione meta-discorsiva dell’operazione, in particolare sull’esibizione degli stereotipi femminili che la tensione innescata dalla performance mette in luce. Cfr. in particolare Demaria 2004: 300-302.
Le azioni che i partecipanti compiranno e/o vedranno compiere istruiscono e rinnovano, a ogni intervento, uno sguardo dialettico, mobilitato dalla coalescenza di posizioni di credenza insieme incompossibili e consustanziali: adornare, scrivere, modellare qualcuno come se fosse un manichino e agire su di un essere vivente, contemplare gli stereotipi dell’iconografia femminile convocati dal corpo scenico e apprezzarne la controparte animale, assistere all’esercizio di violenza su una nuda vita e insieme alla generazione di interi micro-drammi sul piacere e sul dolore. I due poli convivono in un crescendo tensivo che condurrà infine alcuni individui a infierire in maniera sempre più aggressiva sul corpo, altri a reagire distruggendo la rappresentazione15.
3. Della lama e del sangue: martirio, cinismo e performance art
La lettura, proposta da Foucault, delle figure e pratiche di verità elaborate in età classica si inserisce, com’è noto, nella più ampia ricerca sulle tecniche di governo e cura di sé conosciute dalla cultura occidentale: a latere dello studio delle strutture epistemologiche, ovvero delle condizioni alle quali un discorso viene riconosciuto come vero, il filosofo francese mira a ricostruire le forme aleturgiche, gli atti tramite cui il soggetto si costituisce come vero di fronte a sé stesso e di fronte agli altri.
L’interesse della parrēsia consisterebbe, in tale prospettiva di ricerca, nell’introduzione della figura dell’altro come costitutiva della pratica di dire e dirsi la verità su di sé:
È studiando queste pratiche di sé, come quadro storico entro cui si è sviluppata l’ingiunzione ‘bisogna dire il vero su se stessi’, che ho visto profilarsi, in qualche modo, un personaggio, presentato con grande costanza come il partner indispensabile, in ogni caso come il supporto pressoché necessario di quest’obbligo di dire il vero su se stessi [...]. Non è necessario aspettare il cristianesimo e l’istituzionalizzazione, agli inizi del XIII secolo, della confessione – non è necessario aspettare, con la chiesa romana, l’organizzazione e la realizzazione di un potere pastorale – perché la pratica del dire-il-vero su se stessi si appoggi e faccia appello alla presenza dell’altro: l’altro che ascolta, che intima di parlare, che parla lui stesso. (Foucault 2009: 34 tr. it., corsivi nostri)
La struttura dialogica e conflittuale dell’arte del parlar franco individuerebbe “una sorta di preistoria di [...] alcune coppie famose” della governamentalità cristiana e delle sue sopravvivenze contemporanee: “il penitente e il suo confessore, il direttore di coscienza e colui che viene diretto, lo psichiatra e il malato, lo psicoanalista e il paziente” (ibidem). Il parrēsiasta, come il confessore o lo psichiatra, è colui per il tramite del quale l’individuo è forzato a essere se stesso, qualcuno che ha il potere di sospenderne la volontà e capacità di simulazione e indurre l’emersione di ciò che è ancora recondito, occulto o nascosto. Nondimeno, diversamente da quanto accade nella cultura cristiana, il potere di far dire la verità non è investito a priori e per legge in tale altro, ma dipende dall’effetto che quanto egli afferma o mostra di credere produce sull’interlocutore.
Due delle sue figure, in particolare, trovano eco nel comportamento-arte: il martirio cristiano e il cinismo.
- Note de bas de page 16 :
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“Il momento di passaggio semantico da ‘testimone’ a ‘martire’ si ha quando questa accezione di testimonianza si applica a quella che si rende anche solo occasionalmente affrontando il rischio della morte, quella che dà il pieno senso al valore della testimonianza stessa. In questa prospettiva, incrociandosi con l’ideale dell’imitazione del Cristo nella sua passione, ha un ruolo determinante il titolo di ‘testimone (mártys) fedele e veritiero’ (Apocalisse 3, 14; cfr. 1, 5) applicato a Cristo […], e che si conferma in rapporto alle parole di Gesù davanti a Pilato quando dichiara di essere venuto a rendere testimonianza – il verbo utilizzato è martyreîn – alla verità (Giovanni, 18, 37)”, Benvenuti et alii 2005: 32.
Secondo la ricostruzione operata in particolare da Benvenuti et alii (2005), a partire dalla metà del II secolo il termine martire inizia ad indicare “sacrificio della vita per testimoniare la fede”16, condensando la struttura stessa di ciò che in apertura abbiamo definito ‘verità a rischio di morte’.
Il martirio è una condotta che attesta in maniera incontrovertibile una verità su di sé, relativa all’interno del soggetto che la enuncia: il martire non mostra/dimostra l’esistenza di Dio, ma l’intensità del proprio creder vero Dio. Come ricorda Silvia Ronchey (1993), lo “scandalo della verità” che lega il martire al brigante, che scardina l’ordine costituito e incrina la coesione sociale, è precisamente l’introduzione, in seno al sapere condiviso, non solo, e non tanto, di valori diversi, ma della possibilità che un individuo si leghi con tanta forza e intensità a quei valori. Il rovesciamento del senso della morte come “nascita in Dio” consuma la neutralizzazione del potere di conformazione dell’individuo da parte dell’autorità, laddove svuota di senso il suo giudizio e di forza la sua azione di distruzione. Colui che, oltre a mostrare “ostentata sottostima dell’interlocutore”, esprime “fretta di morire” (Ronchey 1993: 178), non solo nega il potere di verità espresso dall’autorità pagana, ma ne vanifica il potere di controllo dei corpi, fondato sulla paura del dolore e della morte.
Come abbiamo visto, l’iconografia sacra e martirologica, religiosa o politica, è anch’essa soggetta a iconoclash, convocata solo per essere a sua volta aperta, divaricata fra materia e figura, essere vivente e immagine di soggetto, supporto e contenuto di una rappresentazione. Più che un atto di martirio o la sua rappresentazione, la ricettività adottata dalla performer rispetto all’eventualità di morte trae dal martirio il nodo di rapporti fra sapere e potere, su di sé e sull’altro, che legano persecutore, perseguitato e testimone.
L’artista secondo Abramović si colloca, come il martire, allo snodo di due ordini di relazioni – quella orizzontale fra individuo e società, quella verticale fra carne, singolare e contingente, e spirito, a-storico e trascendente – e governa il passaggio da un polo all’altro, nel quadro di una ricerca sul “corpo conscio e inconscio” di cui il cinismo, ancor più che il martirio, restituisce la sintassi.
La parrēsia cinica è coestensiva all’intera esistenza del suo soggetto, che vive una vita interamente e costantemente visibile a tutti. Il modello animale abbracciato dal cinico, che come il cane non sa mentire, offende in quanto interrompe il gioco di riflessi tramite cui l’altro può riconoscersi a sua volta come individuo socializzato. Allo stesso tempo, “il cane è Re”, in grado di esercitare sovranità assoluta su di sé, e per questo “la vera vita” del cinico, che sembra esasperare l’individualismo nel “modello materiale dell’esistenza”, assume il valore di esempio morale, “è utile agli altri nella misura in cui rappresenta una sorta di lezione a carattere universale: esercitare una perfetta padronanza di sé, testimoniarla agli altri e attraverso questa testimonianza servire da esempio e da modello” (Foucault 2008: 601 tr. it.).
L’arte comportamentale di Marina Abramović può dirsi cinica in quanto costante esibizione di un medesimo sé: i moti del corpo e dell’animo di cui la performance esibisce i limiti non intaccano mai l’intenzione ultima espressa dalle tensioni quasi insostenibili che assoggettano lo sguardo e mobilitano sensi e coscienza dell’osservatore. L’artista che si mostra fino alle viscere e cambia catastroficamente di stato fisico e psichico condivide con il cane-Re l’incapacità di mentire, il regime di trasparenza totale e la sottrazione ai valori della cultura.
La figura del testimone, strutturante del martirio e introdotta da Foucault a proposito del cinismo, introduce l’ultimo polo del dispositivo enunciazionale implicato dalla parrēsia e investito nella performance art: lo sguardo di un osservatore terzo, esterno alla scena, per il quale il rapporto fra i due “antagonisti in lotta per la verità” è sua volta oggetto di giudizio e materia di esempio.
Trentasei anni dopo, presso il Museum of Modern Art (MoMA) di New York, The Artist is Present segnerà il punto d’arrivo della conversione del testimone della testimonianza nel suo protagonista, consumando l’assoggettamento dell’osservatore a una pratica di sé di cui l’artista diviene il “partner indispensabile”.
4. La testimone: The Artist is Present
- Note de bas de page 17 :
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Abramović 2018, p. 115.
Nel 2010, nella mia retrospettiva organizzata al Museum of Modern Art di New York, ho allestito una performance in cui rimanevo seduta su una sedia, immobile e in silenzio. I visitatori erano invitati a sedersi sulla sedia di fronte alla mia e fissarmi per tutto il tempo che volevano. La mia performance è durata 736 ore, durante le quali ho mantenuto il contatto visivo con 1675 spettatori. The Artist is Present è una delle opere più difficili che abbia mai realizzato. Verso la fine […] provavo una stanchezza mentale e fisica mai sentita prima17.
The Artist is Present, realizzata per la prima volta nel 2010 in occasione di una retrospettiva dedicata, prevede uno spazio quadrato, marcato dal perimetro bianco che lo separa da quello del pubblico. Al suo centro è situato un tavolo con due sedie. La prima sarà occupata ininterrottamente dalla performer per otto ore al giorno per quasi tre mesi, la seconda dalla serie di visitatori che uno dopo l’altro vi prenderanno posto a turno. Su tre angoli del quadrato, altrettanti schermi riproducono dall’alto l’interazione faccia a faccia fra i due silenti interlocutori.
Fig. 11 - The Artist is Present, 2010, New York, MoMA, © Abramović 2018.
Fig. 12 - The Artist is Present, 2010, New York, MoMA, © Abramović 2018.
The Artist… non potrebbe sembrare più diversa dalle performance che compongono Rhythm. Densità figurativa e carica patetica cedono il posto a un corpo al grado zero dell’azione e a un’immagine - del soggetto della performance (frontalmente esibita al visitatore) e della loro interazione (riprodotta dagli schermi) - in cui non c’è quasi niente da vedere. Ugualmente, la dimensione conflittuale esasperata dalle performance precedenti sembrerebbe in questo caso del tutto espunta.
Più che segno di un radicale cambiamento di poetica e etica della performance, l’ossatura scarna e spartana della performance del 2010 marca una sorta di punto d’arrivo della pratica di verità di cui Rhythm descrive progressivamente la grammatica.
Il ciclo concluso da R0 dischiude un ragionamento figurativo che come il pensiero mitico secondo Lévi-Strauss (1962) procede per bricolage, combina figure che cambiando di posizione cambiano senso e funzione, guidando non di meno un procedimento conoscitivo che nell’insieme fa sistema. La lama e le dita della mano, la stella e le fiamme, schizofrenia e catatonia, lo schermo e il ventilatore, la ‘sinfonia’ finale a 72 voci approntano una cosmologia degli elementi ancorata a stati e processi fisici elementari: lacerazione, combustione, pressione, collasso della capacità di muoversi o di fermarsi, di reggersi in piedi o di respirare. Specularmente, registratori, radio, videocamera, monitor, inscrivono un’immagine nell’immagine e mostrano il procedimento della sua produzione, tematizzando ed enfatizzando l’ultima piega dell’arte della verità e circonvoluzione del suo dispositivo: il limite fra rappresentazione e vita.
The Artist… riduce i vertiginosi giochi aspettuali e tensivi che regolano il rapporto fra sguardo ed evento-arte nel ciclo degli anni Settanta a un unico scontro frontale che affina, piuttosto che smussare, il dispositivo di manipolazione dell’osservatore.
Malgrado l’assenza di contenuti e azioni violente, si tratta del più aperto e indecidibile degli eventi-arte e la più coercitiva delle rappresentazioni: se Rhythm mobilita a tal punto i partecipanti da indurli a intervenire attivamente per interrompere la rappresentazione, la performance del 2010 ingloba nel suo stesso dispositivo l’azione di individuare e includere di volta in volta il singolo spettatore nell’evento performativo e affidare a lui l’azione di concluderlo.
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“Sotto i nostri occhi si dispiega ininterrottamente tutta un’etica dell’autenticità, l’ingiunzione ad aderire perfettamente alla propria verità interiore liberandosi dai vincoli delle costrizioni culturali e delle buone maniere, per essere finalmente e pienamente se stessi. [...] L’interiorità dell’individuo non è più oggetto di mistero, ma un vanto, un valore da esibire: di fronte al pubblico si confessano i pensieri più reconditi, la fede è chiamata a dirigere le azioni e successivamente a sanzionarle, la condotta privata è invocata a testimone per la bontà di quella pubblica” (Tagliani 2020: 7). Sul rapporto fra confessione e parrēsia cfr. pp. 250-301. Sulla dimensione governamentale delle odierne pratiche di verità cfr. fra gli altri Codeluppi 2007, 2015.
Nel suo Estetiche della verità, Giacomo Tagliani (2018) propone un’archeologia della contemporanea ideologia dell’autenticità che trova nel potere pastorale la propria matrice bio-politica e nella confessione la figura per eccellenza. Ripercorrendo la ricognizione foucaultiana di cui abbiamo esposto alcuni perni, l’autore rintraccia nella parrēsia la matrice del valore e obbligo di essere se stessi che informa l’orizzonte politico e mediatico contemporaneo18.
Emblema dell’ingiunzione a comunicare gli aspetti più intimi e reconditi di sé, il confessionale dischiude un dispositivo di assoggettamento dell’individuo che in The Artist… ritroviamo diametralmente rovesciato. Lo spazio circoscritto che separa la coppia dal resto del pubblico, la posizione speculare dei due partner, l’intimo conferimento che li impegna, la fila di persone in attesa di audizione e l’ingresso/uscita di ognuna dalla postazione di interlocuzione convocano a più livelli la più celebre delle “coppie famose” della governamentalità cristiana. In questo caso, tuttavia, lo spazio doppiamente chiuso e circoscritto del confessionale, che vede due celle comunicare tramite una grata che occulta le sembianze dei due interlocutori, viene invece completamente aperto: nessuna parete fisica separa i due corpi fra loro e dagli astanti, ognuno è pienamente visibile all’altro e a tutti, eppure nessuno, né la performer né il pubblico, conoscerà i contenuti delle immagini interiori eventualmente prodotte dall’interazione.
Il potere conoscitivo dello sguardo, libero di “fissarmi per tutto il tempo che [vuole]”, è inibito dalla lunga e ampia veste nera che dissimula le forme organiche e isola il viso e le mani immobili. La posizione seduta e silente che l’osservatore occuperà di fronte a un tavolo vuoto neutralizza il movimento e inibisce l’azione fisica, senza per questo offrire un vero e proprio oggetto di contemplazione. Le due sedie separate dal piccolo tavolo predispongono una scena conversazionale solo per negarla.
La performance art si pone ai poli opposti della pratica confessionale come della contemporanea ideologia dell’autenticità in quanto il sapere su di sé offerto all’altro è indissociabile dal potere su di sé esibito nello stesso movimento: l’essere vero dell’artista non è una proprietà di cui egli gode a priori e per legge, ma l’esito di un esercizio su di sé coestensivo all’interazione, di resistenza agli impulsi riflessi e all’effetto destabilizzante delle passioni.
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Sui rapporti fra le pratiche del sé incubate in età classica e il principio socratico dello gnōthi seauton, e più in generale la tradizione stoica, cfr. in particolare Foucault 2009, pp. 13-20. Un’interessante lettura di The Artist… in termini di esercizio stoico è offerta da Aurelio Andrighetto (2017).
Da questo punto di vista, The Artist… restituisce una sorta di distillato della struttura dialogica e agonistica della parrēsia. La degradazione dell’agonismo etico al controllo dei micro-impulsi – crampi, fame, bisogni fisiologici, stanchezza, imbarazzo – e dal vuoto di figure e immagini conosciuto dal partecipante come dagli astanti esaspera l’intensità della tensione fra concentrazione e distrazione dell’attenzione, gesto volontario e moto irriflesso, stasi del corpo e progressione del tempo. Il riflesso di uno sguardo che resiste al proprio, di un viso che non muta in reazione alla propria presenza, di un corpo che non solo non consente l’accesso al proprio interno ma assorbe la luce e neutralizza ogni visione, impone un’esperienza riflessiva dell’interazione. Comunicazione mancata e identificazione non riuscita, la stessa conversazione è tanto più efficace quanto vuota, privata della materia stessa di cui si costituisce e ridotta alla dialettica di forze cui ognuno dei due resiste. La pratica di verità si produce tramite un dialogo insieme imposto e negato, avviato dalla posizione speculare dei corpi e inibito da un corpo divenuto esso stesso schermo. L’artista è ormai l’altro, colui per il cui tramite l’individuo è forzato a conoscere stesso19.
5. Il Re è nudo, il cane è il Re: pratiche della verità e ideologia della rappresentazione
Louis Marin è intervenuto a più riprese sul potere delle immagini di soggetto e sulla dialettica di forze che ne governano gli effetti di verità ed efficacia. Il filosofo e semiologo francese descrive la rappresentazione del potere come ciò che converte la forza in segno, mutando la capacità di offesa del soggetto in una forza “cui basta essere vista per essere creduta” (Marin 2005: 305 tr. it.), talmente creduta da divenire un dovere. La rappresentazione del potere istruisce, secondo Marin, un’immagine di soggetto con valore di legge, cui tutti sentono l’obbligo di credere:
In un bel passaggio dei Pensieri Pascal scrive: “essere vestito con eleganza significa mostrare la propria forza”. L’abito è una forza non perché colui che porta un bell’abito si dimostra forte aggredendo coloro che incontra, ma semplicemente perché, come dice Pascal, l’abito significa che un gran numero di persone lavorano per lui. Bisogna avere un profumiere per i capelli, una merlettaia per il jabot, un calzolaio per gli stivali, eccetera. Essere ben vestito, dice Pascal, significa “avere molte braccia”. Questi segni – il bell’abito, i merletti, i nastri, gli stivali – sono forze. Si tratta di segni che rappresentano forze e sono in sé forze. Pascal aggiunge: quando incontro un duca vestito di broccato, io lo saluto, “Eh che! Mi farà staffilare se non lo saluto. [...] Un uomo seguito da sette o otto lacchè [...] è una forza”. Ne deduciamo che un “duca” è semplicemente un sistema di segni che rappresenta delle forze, una forza messa in segno. (Marin 2005: 208 tr. it.)
L’ira del duca immaginata da Pascal è di natura molto simile alla collera di Dionisio di cui è oggetto Platone, che in ragione di tale effetto può considerarsi, nell’analisi di Foucault, soggetto di verità. L’opinione polemica esibita dall’eventuale mancato saluto, come quella espressa dal filosofo circa le capacità di governo del tiranno, feriscono perché infieriscono sull’immagine di sé in cui costoro si riconoscono e sul potere di legge che tale immagine esercita sugli altri.
- Note de bas de page 20 :
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Nei loro Appunti per una semiotica delle passioni, Fabbri-Sbisà (1985) evidenziano il carattere quotidiano e operativo dei simulacri esistenziali, espandendo e completando l’analisi di Goffman: “Fa parte del carattere strategico di ogni interazione sociale che ciascun partecipante, oltre che far capo a una definizione della situazione, a un frame, si costruisca anche un simulacro del suo partner, alle cui qualificazioni modali e passionali commisurerà i suoi scopi, le sue tattiche, il suo agire; le sue aspettative, e infine le sue stesse passioni. Inoltre, se un’interazione ha da essere caratterizzata come messa in opera di strategie, dovrà contenere anche l’elemento dell’autocontrollo, del monitoring, continuo apprezzamento di un soggetto riflessivamente rivolto a se stesso, comprendente quindi il riferimento a un simulacro riflessivo della propria competenza modale e passionale. Infine, questo gioco di simulacri non è neppure qualcosa di puramente arbitrario, cui una più corposa realtà interpersonale possa essere contrapposta: la risposta dell’altro, o il sorgere di una propria reazione fuori dal raggio previsto dall’autocontrollo, potranno sempre smentire, vanificare i simulacri costruiti, ma solo obbligando il soggetto a modificarli, adattarli, trasformarli, costruirne di nuovi, aggiustando così le relative strategie e con esse lo stesso rapporto intersoggettivo”. (Fabbri-Sbisà 1985: 247 II ed., corsivi nostri).
Gli effetti di soggetto restituiti dal comportamento umano in presenza di altri condividono il medesimo rapporto fra forza, credenza e legge che conduce Marin a riconoscere nel duca “un sistema di segni che rappresenta delle forze”, “una forza messa in segno”. La reverenza che Pascal immagina di adottare intensifica la cautela che ognuno adotta verso la faccia dell’altro in proporzione all’intensità della reazione che immagina di suscitare. Come mostra Goffman (1959) nell’omonimo volume, la vita quotidiana è rappresentazione. Il corpo sociale è sempre insieme corpo d’attore e sguardo di spettatore: la formulazione di opinioni sull’essere degli altri, sui loro atteggiamenti, le loro intenzioni, i loro caratteri, come la regolazione della propria condotta al fine di produrre in loro specifiche credenze, è il nucleo stesso dell’interazione “faccia a faccia” fra individui socializzati20.
- Note de bas de page 21 :
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Utilizziamo il termine nel senso assegnatogli da Goffman di maschera sociale.
La performance art interviene sui regimi di visibilità e conoscibilità dei corpi sociali, producendo i suoi effetti nell’arresto di ciò che il sociologo inglese definisce “consenso operativo”, la credenza assegnata per ragioni di convenienza e ordine sociale. Laddove fingere di credere a quanto l’altro crede o vuol far credere di sé ne protegge la faccia21, l’eccesso di trasparenza del corpo che si mostra fino al sangue e oltre la coscienza “sbatte la verità in faccia” a colui con il quale dialoga, “una verità così violenta e scabrosa” (Foucault 2009: 547) da inibirne la capacità di simulazione e imporgli di fare egli stesso esperienza di ‘scissione interiore’.
Da questo punto di vista la teoria del soggetto dischiusa da Rhythm e sigillata da The Artist… condivide con l’iconoclastia “la ricerca delle origini di una distinzione assoluta - non relativa - tra il vero e il falso, tra un mondo puro, completamente privo di intermediari creati dall’uomo, e un mondo disgustoso, composto da mediatori prodotti dall’uomo, impuri ma affascinanti” (Latour 2002: 169 tr. it.).
Se l’icona fonda la sua legalità sulla distanza incommensurabile fra presenza e rappresentazione della vita, il comportamento-arte sfrutta le leggi della rappresentazione per produrre effetti di presenza. Come abbiamo tentato di mostrare durante l’analisi, R0 porta a termine l’esplicitazione delle tecniche di manipolazione dell’osservatore messe a punto dal ciclo degli anni Settanta: il perdurare del presente generato dalla tensione fra sguardo estetico e sguardo referenziale è funzionale a sospendere i condizionamenti irriflessi e le regole esplicite che governano il sociale, imponendo al partecipante una rinnovata conoscenza di sé. La presenza dell’artista, dichiarata nel titolo della performance del 2010, non è un dato ma l’apice di un sistema di forze tanto più efficaci in quanto anch’esse, ormai, invisibili.
Allo stesso tempo, il corpo performativo condivide con il duca l’esibizione di potere e la capacità di far credere al proprio potere: il primo stabilisce la verità con la forza, grazie al potere di offesa che l’altro gli riconosce; il secondo mostra di avere la forza interiore di preferire la sofferenza e in casi estremi la morte pur di non deviare dalla verità. Le forze della rappresentazione cambiano di verso ma non di natura. La performance art è art of behaviour in quanto il comportamento è soggetto alle leggi della rappresentazione, che da dentro e per il tramite dei suoi artifici innescherà il processo distruttivo responsabile di inibire ogni distanza possibile fra oggetto e soggetto della conoscenza. La distruzione coinvolgerà infine la rappresentazione stessa, che lacerandosi consumerà i suoi effetti.