L’incertezza estesa del lavoro scientifico.
La corrispondenza tra pratiche e oggetti nella storia e nelle routine della citogenetica

Mauro Turrini 

https://doi.org/10.25965/visible.125

Sommaire
Texte intégral

1. La scoperta scientifica come armonizzazione dell’incerta corrispon-denza tra pratiche e oggetti

Note de bas de page 1 :

Per quanto riguarda il tema specifico dell’incertezza, di particolare interesse è Susan Leigh Star, Regions of the Mind: Brain Research and the Quest for Scientific Certainty (1989), Stanford, Stanford University Press.

Note de bas de page 2 :

Si vedano Bruno Latour & Steve Woolgar, Laboratory Life: The Social Construction of Scientific Facts (1979), Beverly Hills (Ca) – London, Sage, seconda edizione ampliata, Princeton, Princeton University Press, 1986; Karin Knorr-Cetina, The Manufacture of Knowledge: An Essay on the Constructivist and Contextual Nature of Science (1981), Oxford-New York, Pergamon; Michael Lynch, Art and Artifact in Laboratory Science (1985), London – Boston –Melbourne – Henley, Routledge and Kegan Paul.

È possibile collocare il de-camouflage e il camouflage nel solco della riflessione che gli science and technology studies dedicano all’incertezza implicita nei processi di genesi, stabilizzazione e disseminazione degli artefatti scientifici1. Come istanza di opacità e contingenza, il mimetismo è congeniale all’atteggiamento demistificatorio dell’area di ricerca dell’etnografia della scienza, più nota come laboratory studies, improntata a rovesciare l’immagine trasparente, oggettiva e universale della scienza-che-si-legge-in-letteratura attraverso la descrizione e l’analisi delle complessità che caratterizzano la scienza-che-esiste-nella-pratica2.

Note de bas de page 3 :

Dopo il periodo fondativo e l’analisi della conversazione, nella seconda metà degli settanta il programma etnometodologico si è rinnovato radicalmente dando vita a un nuovo programma noto come «studi etnometodologici del lavoro». Tra le pubblicazioni più significative, si ricordano Harold Garfinkel, Michael Lynch & Eric Livingston, «The Work of a Discovering Science Construed with Materials from the Optically Discovered Pulsar», Philosophy of the Social Sciences, 11 (2), 1981, pp. 131-158; Harold Garfinkel (a cura di), Ethnomethodological Studies of Work (1986), London – New York, Routledge and Kegan Paul; Michael Lynch, Art and Artifact…, op. cit. nota 1, Eric Livingston, The Ethnomethodological Foundations of Mathematics, London – New York, Routledge and Kegan Paul.

In particolare, il de/camouflage è qui indagato a partire dalla minuziosa analisi etnometodologica dell’interazione tra pratiche e forme documentarie visuali nei processi di costruzione degli oggetti scientifici. Nelle pagine introduttive di un saggio che, oltre a ispirare i laboratory studies, inaugura gli «studi etnometodologici del lavoro»3, i dialoghi tra il team di astronomi durante la faticosa notte di lavoro in cui si compie la scoperta del Pulsar sono metaforicamente descritti come l’intercettazione di un animale mimetizzato nel suo ambiente naturale.

Note de bas de page 4 :

Harold Garfinkel et al., «The Work… », op. cit. nota 3, p. 132.

La loro scienza e la loro scoperta consistono astronomicamente nello «scovare (extracting) un animale dal fogliame». Il «fogliame» è la storicità locale delle loro pratiche incorporate. L’«animale» è quella storicità locale svolta, riconosciuta e compresa come una procedura metodica competente4.

Note de bas de page 5 :

Idem, p. 135.

Analizzati nella loro dimensione performativa, i processi di scoperta e conoscenza sono una sorta di caccia al fatto scientifico orientata a inseguire, rintracciare e snidare un «animale» immerso e celato all’interno di un ambiente di cui è parte integrante. Nella prospettiva etnometodologica, che circoscrive il campo di analisi al luogo fisico in cui vengono eseguite le attività prese in considerazione, l’effetto mimetico ambientale, che metaforicamente è attribuito al fogliame, non è inerente al fenomeno naturale in sé, bensì al lavoro tecnico di estrazione dei dati. Ritornando al caso studio richiamato, gli astronomi hanno la certezza di osservare un pulsar solo nel momento in cui sono riusciti a produrre dati grafici rilevanti attraverso il riconoscimento e la ripetizione di una serie ordinata di azioni che permettono di ottenere tale risultato in modo stabile. La scoperta scientifica è descritta come un intreccio tra pratiche e azioni che si realizza solo nel momento in cui «unavoidable “situated” practices become progressively witnessable-and-discours-able as the “exhibitable-astronomical-analyzability-of-the-pulsar-again”»5.

Note de bas de page 6 :

Michael Lynch, Art and Artifact…, op. cit. nota 1, pp. 83-84.

Note de bas de page 7 :

Harold Garfinkel, Studies in Ethnomethodology (1967), Englewood Cliffs, Prentice Hall.

Note de bas de page 8 :

Michael Lynch, Art and Artifact…, op. cit. nota 1, p. 56 e ss.

Note de bas de page 9 :

Michael Lynch, «Technical Work and Critical Inquiry: Investigations in a Scientific Laboratory», Social Studies of Science, 12 (4), 1982, p. 511.

Note de bas de page 10 :

Wolff-Michael Roth, «Radical Uncertainty in Scientific Discovery Work», Science, Technology & Human Values, 34 (3), 2009, pp. 313-336.

Dalla citazione è possibile evincere una chiave interpretativa del decamouflage, secondo cui esso è inscritto nell’interazione reciproca e costituiva di pratiche e oggetti scientifici. La posta in gioco è l’oggettività stessa dei dati prodotti la quale, pur essendo considerata abitualmente un presupposto implicito del lavoro scientifico, richiede nondimeno un’incessante valutazione e validazione alla luce delle conseguenze che produce. Le procedure e le strumentazioni di laboratorio, benché spesso siano considerate una mediazione invisibile che non mette in discussione la distinzione tra ciò che è naturale e ciò che è costruito, generano talvolta distorsioni, travisamenti, illusioni, fallimenti, ovvero «artefatti», la cui archeologia costituisce un momento di autentica «rivelazione del lavoro “inconsapevole” (unwitting) del lavoro di laboratorio»6. Da qui discende un’attenzione per l’«accountability»7 che rende unico il lavoro scientifico8. Le svariate forme di resoconti delle attività impiegate per ottenere un determinato risultato testimoniano come la continuità tra la realtà naturale osservata e i dati di laboratorio sia basata su una corrispondenza che non può mai dirsi definitiva tra pratiche incorporate e oggetti mondani disponibili, e che richiede un’incessante opera di armonizzazione. Tale prospettiva intercetta nelle pratiche un luogo ideale di analisi non in virtù delle sue componenti tacite e irriducibili a una traduzione testuale, ma in quanto rappresentano la dimensione performativa del sapere che intreccia azioni materiali, strumenti, oggetti tangibili (spesso in forma grafica) e conoscenze. Anziché limitarsi a riprodurre nozioni astratte, il lavoro tecnico compie un’«indagine critica endogena» che anima la ricerca scientifica, sollevando incessantemente le questioni circa i «legami contingenti tra le azioni umane e i loro risultati oggettivizzati (objectified9. Decamouflage viene qui utilizzato come l’effetto mimetico implicito nella tessitura di pratiche di un determinato ambiente di lavoro, la difficoltà e la necessità di associare risultati ad azioni. Wolff-Michael Roth utilizza il concetto d’«incertezza radicale»10 per descrivere complesso processo di convergenza tra pratiche e oggetti nell’ambito del lavoro scientifico. Incerta è la condizione oggettiva dei risultati dell’azione scientifica e, retroattivamente, dell’azione scientifica stessa, i cui risultati sono imprevedibili e instabili. Riprendendo un approccio ampiamente diffuso dall’antropologia della scienza, l’autore si concentra sul lavoro della scoperta scientifica, interpretandola come momento aurorale della convergenza tra risultati scientifici affidabili e una specifica metodica.

Note de bas de page 11 :

La scienza di «servizio»è un mabito di studio che è affrontato a partire dalla fine degli anni ottanta. Si vedano, ad esempio, tra gli studi seminali più interessanti Alberto Cambrosio & Peter Keating, «“Going Monoclonal”: Art, Science, and Magic in the Day-to-Day Use of Hybridoma Technology», Social Problems, 35 (3), 1988, pp. 244-260; Kathleen Jordan & Michael Lynch, «The Sociology of a Genetic Engineering Technique: Ritual and Rationality in the Performance of the Plasmid Prep», in Adele Clarke e Joan Fujimura, The Right Tool for the Job: At Work in Twentieth-Century Life Science (1992), Princeton (NJ), Princeton University Press.

Il presente articolo intende ampliare il concetto d’incertezza alle routine scientifiche. Per questo motivo si utilizza «incertezza estesa», un concetto abitualmente utilizzato in ambito tecnologico per riferirsi al calcolo della discrepanza tra dati e realtà in ogni singolo gesto di misurazione. Lo scopo è tracciare linee di continuità tra il lavoro di scoperta scientifica e quello della scienza applicata in ambiti di servizio11. Prendendo in considerazione un ambito disciplinare delimitato, la citogenetica, sono qui analizzati sia alcuni casi storici alla base della citogenetica moderna sia alcuni aspetti delle procedure attualmente in uso nei laboratori clinici di citogenetica. Il metodo utilizzato combina la ricostruzione storica, svolta attraverso l’analisi di articoli scientifici dell’epoca, testimonianze pubblicate dei protagonisti e fonti secondarie, e un’osservazione etnografica condotta per diversi mesi effettuata in tre diversi laboratori di pubblici e privati dell’Italia settentrionale tra il 2007 e il 2008. Disciplina nata e sviluppata tra la citologia e la genetica, la citogenetica è marcata da un aspetto marcatamente artigianale determinato da metodiche lunghe, laboriose, instabili e rudimentali da un punto di vista tecnologico. Per questa ragione e grazie anche allo stretto rapporto con elementi visuali, a una lunga storia e a un’ampia diffusione (rimane a tutt’oggi la tecnica genetica più ampiamente utilizzata nell’ambito dei servizi sanitari), la citogenetica rappresenta un ambito straordinario di studio per analizzare il doppio movimento che percorre e anima le pratiche di rappresentazione e interpretazione del laboratorio di citogenetica prenatale. Questione pratica e, al contempo, momento di sviluppo conoscitivo, l’«incertezza estesa» passa dall’essere al centro tanto di alcuni momenti cruciali della storia della citogenetica, quanto delle metodiche in uso attualmente nei laboratori di citogenetica clinica. Dopo una breve introduzione ai principi della citogenetica, il presente articolo intende tracciare linee di continuità tra i processi di scoperta scientifica e le pratiche ordinarie attraverso la ricostruzione storica di due episodi che hanno rivoluzionato la storia della citogenetica e alcune peculiarità delle pratiche ordinarie di laboratorio tuttora in uso nei laboratori di citogenetica.

2. Leggere i cromosomi, renderli docili

Note de bas de page 12 :

Riprendo volutamente l’espressione «ideogramma» in quanto è utilizzata in citogenetica per indicare il modello ideale di ogni cromosoma nei testi ufficiali come, ad esempio, i manuali di testo o le nomenclature standard internazionali, di cui la più recente è Lisa Shaffer, Marilyn Slovak & Lynda Campbell (a cura di), ISCN 2009: An International System for Human Cytogenetic Nomenclature: Recommendations of the International Standing Commitee on Human Cytogenetic Nomenclature (2009), Basel, Karger.

La citogenetica è il complesso di tecniche e saperi coinvolti nello studio dei cromosomi. Trattandosi di elementi cellulari preposti alla conservazione del materiale genetico, i cromosomi sono, secondo il significato etimologico, «corpuscoli colorati» che acquisiscono la massima visibilità nella fase di sdoppiamento cellulare, quando il Dna si avvolge e si agglutina attorno a queste strutture proteiche, dando luogo a formazioni facilmente visibili al microscopio anche a bassi ingrandimenti. La loro peculiarità consiste nell’essere costanti numericamente e formalmente in ogni tessuto di ogni individuo appartenente a una determinata specie (con la sola differenza legata al genere sessuale) e, al contempo, strutture dinamiche la cui visibilità varia straordinariamente lungo il ciclo cellulare, passando dall’essere praticamente nulla in interfase fino a essere consistente in metafase. In sostanza, queste particelle sono strutture dinamiche dell’architettura cellulare facilmente individuabili al microscopio a ingrandimenti relativamente bassi e, al tempo stesso, forme di rappresentazione dell’intero genoma umano. Semplificando, possiamo paragonare il corredo cromosomico umano a un alfabeto di 24 «ideogrammi»12 corrispondenti ai 22 cromosomi accoppiati a cui si aggiungono i 2 cromosomi sessuali. L’analisi citogenetica legge e interpreta questi segni compositi, traducendone il riscontro fenotipico, ovvero, volendo utilizzare un linguaggio più vicino al senso comune, cercandone di capire le ripercussioni sulla condizione di salute.

Note de bas de page 13 :

Ancora una volta, si tratta di una «etno-categoria». A differenza di ideogramma, che ricorre nella letteratura citogenetica scritta e ufficiale, questo termine ricorre più frequentemente nella lingua orale. «Lettura al microscopio» o «lettura dei cromosomi» è molto utilizzato negli ambiti dei laboratori di citogenetica o durante i convegni scientifici per indicare il lavoro d’interpretazione dei cariotipi necessaria alla fase conclusiva del compito del laboratorio di citogenetica prenatale: la refertazione.

Al livello più elementare, «leggere»13 i cromosomi significa contarli. Limitata a questo livello, tale indagine è piuttosto approssimativa essendo in grado di rilevare solo le anomalie relative al numero, che, comunque, sono tra le più frequenti (si pensi, ad esempio, alla sindrome di Down). Non a caso, la scoperta scientifica di queste malattie genetiche tra la fine degli anni cinquanta e gli anni sessanta imprime un notevole sviluppo all’applicazione della citogenetica in ambito clinico. I progressi delle tecniche citologiche e, in particolare, l’utilizzo del bandeggio, permette non solo il riconoscimento individuale dei cromosomi, ma anche il rilevamento di anomalie all’interno di uno stesso cromosoma. La scomparsa di una frazione di cromosoma («delezione»), lo spostamento di porzioni da un cromosoma a un altro o all’interno di uno stesso cromosoma («traslocazione»), o lo sganciamento di frammenti anche molto minuti di materiale cromosomico («marker») sono solo alcuni casi tra le numerose anomalie visibili attraverso la lettura dei cromosomi che sono attualmente svolte in qualsiasi laboratorio clinico di citogenetica di buon livello.

Note de bas de page 14 :

A riprova di questo giudizio che, sebbene condiviso, rimane del tutto personale, vi sono le numerose pubblicazioni dedicate ai nuovi casi clinici studiati in citogenetica e, in particolare, alle rassegne degli studi di caso che puntualmente estendono il numero di cromosopatie localizzabili attraverso la diagnosi citogenetica. Per il caso dei marker, ad esempio, si veda il seguente studio pubblicato recentemente : B. Huang, S. Solomon, M. Thangavelu, K. Peters, e S. Bhatt, «Supernumerary Marker Chromosomes Detected in 100,000 Prenatal Diagnoses: Molecular Cytogenetic Studies and Clinical Significance», in Prenatal Diagnosis, 26 (12), 2006, pp. 1142-1145.

Tale capacità d’analisi, da un lato, incrementa la riconoscibilità dei propri oggetti di studio e, dall’altro, aumenta l’incertezza, soprattutto nell’ambito della riproduzione, dove l’anomalia genetica è considerata un errore del tutto aleatorio e, come tale, è sempre presente a livello potenziale in forme imprevedibili. Riprendendo una metafora efficace utilizzata dalla genetica, la trasmissione del patrimonio genetico è una roulette genetica regolata da semplici regole ed esposta all’azzardo della sorte. È questa una fonte di difficoltà per chi pratica la citogenetica, anche se, al contempo, specialmente nell’ambito della medicina prenatale, rappresenta un orizzonte di ricerca sempre aperto anche all’interno di laboratori situati all’interno di cliniche e votati unicamente a effettuare un servizio di diagnosi clinica14.

Note de bas de page 15 :

Michael Lynch, «Discipline and the Material Form of Images: An Analysis of Scientific Visibility», in Social Studies of Science, 15 (1), 1985, pp. 37-66, p. 43 e ss.

Note de bas de page 16 :

Michael Lynch, «Discipline…», op. cit. nota 15; Michael Lynch, «The Externalized Retina: Selection and Mathematization in the Visual Documentation of Objects in the Life Sciences», in Michael Lynch & Steve Woolgar, Representation in Scientific Practice (1990), Cambridge (Ma), The MIT Press.

A fronte di queste difficoltà, la citogenetica incontra un secondo ostacolo nelle tecniche di preparazione del materiale da analizzare al microscopio. Solo raramente il «vetrino» è «strepitoso», cioè chiaramente leggibile. Più frequentemente ha un aspetto ambiguo, sfumato (fuzzy), rotto (overspread), vuoto (privo di materiale), eterogeneo, «mangiato». La citogenetica, infatti, è caratterizzata da una spiccata instabilità di forma, dimensione e contrasto dei cromosomi preparati per l’analisi. In parte essa s’inscrive nell’oggetto stesso di analisi. I cromosomi, infatti, sono strutture cellulari dinamiche la cui visibilità varia lungo il ciclo di riproduzione cellulare, raggiungendo l’apice in un preciso momento della riproduzione cellulare chiamata tecnicamente metafase. In parte essa deriva dalle complesse, articolate, prolungate procedure di processazione, nonché dalla pressoché totale assenza di automazione, una peculiarità che distingue in modo marcato la citogenetica rispetto alle altre aree del laboratorio. In questo senso, è particolarmente utile concepire le metodiche di processazione e visualizzazione non tanto come una semplice astrazione della realtà, bensì come una trasformazione materiale finalizzata a ottenere un «docile object»15, vale a dire un oggetto integrato e, quindi, conoscibile all’interno dell’ordine materiale del laboratorio. I numerosi passaggi che preparano la produzione dei cromosomi non sono semplici rivelazioni di fenomeni naturali, ma concorrono piuttosto a costituirne la forma materiale conferendo loro un supporto sensibile, analizzabile e intelligibile. Definire tale processo una forma di «disciplinamento» dell’oggetto culturale implica che la conoscenza scientifica non consista in una mera estensione delle capacità percettive individuali, ma in una «retina esternalizzata»16 che utilizza strumenti, procedure e rappresentazioni grafiche per operare una ricostruzione attiva della realtà.

Si nota quindi una duplice dimensione, legata agli oggetti e alle pratiche e più precisamente alla valutazione della loro adeguatezza, che si ritrova al centro sia di scoperte rivoluzionarie sia delle stesse metodiche di citogenetica.

3. Una difficile corrispondenza: pratiche e oggetti nella storia della cito-genetica

Note de bas de page 17 :

Stanley Gartler, «The Chromosome Number in Humans: A Brief History», Nature – Genetics, 7, 2005, pp. 665-660.

Note de bas de page 18 :

Tale progetto di natura esclusivamente scientifica vede la propria realizzazione con la pubblicazione prima in giapponese e poi in inglese dell’imponente Atlas of the Chromosome Numbers in Animals di Mankino.

Note de bas de page 19 :

Michael Lynch, «Discipline…», op. cit. nota 15, pp. 43-44.

Strutture visibili a ingrandimenti relativamente bassi del microscopio, i cromosomi sono segnalati già nella seconda metà dell’Ottocento tra i citologi. Il passaggio dallo studio della cellula, citologia, allo studio genetico dei cromosomi, citogenetica, è stato sempre molto sfumato. Tuttavia, si è soliti far coincidere il momento fondativo della citogenetica con quello della genetica stessa. La riscoperta delle teorie mendeliane si rivolge da subito ai cromosomi considerandoli non più rispetto al loro comportamento nelle diverse fasi dei cicli cellulari, bensì alla loro costanza numerica17. Intese come strutture cellulari stabili e regolari, i cromosomi si prestano a costituire elementi fisici discreti e ben identificabili che rispondono alle leggi mendeliane dell’ereditarietà. Nell’ambito di questi presupposti prende forma l’ambizioso progetto scientifico di spiegazione della diversità delle specie animali attraverso l’espressione numerica ricorrente e specifica dei cromosomi18, un progetto che, sebbene sia spontaneo e mai formalizzato, coinvolge numerosi esponenti delle scienze della vita, producendo un cambiamento paradigmatico nel modo di analizzare e osservare i cromosomi. Per utilizzare i concetti di Lynch, i cromosomi sono il risultato finale di un processo di trasformazione operato sul campione biologico al fine di visualizzarne alcuni suoi elementi e di orientare il loro comportamento secondo un progetto di normalizzazione inscritto nel laboratorio19.

In tale processo scientifico s’inserisce uno degli aspetti più controversi che caratterizza la citogenetica: la difficoltà di definire con esattezza il numero dei cromosomi della specie umana. Per oltre cinquant’anni non si arriva a una risposta definitiva, e l’ipotesi dei 48 cromosomi, che va affermandosi negli anni quaranta, viene clamorosamente smentita nel 1956, quando si scopre che, in realtà, per la specie umana il numero normale di cromosomi è 46. Nei primi decenni del Novecento, le cifre variano da laboratorio a laboratorio e da tessuto a tessuto spaziando dagli 8 ai 50 cromosomi. Tale instabilità produce innovazioni tecniche nelle metodiche di preparazione e, al contempo, una intensa rielaborazione teorica. Hans de Winivarter riesce ad acquisire autorevolezza grazie ai suoi celebri preparati ottenuti con una tecnica particolare che, tra le altre cose, prevede la manipolazione di tessuti «freschi», ovvero di campioni biologici appena prelevati dall’organismo. I suoi conteggi di 47 e 48 cromosomi attributi rispettivamente agli individui maschili e femminili della specie umana divengono un vero e proprio termine di confronto dei primi decenni del Novecento. Ad esempio, Michael Guyer, uno zoologo statunitense, riscontrando solamente 22 cromosomi, si sente in dovere di giustificare i suoi risultati alla luce di quelli autorevoli di de Winivarter. Considerando che anche un collega statunitense, Montgomery, ottiene i suoi medesimi risultati, tenta di appianare tale discrepanza rielaborando una teoria della diversità razziale del numero dei cromosomi.

Note de bas de page 20 :

Michael Guyer, «A Note on the Accessory Chromosome of Man», Science, 39 (1011), 1914, pp. 721-722, cit. p. 722.

Va considerato, comunque, che Montgomery e io abbiamo lavorato su tessuti di negri [sic], mentre von Winivarter su quelli di un uomo bianco. Attualmente sono impegnato nell’analisi di materiale ricavato da due diversi uomini bianchi e, sebbene non sia ancora giunto a risultati definitivi, posso già affermare con sicurezza che il numero di cromosomi è considerevolmente più elevato rispetto a quello riscontrato nel mio materiale negro [my negro material]20.

L’ipotesi non è isolata, ma trova diversi riscontri da altri biologi come Gutherz e Morgan, il quale esprime il suo apprezzamento su Science annunciando, peraltro, una pubblicazione che contiene la medesima tesi. Sebbene si concluda nell’arco di pochi anni con uno screditamento quasi unanime da parte della comunità scientifica, l’episodio testimonia una profonda contiguità tra genetica e teorie della razza, rappresentando indubbiamente uno dei momenti più bassi della storia della citogenetica. Tuttavia, dal nostro punto di vista analitico l’episodio mette in luce un interessante aspetto relativo all’incertezza estesa, vale a dire il lavoro scientifico di armonizzazione tra pratiche e oggetti scientifici. L’unico modo per non discreditare i metodi utilizzati dai biologi americani è far risalire la discrepanza a una diversità inerente agli stessi tessuti biologici.

Note de bas de page 21 :

Tra i più autorevoli sostenitori di quest ipotesi ricordiamo Chu and Hamerton, come indicato in Malcolm Jay Kottler, «From 48 to 46: Cytological Technique Preconception, and the Counting of Human Chromosome», Bullettin of History of Medicine, 48 (4), pp. 465-502, cit. p. 487.

Note de bas de page 22 :

Il riferimento in questo caso riguarda al contempo la letteratura sociologica dell’artefatto citata nel primo paragrafo e il lingauggio vernacolare di laboratorio.

Al di là delle derive razziste, tale modalità è intrinseca alla logica pratica del lavoro scientifico e, non a caso, riemerge in occasione della scoperta che l’effettivo numero dei cromosomi è 46 anziché 48. Di fronte alla clamorosa smentita di una nozione scientifica considerata valida per almeno due decenni, alcuni illustri biologi tentano di difendere la propria disciplina ventilando la possibilità che l’errore di conteggio sia dovuto ad anomalie cromosomiche effettivamente presenti negli individui (peraltro numerosissimi) da cui si sono prelevati i campioni21. Un ragionamento analogo viene svolto durante le routine quotidiane, quando l’individuazione di un’anomalia solleva innanzitutto una questione di attribuzione: si tratta di una caratteristica effettiva del campione biologico e, quindi, è qualcosa da prendere seriamente in considerazione, oppure è semplicemente un «artefatto»22 derivato da una preparazione non adeguata del campione?

Insomma, l’armonizzazione non è altro che una soluzione al problema dell’incertezza. Si tratta di un modo per asserire l’oggettività dei risultati prodotti e, con essi, la validità delle procedure utilizzate per ottenerli. Si ritrova la medesima questione sia in momenti più importanti della storia della citogenetica sia nelle routine lavorative. Da questa prospettiva è possibile fornire una nuova chiave interpretativa di quello che è spesso liquidato come un macroscopico «errore» della citogenetica, ovvero la teoria secondo cui i cromosomi umani sono 48 alla quale si associa un secondo protagonista del primo periodo della citogenetica, Teophilus Painter. È questa la prima cifra a divenire verso la fine degli anni trenta, dopo aver scalzato l’ipotesi di de Winivarter (e non solo) la costante naturale associata alla specie umana. Nonostante i numerosi progressi che dagli anni quaranta si verificano nel campo della biologia molecolare, solo nel 1956 si arriva all’effettivo numero dei cromosomi umani grazie a un evento del tutto fortuito e casuale. Com’è possibile che un errore scientifico possa protrarsi per così tanti anni? E com’è possibile, poi, che a un tratto, a parte qualche debole resistenza dileguatasi nell’arco di pochi anni, l’intera comunità scientifica dei citogenetisti osservi e conti un numero diverso di cromosomi? I due più importanti resoconti di questo passaggio storico forniscono interpretazioni intersanti eppure discordanti di questo passaggio storico, essendo l’uno focalizzato esclusivamente sui progressi delle tecniche, mentre solo su quelli delle pratiche relative a contare. Lo scopo del presente contributo intende mediare tali opposizioni simmetriche, articolando così il concetto d’incertezza estesa attraverso un’indagine del rapporto tra tecniche e pratica.

Il primo è opera di Malcolm Jay Kottler, uno storico delle scienze naturali la cui ricostruzione si basa su una vasta letteratura scientifica dell’epoca integrata con le testimonianze personali di molti dei protagonisti. La ricchezza di fonti storiche e l’attenzione dedicata ai dettagli costituiscono la cifra stilistica e contenutistica di una narrazione storica che rimane ancora oggi insuperata per i suoi particolari. Sposando una prospettiva schiacciata sulla mediazione tecnica e sull’empirismo, la tesi di Kottler è che i progressi delle tecniche citologiche di preparazione del campione biologico sono gli unici fattori in grado di determinare il risultato indubitabile di 46 cromosomi. In mancanza di un’adeguata preparazione tecnica, invece, il dato empirico, essendo fragile, viene travolto e fagocitato dalle supposizioni teoriche che, a lungo andare, si trasformano in pregiudizio analitico.

Note de bas de page 23 :

Malcolm Jay Kottler, «From 48 to 46…», op. cit. nota 21, p. 502.

I citologi degli anni venti e trenta del Novecento non dovrebbero essere biasimati per i loro conteggi sbagliati di 47 o 48 cromosomi [in quanto essi sono stati causati dall’inadeguatezza delle tecniche a disposizione]. Semmai, dovrebbero esserlo per non essere stati in grado di riconoscere l’incertezza annessa a questi risultati determinata dall’imperfezione tecnica. Convinti della pertinenza della loro tecnica e della certezza dei loro conteggi, caddero vittima dei loro preconcetti, trovando lo stesso numero di cromosomi che si aspettavano di trovare. Solo grazie ai progressi delle tecniche citologiche tali pregiudizi svanirono23.

Le tecniche – di cui viene fornito un elenco completo: 1) il trattamento in soluzione ipotonica, 2) l’allestimento di colture cellulari, 3) l’utilizzo di colchicina, e 4) lo squash – sono considerate la causa determinante che, eliminando ogni possibile fonte d’incertezza, determina una situazione in cui risulta chiaro a chiunque distinguere 46 distinte unità. In questo quadro, l’unico merito di Tjio sarebbe quello di essere il primo ad avere applicato nella stessa metodica tutti i quattro accorgimenti che sono effettivamente alla base delle metodiche che ancora oggi si utilizzano in citogenetica. Il saggio, in sostanza, sostiene la priorità del dato empirico e, coerentemente, si propone come esempio di una storiografia basata unicamente sui dati relativi alle procedure tecniche.

Note de bas de page 24 :

Formulato la prima volta in David Bloor, La dimensione sociale della conoscenza (1976), trad. it. Milano, Cortina, 1994.

Note de bas de page 25 :

Aryn Martin, «Can’t Anybody Count? Counting a san Epistemic THeme in the History of Human Chromosomes», Social Studies of Science, 34 (6), 2004, pp. 923-948, cit. p. 938

All’opposto, Aryn Martin, pur riconoscendo l’accuratezza di questo saggio, ne respinge l’impianto di fondo, che considera riduzionista, e opponendo a esso una ricostruzione incentrata sulla pratica del contare. La dimensione della pratica sembra proporre una dimensione analitica in grado di coniugare il clima culturale del periodo, lo «spirito del tempo», con la dimensione più propriamente tecnica. Rifacendosi al cosiddetto «principio di simmetria»24 al centro del programma della sociologia della conoscenza scientifica (SSK, sociology of scientific knowledge), la sociologa e biologa statunitense legge le opzioni anteriori al 1956 senza considerarle degli semplici errori, ma piuttosto alla luce del contesto storico in cui sono formulate. In questo modo mostra come il nocciolo del dibattito tra de Winivarter, secondo cui i cromosomi umani variano in base al sesso e sono 47/48, e Painter, a favore dell’ipotesi unitaria di 48, riguarda non tanto il numero esatto dei cromosomi in sé, ma piuttosto la presenza o meno del cromosoma Y. La posta in gioco di quella controversia, infatti, è l’espressione cromosomica della sessualità, che de Winivarter interpreta secondo il sistema XO/XX, mentre Painter secondo quello XY/XX. È la geneticizzazione della medicina che subentra a partire dal secondo dopoguerra a mutare radicalmente la pratica del contare il cui « peso epistemico […] non riguarda solo la costanza biologica nel sesso, nell’etnicità e nelle specie (come all’epoca di Painter), ma piuttosto la produzione di diagnosi di patologie in laboratorio»25.

Note de bas de page 26 :

In continuità con questo saggio si veda il seguente saggio sul «contare»: Aryn Martin & Michael Lynch, «Counting Things and People: The Practices and Politics of Counting», Social Problems, 56 (2), pp. 243–266.

Nonostante l’argomentazione sia quanto mai interessante e abbia il merito d’inoltrarsi nei territori inesplorati della sociologia delle pratiche scientifiche26, una logica che poggia sul legame diretto tra l’investimento storico che la medicina compie nella genetica e gli avanzamenti delle tecniche citologiche non aiuta a spiegare i singoli avvenimenti storici. Al contrario, una prospettiva tutta incentrata sulle tecniche non permette di comprendere le ambivalenze, le ambiguità e i passi falsi dei progressi tecnici.

Note de bas de page 27 :

Tao China Hsu, «Mammalian chromosomes in vitro. I. The karyotype in man», Journal of Heredity, 43, 1952, pp. 167–172.

Note de bas de page 28 :

Tao China Hsu, «Mammalian Chromosomes In Vitro. I. The Karyotype in Man», Journal of Heredity, 43, 1952, pp. 167–172.

Si prenda ad esempio una delle scoperte che precedono e rendono possibile la determinazione effettiva del numero dei cromosomi umani. Si tratta dell’immersione in acqua ipotonica delle cellule coltivate in vitro, una tecnica introdotta del tutto casualmente che permette a Tao-Chiuh Hsu di ottenere agli inizi degli anni cinquanta fotografie di metafasi di una qualità mai raggiunta sino allora 27. Lo stesso autore definisce questo progresso un «miracolo» per i suoi effetti dirompenti, eppure lo shock ipotonico è una scoperta del tutto fortuita derivata dall’errore di un operatore che inavvertitamente confonde la soluzione isotonica con quella ipotonica28. È allora interessante ripercorrere questo avvenimento grazie alle note che lo stesso protagonista, Hsu, dedica a questo importante evento scientifico. Dopo un primo momento di stupore e incredulità, il biologo cerca di ottenere di nuovo gli stessi risultati, e, dopo diversi tentativi, non ottiene alcun risultato.

Note de bas de page 29 :

Tao China Hsu, Human and Mammalian Cytogenetics: An Historical Perspective (1979), New York, Springer, pp. 17-18.

Iniziai a pensare che c’era qualcosa di «sbagliato» con quella particolare procedura che rendeva così belle le cellule mitotiche. Per tre mesi circa tentati di modificare ogni fattore che a mio avviso poteva influire: il terreno di coltura, le componenti, le condizioni di coltura, la temperatura d’incubazione, l’aggiunta di colchicina, la procedura di fissaggio, il metodo di bandeggio etc., una variabile alla volta. Niente però avvenne fino all’aprile del 1952, quando cambiai la tonicità della soluzione salina che ognuno in laboratorio utilizzava per risciacquare la coltura prima del fissaggio. Il miracolo riapparve quando combinai la soluzione salina con acqua distillata per ridurre la tonicità. Fu una sensazione meravigliosa risolvere un mistero e realizzai di avere uno strumento potente tra le mani29.

L’episodio è estremamente interessante dal punto di vista dell’incertezza: un buon risultato finale è studiato sulla scorta delle pratiche utilizzate, che, in questo caso, costituiscono un autentico mistero in quanto sono il prodotto di un «errore» del tecnico di laboratorio. Il fatto che tra i tentativi compaia anche una tecnica che successivamente viene ampliamente utilizzata, l’aggiunta di colchicina, dimostra come il progresso tecnico descritto da Kottler non proceda sempre in modo lineare.

Note de bas de page 30 :

Peter S. Harper, «The discovery of the human chromosome number in Lund, 1955–1956», Human Genetics, 119, 2006, pp. 226–232.

È Levan il sostenitore dell’introduzione della colchicina nelle tecniche citologiche di preparazione dei cromosomi30, ma la sua teoria si afferma solo dopo dieci anni di tentativi coronati grazie anche alla sinergia con altre tecniche con la celebre «rettifica» del 1956. Anch’essa risulta difficilmente comprensibile come un semplice prodotto di un clima culturale indirizzato a un raffinamento del conteggio dei cromosomi, in quanto si tratta di una scoperta del tutto fortuita avvenuta all’interno di un progetto secondario e da parte di un citogenetista, Tjio, specializzato in botanica. Questo background lo porta a sperimentare nel campo della citogenetica umana una tecnica molto diffusa per la citologia delle piante, lo squash, con ottimi risultati. Tale coincidenza sembra verificare l’ipotesi del primato della tecnica di Kottler. Tuttavia, vale la pena d’introdurre un’articolazione della teoria dell’incertezza estesa: il ruolo cruciale che la teoria gioca nello stabilizzare la concordanza tra pratiche e oggetti. Il caso dello squash fornisce al riguardo un caso studio interessante.

Nonostante tale tecnica sia piuttosto desueta e abbandonata dalla maggioranza dei laboratori, la sua funzione narrativa si ritrova tuttora nella narrazione scientifica ufficiale della preparazione dei cromosomi la quale si basa sui quattro principi del resoconto di Kottler. Le cellule messe a coltura riattivano artificialmente (in vitro) il ciclo cellulare, che, una volta raggiunto uno stadio specifico chiamato metafase, in cui i cromosomi acquisiscono la massima visibilità, viene interrotto tramite colchicina. Venendo poi immerse in acqua ipotonica, grazie a un processo osmotico le cellule si gonfiano d’acqua e i cromosomi si allungano, rendendo estremamente fragile la membrana cellulare che, rompendosi con lo squash, dispone i cromosomi su due dimensioni. Sebbene al posto dell’azione meccanica dello squash siano ora utilizzate altre tecniche basate su fissativi, tale spiegazione rimane valida in quanto, pur non essendo in grado di spiegare le numerose e significative variazioni che non solo esistono non solo tra i diversi laboratori, ma che sono effettuate giorno dopo giorno all’interno dello stesso laboratorio, suggella la corrispondenza tra pratiche e oggetti. Le revisioni di questa narrazione e delle stesse tecniche di preparazione dei cromosomi ci permettono di prendere le distanze dall’approccio positivistico di Kottler per riaffermare in modo centrale la relazione tra pratiche e oggetti come questione aperta della citogenetica.

Note de bas de page 31 :

Sono grato a Gian Luigi Terzoli, celebre citogenetista italiano, di avermi messo a conoscenza dell’importanza di questo articolo per le tecniche citologiche di preparazione dei cromosomi.

La teoria classica basata sul celebre articolo di Tjio e Levan è stata parzialmente smentita alla luce delle recenti indagini svolte sui cromosomi durante il processo citologico. In particolare, un recente articolo di Uwe Claussen mostra come in realtà l’immersione in acqua ipotonica non produca che una minima dilatazione della cellula, mentre l’allungamento dei cromosomi è indotto dalla presenza dell’acqua durante l’evaporazione del fissativo31.

Note de bas de page 32 :

Uwe Claussen et al., «Demystifying Chromosome Preparation and the Implications for the Concept of Chromosome Condensation during Mitosis», Cytogenetic and Genome Research, 98, 2002, pp. 136-146.

Questa gonfiatura, che è responsabile dell’allungamento dei cromosomi […] e dello spargimento dei cromosomi, è basata su un’interazione tra acido acetico, acqua e proteine cellulari32.

Note de bas de page 33 :

Va infine sottolineato che la tesi di Claussen apre nuovi interrogativi circa il grado di artificiosità prodotto dalle metodiche di preparazione dei cromosomi, la quale, però, riguarda direttamente un livello di analisi così approfondito che solo di rado viene realizzato nelle routine.

Note de bas de page 34 :

Portato avanti, ad esempio, dall’impresa italiana biotech Euroclone.

Come indica il titolo stesso, l’articolo compie un’autentica «demistificazione della preparazione dei cromosomi» che costringe anche a rivedere l’impianto classico sostenuto da Kottler. Anziché essere lo squash la causa determinante dell’intelligibilità delle metafasi di Tjio, è il lavaggio con il fissativo eseguito successivamente a scatenare l’allungamento e lo spargimento dei cromosomi33. Tale intuizione, sebbene sia dimostrata attraverso sofisticati microscopi, come viene affermato nell’incipit del saggio, è guidata innanzitutto dall’osservazione delle difficoltà di ottenere buone metafasi da analizzare e delle discrepanze che vi sono non solo tra laboratori ma anche all’interno dello stesso laboratorio e, in particolare, dal legame empiricamente dimostrato sin dalla metà degli anni novanta tra l’umidità e la qualità della preparazione delle metafasi34. L’importante saggio, quindi, in un certo senso ristabilisce da un punto di vista della narrazione scientifica un legame tra pratiche e oggetti affermatosi in un primo momento nelle pratiche di laboratorio e che permette in una certa misura di uniformare e automatizzare le tecniche di preparazione citogenetiche. Oltre alla progettazione di macchine e alla formulazione di protocolli standardizzati, la relazione con l’umidità si concretizza sin dagli anni ottanta nei più diversi escamotage per variare il livello di umidità dell’aria. Processare i vetrini con le finestre aperte, o sotto una lampada, o nei giorni di pioggia, o azionando un umidificatore, o arieggiandoli con un foglio di carta usato a mo’ di ventaglio sono solo alcuni dei numerosi trucchi utilizzati per agire su queste variabili nei diversi laboratori. Inoltre, l’umidità dell’aria è solo una delle molteplici variabili che s’innervano nelle metodiche utilizzate quotidianamente nei laboratori di citogenetica clinici. Lungi dall’espungere l’incertezza estesa, le procedure sembrano in un certo senso sfruttare la contingenza tra pratiche e oggetti per aumentare la qualità dei propri risultati.

4. C’era una volta una provetta: uniformazione e diversificazione nelle metodiche di laboratorio

«Ogni volta che ti siedi di fronte al microscopio è un caso a sé». Come ben esprime questa frase rubata tra le stanze dei laboratori di citogenetica, il processo di rappresentazione/disciplinamento dei cromosomi, lungi dall’essere lineare, è costantemente attraversato dalle numerose contingenze che puntellano, interrompono e ritardano la loro normalizzazione.

Note de bas de page 35 :

Vlamidir Propp, Morfologia della fiaba (1928), trad. it. Einaudi, Torino, 2000, pp. 26-27.

Sarebbe però erroneo considerare la contingenza un mero impedimento a quello che altrimenti sarebbe un processo scientifico lineare e trasparente di analisi citogenetica. Al contrario, la diversificazione delle risposte delle singole cellule che compongono un unico campione è sfruttata talvolta per incrementare la solidità dei risultati. I comportamenti devianti delle cellule, quindi, non implicano una sospensione delle regole, ma al contrario producono un effetto di proliferazione normativa alla base di un ordine flessibile e contingente sottoposto a continue revisioni e calibrato sulle specificità dei risultati di volta in volta ottenuti. L’armonizzazione tra pratiche e oggetti in questo caso non viene realizzata attraverso una narrazione lineare, ma piuttosto tramite un canovaccio da interpretare in modo mutevole a seconda delle circostanze. La necessità di produrre dati solidi a partire da materiali eterogenei, discordanti o addirittura fuorvianti informa innanzitutto la logica delle procedure utilizzate in citogenetica che, tra uniformazione e differenziazione, tra ripetizione e variazione, è al cuore di tutto il procedimento di laboratorio dalla preparazione dei cromosomi fino all’«inscrizione» in dati. Come gli eroi della morfologia della fiaba di Vladimir Propp, le traiettorie delle provette, o «tubi», come si dice nel gergo del laboratorio, si articolano attraversano tappe obbligate e al contempo mutevoli in un’ambivalenza divisa tra «la sua sorprendente varietà, la sua pittoresca varietà, da un lato, la sua non meno sorprendente uniformità e ripetibilità dall’altro»35. Lo schema di Propp risponde pienamente ai principi delle procedure citogenetiche che, sia come sono descritte dai documenti scientifici (manuali scientifici di citogenetica clinica, linee-guida e protocolli) sia come sono eseguite nelle pratiche lavorative quotidiane, sembrano rispondere non tanto a una traiettoria univoca, quanto piuttosto a percorsi mutevoli e sdoppiati in bivi e deviazioni destinati poi a ricongiungersi in esiti ricorrenti e il più delle volte simili. I quattro principi di questa logica pratica basata sul «governo dell’incertezza» – individualizzare, differenziare e fare riserve, normalizzare, e sfruttare la contingenza – sono qui associati ai quattro momenti in cui essi risultano più evidenti.

Il principio dell’individualizzare, ad esempio, si riferisce alla registrazione dei «tubi», la quale implica anche un’indagine rispetto all’adeguatezza della quantità e della qualità del campione. Si consideri ad esempio il liquido amniotico, il cui colore fornisce dettagli sulle caratteristiche della madre e del prelievo. Essendo composto sostanzialmente dall’urina fetale, il liquido amniotico è quasi sempre giallo chiaro, o, come vuole la formula vernacolare, «nitido» o «paglierino». Naturalmente vi sono eccezioni. Talvolta i tubi hanno anche sfumature più accese che vanno dall’arancione al rosso. Tali variazioni cromatiche sono indice della presenza di alcune gocce di sangue placentare che, prodotte dall’infissione dell’ago durante il prelievo, hanno contaminato il sacco amniotico e sono state aspirate assieme al liquido amniotico. In termini tecnici si parla di campioni «ematici» e si tratta di casi particolarmente delicati. Essendo di origine materna, le cellule ematiche possono svilupparsi e contaminare le cellule da analizzare contenute nel liquido amniotico fino a pregiudicare le «colture cellulari» costringendo la paziente a sottoporsi a un secondo prelievo. Altre anomalie sono date dai cosiddetti «brown», liquidi dalle tonalità marroni scure color cioccolato. Un liquido amniotico di questo colore è spesso indice di sofferenza della salute fetale che, in qualche modo, si riverbera sulla vitalità degli amniociti.

Note de bas de page 36 :

Un’osservazione analoga si trova in Peter Keating e Alberto Cambrosio, Biomedical platforms. Realigning the normal and the pathological in late Twentieth-century medicine (2003), London – Cambridge (Ma), MIT Press.

La stessa intensità del colore di giallo può fornire indicazioni rispetto all’epoca gestazionale in cui è stato eseguito il prelievo, fornendo una nuova dimostrazione della porosità dei confini murari tra il laboratorio e la clinica. Tale processo d’individualizzazione sfocia talvolta in una vera e propria personalizzazione delle provette. Non è raro che le provette siano retoricamente identificate con il nome della gestante («bisogna processare la Monti» o con un generico «la signora», oppure con l’infelice epiteto di «mongolino». Il punto che si vuole sottolineare è che i prelievi, richiedendo molta attenzione, sono spesso considerati alla stregua di pazienti36, le cui condizioni richiedono un monitoraggio continuo al fine di calibrare, modulare, modificare e sospendere i trattamenti previsti.

Il secondo principio del differenziare e fare riserve, pur permeando anch’esso ogni passaggio delle metodiche di citogenetica, risulta particolarmente evidente durante la fase della «semina», cioè l’allestimento delle colture di quelle celle cellule estratte tramite centrifuga dai campioni biologici . In questa fase esso s’insinua pervasivamente in ogni scelta: nello smistare le cellule in più contenitori, il cui numero varia da due a cinque, nell’accorgimento di utilizzare due marche oppure, più semplicemente, due differenti flaconi, «lotti» in gergo, di «terreno di coltura» (il liquido utilizzato per allestire le colture) per le colture di uno stesso campione, oppure nel deporre il campione smistato in due zone differenti dello stesso incubatore o addirittura in due incubatori differenti. Un’espressione vernacolare, «lavorare in doppio», è utilizzato per indicare un modo di procedere particolarmente apprezzato per la sua sicurezza nella lettura finale del vetrino e che consiste nello svolgere lo stesso compito da due operatori diversi in modo autonomo. Tale principio è esplicitato nelle linee-guida delle più importanti società scientifiche di genetica e citogenetica, come ad esempio quelle dell’European Cytogeneticists Association da cui è tratta la seguente citazione.

Note de bas de page 37 :

European Cytogeneticists Association– Permanent Working Group for Cytogenetics and Society, Cytogenetic Guidelines and Quality Assurance: A common European framework for quality assessment for constitutional and acquired cytogenetic investigations (2003), disponibile all’indirizzo
http://www.biologia.uniba.it/eca/NEWSLETTER/NS-17/Guidelines.pdf (ultimo accesso dicembre 2008).

Per minimizzare il rischio di contaminazione o di perdita delle colture causato dal fallimento dell’incubazione, le colture, una volta duplicate, dovrebbero preferibilmente essere manipolate separatamente, tenute in incubatori separati e, se possibile, alimentati da circuiti elettrici indipendenti. Le colture per la diagnosi prenatale dovrebbero essere allestite in due differenti lotti dello stesso terreno di coltura e degli altri reagenti37.

La citazione prende le mosse da due potenziali cause d’incertezza, la contaminazione e il fallimento dell’incubazione, per passare a proporre alcuni rimedi, che, però, non intendono stabilire una corrispondenza tra azione e risultati raggiunti, ma piuttosto governare la contingenza di questo rapporto. Spia dell’incertezza, la differenziazione assolve a un duplice scopo: da una parte, crea diversi risultati in modo da cogliere quelli migliori, dall’altra, conserva sempre almeno un ceppo originario, o in altre parole, «creare riserve», «mettere qualcosa da parte», «avere materiale di scorta».

Allestire le colture è come, non so, per fare un esempio, come quando in agricoltura hai una pianta grande e la tiri via per fare delle piante figlie più piccole che non crescono mai uguali. E comunque la pianta madre rimane, la conservi sempre.

La «pianta madre» da conservare ci rimanda alla questione della riserva, che è un caposaldo del laboratorio di citogenetica. Vi è sempre almeno un contenitore in cui sono conservate alcune cellule del campione che, essendo in grado di riprodursi per almeno due mesi, rappresentano una fonte potenzialmente inesauribile per l’intera durata dell’analisi e anche per una ulteriore verifica dopo l’ecografia morfologica del quinto mese.

Le fiasche sono conservate per due mesi perché non si sa mai, può sempre saltare fuori qualche cosa. Di solito si aspetta l’ecografia morfologica del quinto mese prima di buttare tutto via. Ad esempio, se salta fuori qualcosa dall’ecografia nell’intestino, che può essere un sintomo di fibrosi cistica, ecco che allora si riprende in mano il campione. Tirare fuori delle metafasi da un materiale che è stato per due mesi in coltura è decisamente difficile. Però lo si fa comunque.

Diversificare per sfruttare la contingenza e riservare una possibilità in più di analisi è un principio procedurale che eccede la mera funzionalità e sembra piuttosto descrivere più generalmente un tratto culturale tipico della vita di laboratorio. L’incertezza estesa conduce a produrre dati attraverso il creare diversità e mantenere aperta una chance. Riprendendo un’espressione vernacolare, è come lavorare con una «rete di salvataggio» che ripara gli operatori da ogni possibile errore o comportamento difforme delle cellule.

«Coltura cellulare», «lotto di terreno», «pianta madre», «semina» sono espressioni metaforiche che, rinviando all’ambito semantico dell’agricoltura, restituiscono fedelmente la relazione tra cellule e operatori. Come se fossero piante, le cellule crescono secondo ritmi simili ma mutevoli su cui vanno calibrate le cure. In questo periodo, che arriva fino a dodici giorni, i tecnici monitorano costantemente, dapprima ogni tre giorni e, successivamente, a cadenza quotidiana il livello della crescita cellulare per verificare eventuali problemi allo scopo di cogliere il momento in cui è più opportuno «arrestare il ciclo cellulare». All’arresto mitotico si associa la normalizzazione, in quanto è una fase decisiva per ridurre la variabilità dei campioni e delle loro reazioni alla coltura cellulare e ottenere quindi l’omogeneità dei vetrini. Le differenze stimolate dalla precedente azione differenziatrice vengono in questa fase ricondotte a un medesimo livello. Tuttavia, a riconferma di quanto detto, anche in questo momento è praticata la differenziazione. Non è raro, infatti, che i contenitori di uno stesso campione siano bloccati in due giornate differenti, soprattutto nei casi in cui non vi è un bilanciamento chiaro tra lo sviluppo delle metafasi e la crescita cellulare.

Infine, nelle fasi successive, il «fissaggio» delle cellule sul vetrino e il «bandeggio», la differenziazione e la normalizzazione vengono fuse per sfruttare le contingenze. Si prenda ad esempio il bandeggio ovvero la colorazione dei cromosomi. In pratica, si tratta di una serie di immersioni di diverse durate in diversi reagenti e coloranti. Nonostante il costante monitoraggio, non è sempre chiaro come correggere eventuali difetti dei preparati. L’unico rimedio per risolvere il dissidio tra l’azione e i suoi effetti si ottiene sfruttando il passaggio conclusivo del bandeggio: l’«invecchiamento» in bagnomaria a sessanta gradi per mezz’ora. Il procedimento è realizzato in vasche situate all’interno di una macchina che ha lo scopo di mantenere fissa la temperatura. In un laboratorio osservato, per ottimizzare la qualità dei preparati finali si utilizzano le quattro vasche disponibili in cui si immergono quattro «vetrini di prova» numerati, uno per ogni vasca. Essi sono poi analizzati al microscopio dalle biologhe che indicano ai tecnici la vasca nella quale saranno «invecchiati» tutti gli altri vetrini della mattinata, in quanto considerata la migliore per quei preparati. Naturalmente, la posizione cambia di volta in volta, non c’è in assoluto un’area migliore delle altre. Anzi, non esiste neppure una ragione ben stabilita in grado di spiegare tali discrepanze. E tuttavia, ogni giorno tal operazione viene ripetuta con quattro vetrini di prova numerati in ordine progressivo tra cui, dopo essere stati analizzati, viene scelto il migliore e tutti i restanti vetrini sono invecchiati nella sola vaschetta che realizza il miglior bandeggio. In breve, le sottilissime variazioni di calore (e di chissà quali altri variabili) sono utilizzate per ottenere il preparato migliore.

Il passaggio finale della «processazione» ci offre ancora un esempio della logica pratica che informa le procedure del laboratorio di citogenetica, secondo cui le instabilità del campione vanno sfruttate per ottenere l’omogeneità dei preparati. In altre parole, i campioni sono indirizzati su percorsi diversi e sono monitorati al fine di comprendere quali di queste strade si è rivelata essere la migliore e la più adeguata. Siccome non è possibile stabilizzare una unica procedura tanto vale introdurvi elementi di diversità e verificare il divario tra i risultati. Il continuo affacciarsi dell’eccezione destabilizza un ordine normativo prefissato che, tuttavia, si compie solo grazie a un processo flessibile di «disciplinamento» delle cellule basato sull’instabilità dei preparati e delle procedure, ovvero sull’incertezza estesa.

5. Conclusioni

Il «vetrino perfetto» così come il numero dei cromosomi condividono nella prospettiva dell’incertezza estesa lo stesso statuto di approssimazioni della relazione tra azione e oggetti. Su questa relazione, che mai può dirsi definitiva, e non su una prova empirica assolutamente evidente, si fonda l’unica garanzia della solidità dei dati di volta in volta prodotti. Tramite questa chiave di lettura è possibile situare i dispositivi di camouflage e decamouflage nei termini della contingente relazione tracciata dall’incertezza estesa. Proponendo alcuni momenti chiave della storia della citogenetica e delle metodiche in uso nei laboratori di citogenetica clinica si è cercato di stabilire un ponte tra il lavoro scientifico di scoperta e quello di routine. Nel primo caso, l’incertezza estesa, sebbene si tenti di annullarla attraverso resoconti univoci del fenomeno scientifico, alimenta la ricerca scientifica stessa ponendo a essa nuovi traguardi; nel secondo caso, invece, l’incertezza s’innerva nelle stesse metodiche di laboratorio, che assomigliano a canovacci con alcuni capisaldi, piuttosto che a narrazioni lineari. Dispositivi di decamouflage e camouflage sono quindi una parte integrante della costruzione materiale di significato insito nel processo di armonizzazione tra pratiche e risultati oggettivizzati che costituisce una parte centrale dei processi di costruzione, stabilizzazione e disseminazione dei fatti scientifici.