Patrizia Magli, Pitturare il volto, Marsilio Ed., Venezia, 2013, pp.206

Giulia Ceriani

Université de Sienne

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Mots-clés : identité, masque, simulation, visage

Texte intégral

Leggero e profondo, come del resto l’autrice per chi un po’ la conosce, è il libro di Patrizia Magli dedicato, solo in apparenza, alla pittura del volto. D’altro si tratta, se è vero che il volto è inevitabilmente ripreso come provvisoria piattaforma che scivola sul corpo e dal corpo rinvia, con insolenza o continuità, con affettuosa complicità o negazione e distacco, a una più complessa e rotonda rappresentazione della propria identità.

Così l’atto del maquillage, nella sua infinità di gradazioni ed effetti — dalla cancellazione alla sottolineatura alla copertura —, dalla decorazione alla maschera, restituisce un processo più o meno sapiente di riscrittura di quella prima e non controllata composizione che la vita, il tempo, le passioni, hanno saputo tracciare sulla superficie sensibile della pelle, inseguendo un’arte della rappresentazione che è al tempo stesso opera, più o meno consapevole, di simulazione.

Il percorso che Magli traccia parte dunque, per non esaurirvisi, dal volto “supporto fisico della nostra individualità” : eppure nonostante questo ricevuto e non scelto, in molti casi subito. Truccarsi diventa allora un gesto profondo di riappropriazione di sé, secondo una logica compositiva che riporta a un modello ideale di commovente precarietà,  pronto a sciogliersi in una lacrima,  davanti allo specchio che ci riconsegna alla notte, nel tradimento improvviso di una ruga che affiora, di un rossetto che scolora in un bacio, in un morso, nel trascorrere di una giornata. Sotto, una carne nuda, e lei stessa mai definitiva così come,  in qualche modo, anche la facoltà di una rinuncia al mondo. Sappiamo che il rifiuto di truccarsi, traccia non meno rilevante di altre, è uno dei primi segnali della depressione : abbandono delle relazioni, resistenza, sottrazione, quando si decide con un taglio brutale lo scollamento tra quello che si sente di sé e quello che ad altri si consegna. O meglio, che altri ci consegnano come imperativo di accettazione sociale, talora mediato e spesso subito, sempre patteggiato.

Modi estremi talora, di una quotidiana dialettica, consentita  e insieme imposta alle donne —, protagoniste destinate a una battaglia impari (ma siamo sicuri sia solo delle donne ?) : vedi il velo musulmano, vedi la chirurgia plastica. Frontiere invalicabili, il primo come la seconda. Trucchi permanenti che non lasciano spazio alla sfumatura e al dialogo, all’errore, ma sovrappongono in modo definitivo una maschera rigida a quella che non è certo la verità, inconoscibile, di un viso, ma sicuramente il terreno mobile del suo continuo modificarsi. Non più trasformazione silenziosa e non catastrofica,  ma brutale rimozione.

Così il lavoro di scomposizione minuziosa della rappresentazione del volto, teso a mettere in evidenza la gamma di variabili che presidiano ai suoi fugaci e molteplici effetti di verità, porta gradualmente l’autrice a indagare i tasselli di una grammatica personalissima eppure volentieri conforme, e a scandagliarne contraddizioni e fragilità, governo e debolezze. Prima di addentrarsi nell’arte del trucco, “veste, abito, riparo”, dove ne vengono sondati i modi mutati nel tempo e la storia che è silenziosa iscrizione di un passaggio di consegne, di cultura in cultura e di stagione in stagione. Ed ecco la contaminazione con l’arte, con il teatro, con la moda, con il cinema : dove il principio stesso della tendenza è colto nel suo senso più profondo, come tracciato di un itinerario di avvicendamento necessario per un rinnovamento della tenuta di una struttura sociale, per la decisione delle sue frontiere, per la determinazione di quanto è ammesso, consentito, suggerito, esibito, iconizzato ; oppure proibito, negato, abbandonato, respinto, lasciato.

Il trucco parla del confine, scrive giustamente Magli ; quello tra la pertinenza che può riscrivere un pezzo di storia culturale — le figurazioni barbare e iperboliche degli Indignados, le pitture facciali che ignorano esplicitamente la morfologia del volto per trattarlo come una superficie immediatamente pubblica, il seno manifesto politico delle Femen —, e l’impertinenza quando sa tradursi in segno di appartenenza, violenza e disprezzo, negazione esplicita e polemica di un sistema sociale, e più blandamente modo per riconoscersi a prima vista, come in tanti streetstyle e tra tutti nel punk.

Al di là, si apre uno spazio entro il quale una faccia è un volto e poi un viso, nell’ordine della cosmetizzazione di quella superficie a cui la nostra identità è dalla nascita brevi manu consegnata :  opzioni lessicali che tracciano in qualche modo una direzione per una superficie tesa a volgersi per vedere e farsi vedere, e  che su sé raccoglie le conseguenze dell’essere visto. Con tensione dolorosa o felice, e una mutevolezza che sottolinea le turbolenze del geroglifico di identità di cui il viso/volto si fa portatore : specchio dell’anima solo se dell’anima si abbia un’accezione alquanto pagana, non spirito ineffabile ma idea di una spiritualità vagabonda, incarnata nei cento moti passionali che lo attraversano e incidono calchi ogni volta diversi. Lo sanno gli artisti, i fotografi, gli stilisti che Magli cita e attraversano frequenti il testo dandogli grande ricchezza inter e ipertestuale.

Ma è vero anche che il trucco si afferma oggi come uno dei consumi più immediatamente consolatori, ed è uno dei soggetti mediali più frequentati, attraverso tutorial caserecci che tradiscono la volontà di appropriazione di competenza di platee sempre più estese. Che nulla sia lasciato al caso : che il controllo esercitabile sulla mia apparenza sia tale fino in fondo, fino a garantirmi una vita più ricca, più lunga, più appassionata. Fino ad impedire che ci abbandoni lo sguardo degli altri, e il velo dell’invisibilità cali — come cala —, a prescindere dalle cose fatte, dalle vittorie appuntate sul petto, dalle intenzioni di resa. Un consumo del tutto accessorio, e dunque irrinunciabile.

Purché non sia mai pronunciata l’ultima parola. Purché il gioco di specchi non proclami nulla di definitivo, ma sia capace di scivolare leggero come un piumino di cipria : sono meravigliosi i gesti del trucco, le calligrafie private che raccontano la sapienza e il tradimento, l’ombra e lo scudo. Niente è per sempre, e la manipolazione che il trucco sa così bene esercitare è il primo dei gesti di un atto di discorso che inscrive sulla superficie della pelle scelte tematiche precise, e poi ruoli attoriali, e poi ancora storie di congiunzione o di disgiunzione. Il volto maschera di Greta Garbo, la maschera come volto di Anna Magnani.

Non esiste dunque il volto, scrive  ancora Patrizia Magli, ma “un effetto di volto”. L’identità è un’ombra che sfugge, si raggomitola e si lancia più avanti, che si ritrae e si distende, che ci accompagna e poi ci lascia. Il trucco, è una fuga, un rimedio, un inseguimento, un segreto, una storia silenziosa che si scioglie in un gesto e poi va, per tornare, dissipata e instabile, inafferrabile, o almeno restia.

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