Difendere la violenza. Le retoriche dei perpetratori Defending violence. The rhetoric of Perpetrators - Justifier la violence. La rhétorique des bourreaux
Mario Panico
Centro TraMe - Centro di studi semiotici sulla memoria culturale. Università di Bologna
Patrizia Violi
Centro TraMe - Centro di studi semiotici sulla memoria culturale. Università di Bologna
Questo articolo cerca di riflettere sulle organizzazioni narrative e discorsive della violenza, proponendo una tipologia semiotica che prende in considerazione due fasi specifiche che corrispondono grosso modo alle categorie di violenza privata vs. pubblica, o collettiva, che hanno diverse Destinazione e forme di Agency.
Nel primo caso, esamineremo l’oggetto verso cui è diretta l’azione violenta; nel secondo, le giustificazioni retoriche che il soggetto violento adotta rispetto alla propria azione. Tra le diverse forme di violenza privata, considereremo quelle che sono dirette contro un oggetto individuale. È il caso, per esempio, della violenza domestica, dove un marito che uccide la moglie attiva un sistema di passioni specificamente diretto verso l’oggetto; della violenza verso un oggetto generico, come le azioni su individui considerati come istanze di un certo tipo generale (gruppi minoritari, comunità lgbtqi, ecc.); e della violenza in sé, che non ha un oggetto definito a priori. Nella seconda parte, discuteremo della violenza collettiva, e in particolare delle forme retoriche con cui gli autori giustificano le loro azioni. Analizzeremo anche le diverse strategie enunciative che vengono utilizzate per trasformare le azioni violente in comportamenti giustificabili.
This paper seeks to reflect on the narrative and discursive organizations of violence, proposing a semiotic typology that takes into account two specific stages which correspond roughly to the categories of private vs public, or collective, violence which have different Destination and forms of Agency.
In the first case we will examine the object towards which the violent action is directed, in the second the rhetoric justifications that the violent subject adopts in relation to his/her own action. Among the different forms of private violence we will consider those hurled against an individual object. Examples of this include the case of domestic violence, where a husband killing a wife activates a system of passions specifically directed towards the object; violence towards a generic object, which can be instantiated by an individual, as in the case of actions against a person that is intended as token of a general type (minority groups, the lgbtqi community, etc.); and violence per se, that does not have an object defined a priori. In the second instance, we will address the modality in which collective violence is rhetorically explained by the perpetrators. Here we look at the various enunciative strategies that are used for the semantic transformation of the violent action into a form of justifiable behaviour.
Cet article cherche à réfléchir sur les organisations narratives et discursives de la violence, en proposant une typologie sémiotique qui tient compte de deux étapes spécifiques qui correspondent grosso modo aux catégories de violence privée vs publique, ou collective, qui ont une Destination et des formes d’Agency différentes.
Dans le premier cas, nous examinerons l’objet vers lequel l’action violente est dirigée ; dans le second, les justifications rhétoriques que le sujet violent adopte par rapport à sa propre action. Parmi les différentes formes de violence privée, nous considérerons celles qui sont dirigées contre un objet individuel. C’est le cas, par exemple, de la violence domestique, où un mari qui tue sa femme active un système de passions spécifiquement dirigées vers l’objet ; de la violence envers un objet générique, comme les actions sur des individus considérés comme instances d’un certain type général (groupes minoritaires, communauté lgbtqi, etc.) ; et de la violence en soi, qui n’a pas d’objet défini a priori. Dans la deuxième partie, nous aborderons les violences collectives, et en particulier les formes rhétoriques avec lesquelles les bourreaux justifient leurs actions. Nous examinons ici les différentes stratégies énonciatives qui sont utilisées pour transformer les actions violentes en des comportements justifiables.
Index
Articles des auteurs de l'article parus dans les Actes Sémiotiques : Patrizia Violi et Mario Panico.
Mots-clés : bourreaux, destination, énonciation, stratégie, victimes
Keywords : destination, enunciation, perpetrators, strategy, victims
Parole chiave : destinazione, enunciazione, perpetratori, strategia, vittime
1. Le violenze e i suoi attori
Vittime e perpetratori: questi i due attori che abitano ogni scena di violenza, nei rispettivi ruoli di chi la subisce e di che di chi la esercita. Dei due protagonisti, tuttavia, si è scritto e detto molto più dei primi che dei secondi: le vittime, specialmente da quando l’Olocausto è diventato un imprescindibile riferimento nella storia del novecento, sono state oggetto di articolata riflessione in molte prospettive disciplinari – dalla psicologia alla storia agli studi culturali – e sono state rappresentate e raccontate in innumerevoli film, immagini, documentari e racconti, ma soprattutto le vittime hanno preso la parola in una amplissima produzione di scrittura memoriale e autobiografica, dove hanno dato voce alla loro esperienza diretta. Non a caso si è molto parlato negli ultimi anni di un “paradigma vittimario” (su questo veda, per esempio, De Luna, 2011 e Giglioli, 2014) che ha dominato il campo delle riflessioni sulla memoria traumatica concentrandosi prevalentemente sulla figura della vittima.
In questo lavoro vogliamo invece occuparci dei perpetratori, e soprattutto delle loro parole, delle forme discorsive e retoriche attraverso cui chi compie la violenza giustifica, spiega, motiva il proprio gesto.
In particolare, ci occuperemo della figura del perpetratore criminale di guerra, accusato di avere una diretta o indiretta responsabilità per violenze di massa e genocidi, e delle strategie argomentative di difesa adottate davanti alla corte di tribunali internazionali. Le dichiarazioni difensive usate per dire e giustificare gli atti violenti ci permetteranno di rintracciare, a livello narrativo, i posizionamenti attanziali, l’investimento modale e, a livello discorsivo, i ruoli tematici autorappresentativi del soggetto enunciatore, oltre che a definire che tipo di valorizzazione viene data alla azione violenta.
Il presente lavoro è parte di una più ampia ricerca che intende analizzare varie strategie discorsive dei perpetratori non solo nell’ambito pubblico dei crimini di massa, ma anche in quello privato e familiare. Prima di concentrarci sui nostri tre case studies, ci è parso quindi utile costruire una pur succinta tipologia semioticamente orientata delle varie figure di violenza.
Partiremo come d’uso dalle definizioni del dizionario, che come sappiamo non ci danno alcuna “verità” o essenza del significato, ma ci restituiscono un’immagine di quello che, in un dato momento storico, una cultura definisce come uso attestato, normalizzato, di un termine, che potremmo pensare in termini di prassi enunciativa – come suggerito da Fontanille (1994) e Bertrand (2000) – o come forma della Enciclopedia media – seguendo Eco (2007) – o di abito consolidato – secondo Peirce – o di uso prototipico – all’interno di una semantica cognitivamente orientata.
Violenza in Nuovo Zingarelli
1.Qualità, caratteristica di chi, di ciò che è violento. Brutalità.
2. Azione violenta
3. Coazione fisica o morale esercitata da un soggetto su un altro così da indurlo a compiere atti che altrimenti non avrebbe compiuto
Violenza in Dizionario Corriere online
1. Tendenza all’uso della forza, aggressività: la v. della società attuale; carattere aggressivo di un atto: la v. di un’accusa
2. Uso della forza per ottenere qlco.: v. morale, fisica; fare, usare, subire v.; ricorrere alla v. || v. carnale, stupro
3. Intensità, forza a cui è impossibile e difficile opporsi SIN furia, impeto: la v. di una battaglia; la v. della pioggia; la v. delle passioni
Da notare che in entrambe le definizioni la violenza è in primo luogo descritta come qualità piuttosto che come azione, accostata alla aggressività e alla brutalità, quasi una caratteristica del Soggetto prima ancora che una azione verso un Oggetto. Solo successivamente viene definita nella sua componente strumentale (uso della forza per ottenere qualcosa) e, curiosamente, per forzare un altro Soggetto “a compiere atti che altrimenti non avrebbe compiuto”.
Le definizioni di dizionario sembrano comunque vertere soprattutto sulle modalità e forme dell’azione, mentre l’oggetto che subisce la violenza è lasciato sullo sfondo, e non precisato nelle sue possibili diverse articolazioni. Ne consegue una certa indeterminazione rispetto ai diversi oggetti su cui l’azione violenta viene esercitata, e di conseguenza rispetto ai diversi programmi narrativi, finalità, valori, sistemi di destinazione alla base delle varie azioni violente. È invece proprio su questi elementi che vorremmo concentrare la nostra analisi, perché direttamente correlati alle forme discorsive con cui gli atti violenti vengono poi assunti, giustificati, negati o lasciati inspiegati dai perpetratori.
Ci occupiamo qui in primo luogo di violenza materiale e fisica, il che naturalmente non esclude la compresenza di forme di violenza psicologica o morale, tutt’altro, ma implica una prospettiva privilegiata sulle finalità di annullamento fisico della vittima, ed ha quindi come esito quasi sempre la sua morte o comunque un danno in primo luogo fisico.
A partire da questa prospettiva, si può ipotizzare una prima distinzione fra due diverse forme di soggettività implicate nell’azione violenta, che potremmo definire un’opposizione fra soggetti individuali e soggetti collettivi, in parte sovrapponibile a quella fra violenza privata e violenza pubblica. Queste categorie, tuttavia, sono ancora pre-semiotiche e richiedono una riformulazione più precisa in quanto non corrispondono esattamente alla tipologia che intendiamo proporre. Il “soggetto individuale” ad esempio non rimanda necessariamente a un attore singolo, ma può riferirsi anche a un piccolo gruppo che agisce in forma individuale, si potrebbe dire come “gruppo di privati cittadini”, mentre anche un individuo singolo che agisce sulla base di una manipolazione esterna e in nome di un principio generale condiviso non sarebbe da considerare, nella nostra prospettiva, come attore individuale ma incarnazione di una soggettività collettiva (cfr. Fabbri, 2020).
2. Una questione di Destinazione
Il concetto semiotico che soggiace alla nostra distinzione è quello della Destinazione, che si avvicina e in parte sovrappone a quello di Agency. Distingueremo quindi fra soggetti che si muovono sulla base di una auto-destinazione e soggetti etero-destinati, le cui azioni sono determinate da un sistema di destinazione esterno, che sia esso un insieme di valori introiettato, una autorità che ordina e impone determinate azioni, un gruppo di potere, una istituzione o addirittura lo stato.
L’auto-destinazione coincide in larga misura con le forme di violenza che siamo abituati a considerare come violenza privata. L’esempio tragicamente più tipico ai nostri giorni è il caso del femminicidio, una violenza che si esercita all’interno di una coppia su un oggetto preciso e non sostituibile con nessun altro – la moglie, la compagna, la convivente. Inizialmente Soggetto e Oggetto si trovano congiunti, ma la realizzazione di un programma di allontanamento e disgiunzione da parte dell’Oggetto scatena la violenza del Soggetto. La distruzione dell’Oggetto acquisisce in quest’ottica una doppia valenza: da un lato implica la perdita definitiva, e quindi apparentemente la disgiunzione totale, al tempo stesso tuttavia ne costituisce anche una paradossale riappropriazione, rendendo impossibile qualunque forma di congiunzione futura dell’oggetto con altri soggetti. Se sul piano narrativo il Soggetto passa da uno stato di congiunzione ad uno di disgiunzione, le trasformazioni più importanti avvengono però a livello passionale, dove l’iniziale investimento euforico del Soggetto si trasforma nel suo opposto disforico, e l’amore si muta in odio e desiderio di vendetta.
Questo schema narrativo di base può tuttavia seguire sceneggiature parzialmente diverse. In alcuni casi abbiamo un’azione improvvisa e imprevista: la performanza non è pianificata e corrisponde ad un momento “esplosivo” dello stato passionale del Soggetto; in altri invece è l’esito di un programma meticolosamente predisposto in un arco di tempo anche molto lungo. L’aspettualità puntuale o durativa dei due casi induce differenti strategie di difesa: nel primo caso si ricorre all’idea del “raptus”, una forza esterna al Soggetto che lo ha trascinato al di là della sua stessa volontà, togliendogli in qualche misura la piena agentività della sua azione. Il Soggetto non è più qui Destinante di se stesso ma si autorappresenta come “agito”, soggetto passivo, dominato da un’imprecisata istanza esterna incontrollabile e di cui egli non è responsabile: “ho perso la testa”, “in quel momento non ci ho visto più”, “non ero più io”. Nel secondo caso sarà invece l’accumulo progressivo dello stato passionale a produrre l’azione violenta, un crescendo tensivo insopportabile dello stato disforico di disgiunzione e un desiderio di paradossale ri-giunzione a giustificare l’azione. Qui il Soggetto si assume la propria piena Agentività e il ruolo di auto-Destinante di se stesso, ma si giustifica in nome di un sentimento “nobile”: “l’ho fatto per amore” è la tipica giustificazione in molti casi di femminicidio.
In questi casi la violenza è esercitata su un oggetto conosciuto con cui esisteva una relazione, un rapporto giuntivo precedente; l’atto violento si realizza così all’interno di un programma narrativo prevedibile di manque e quete (iniziale mancanza e perdita dell’oggetto d’amore, impossibilità di riaverlo, atto sostitutivo alla giunzione). Spesso, tuttavia, l’oggetto della violenza è totalmente sconosciuto e casuale e il sistema di destinazione sfuma nell’indefinibile, o talvolta nella psicopatologia, che è a suo modo un’altra forma di assenza di senso. Ma dove manca il senso risulta impossibile anche una qualunque linearità narrativa, posto che il senso è leggibile solo in quanto sintagmatica narrativa. È importante sottolineare che l’istanza di destinazione è il cuore stesso della narratività ponendosi alla base di ogni programma narrativo dei soggetti in quanto ne costituisce la motivazione, ciò che spinge e determina ogni azione. Sono quindi particolarmente interessanti i casi in cui questa motivazione iniziale non è riconducibile ad alcuna trasparente leggibilità.
Facciamo qualche esempio, presi dalla cronaca di fatti realmente accaduti o immaginati a titolo di Gedankenexperiment. Non avremo in questa sede lo spazio per discutere le strategie retoriche di giustificazione di questi perpetratori, ma saranno utili per immaginare anche forme di violenza diverse, seguendo un ordine di progressiva indeterminatezza dell’Oggetto, che perde via via la sua individualità specifica e di conseguenza il suo valore per il Soggetto. Indebolendosi l’aspetto giuntivo – e relazionale – fra Soggetto e Oggetto, la violenza si fa sempre più generica fino a divenire una sorta di “atto puro”, potremmo dire, che trova ed esaurisce il proprio senso solo nell’azione in sé.
- Note de bas de page 1 :
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Irene Ruggiero ha indagato i meccanismi psicoanalitici di queste forme di violenza giovanile in una conferenza tenuta a Bologna in Sala Borsa nel 2018.
Primo caso. Un gruppo di adolescenti aggredisce e picchia senza alcune ragione apparente un barbone: difficile comprendere l’istanza di destinazione di un simile atto di violenza, che può forse essere ricercata solo a livello di meccanismi inconsci di aggressione verso il diverso, portatore di uno stigma sociale inaccettabile e da eliminare.1 In questo caso l’Oggetto non è un individuo conosciuto nella sua singolarità, ma solo in quanto appartenente a una categoria – i barboni – negativamente connotata, è in altri termini un token qualunque di un type negativo ed è proprio in quanto rappresentante di quel type che viene aggredito, non per le sue specifiche caratteristiche individuali.
- Note de bas de page 2 :
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Naturalmente parlare di “assenza di destinazione” non è del tutto corretto, in quanto una qualche forma di motivazione è sempre rintracciabile in ogni azione. Nei casi apparentemente immotivati, come l’aggressione al barbone o il lancio di sassi sull’autostrada, è evidentemente sempre possibile rintracciare forme di destinazione più indefinite e nascoste. I barboni ad esempio possono essere visti come esemplari di una categoria inferiore e come tale da eliminare. Il lancio di sassi può essere compreso in un quadro di dinamiche gruppali molto frequenti specie fra adolescenti, dove la necessità di essere accettati dal gruppo dei pari, cioè sanzionati come soggetti competenti rispetto all’universo di valori a cui il destinante sovraintende, determina il dover/ voler dimostrare una certa determinazione, fermezza o spregiudicatezza che sia, nel superare i limiti posti dalla morale corrente e dal sistema di valori dominante. Una simile istanza di destinazione tuttavia non è facilmente individuabile e ricostruibile; spesso opaca allo stesso soggetto che compie l’azione senza saperne poi spiegare le ragioni, si sottrae a ogni immediata leggibilità narrativa e resta confinata nelle inchieste sociologiche o nelle interpretazioni della psicopatologia.
Narrativamente ancora più opaco può essere un secondo caso. Si pensi a degli adolescenti che lanciano sassi dai cavalcavia sull’autostrada, a volte con esiti fatali. Spesso a questo proposito i giornali parlano di comportamenti imitativi dei videogiochi: si tratta in effetti di azioni la cui violenza può risiedere nelle infauste conseguenze di un simile ‘gioco’, ma che appaiono in sé così indeterminate e gratuite da non sembrare nemmeno caratterizzate dalla violenza, almeno se leggiamo la violenza apparentata ad aggressività o rabbia, come suggerito dalle definizioni del dizionario. Apparentemente privo di ogni decifrabile senso e motivazione, un simile atto si rivolge ad un Oggetto che non solo è sconosciuto, ma non appartiene nemmeno ad alcuna categoria generale che ne possa condizionare l’identificazione, fosse solo nella forma di una riduzione a type, come nel caso precedente. In un certo senso potremmo dire che l’azione non ha oggetto, nel senso che non si focalizza su di un Oggetto che ne costituisca l’obiettivo, né coinvolge un sistema passionale articolato, ma si concentra tutta sull’atto in sé, in una sorta di performance fine a se stessa, senza un vero e proprio quadro di manipolazione e destinazione e senza un programma narrativo determinato2.
3. Difendere la violenza
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Per il caso Eichmann consideriamo la registrazione video del suo processo. La fonte è la pagina “Eichmann Trial”: https://www.youtube.com/watch?v=YF2462I109A (ultima consultazione 4 febbraio 2020). Per quanto riguarda le sezioni della dichiarazione di colpa di Plavšic, esse sono tratte della trascrizione inglese ufficiale dello Statement of Guilt by Biljana Plavšić. Fonte: https://www.icty.org/en/content/statement-guilt-biljana-plavšić. Per il video in cui l’ex presidente legge l’ammissione di colpa si rimanda al canale YouTube del TPJI: https://www.youtube.com/watch?v=jRZo7h-phbk (l’ultima consultazione per entrambe queste fonti risale al 2 febbraio 2021). Le fonti usate per il caso Bignone – segnalate di volta in volta nel corso del testo – sono la pagina Youtube di “Televisión Pública” (qui: https://www.youtube.com/watch?v=Ta51AJlqNqI, ultima consultazione 10 febbraio 2020) e il canale d’informazione inglese BBC (qui: https://www.bbc.com/mundo/america_latina/2010/04/100420_0033_argentina_bignone_condena_gz, ultima consultazione 10 febbraio 2020). In tutti questi casi, le traduzioni in italiano sono nostre.
Dopo aver indagato il rapporto che esiste tra violenza e destinazione, nei prossimi paragrafi prenderemo in considerazione alcuni esempi concreti, con l’obiettivo di mettere alla prova le riflessioni teoriche tracciate. In particolar modo, guarderemo alle strategie retoriche di difesa dei perpetratori, circoscrivendo la nostra analisi a tre casi, rappresentativi di tre situazioni diverse, ma accomunate dal fatto di riguardare soggetti responsabili di crimini di massa. Anche in questi casi, quindi, l’Oggetto della violenza non è specifico ma generico, è il token di un type più generale, da eliminare in quanto individuo appartenente ad una categoria identitaria, sia essa l’ebreo, il membro di una diversa etnia, il militante di sinistra. Il corpus scelto consiste nelle trascrizioni3 delle dichiarazioni di tre criminali di guerra: Adolf Eichmann, Biliana Plavšic e Reynaldo Bignone.
- Note de bas de page 4 :
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Per il rapporto tra semiotica e diritto si rimanda ai lavori di Giuditta Bassano, in particolare 2017.
Più che al ruolo rivestito dai perpetratori nell’atto di violenza, ci focalizziamo sulle loro affermazioni circa la violenza commessa, intese come strategie enunciative e auto-rappresentative utili alla costruzione della performance difensiva in tribunale4. In questo senso intendiamo la difesa come uno strumento retorico, prestando particolare attenzione quindi alle argomentazioni, alla destinazione della violenza, al sistema di valori e passionali convocati e attivati dal soggetto enunciatore. Soggetto, quest’ultimo, animato dalla speranza di intercettare contemporaneamente la “benevolenza” dell’enunciatario-pubblico e di manipolare e convincere l’enunciatario-accusa e l’enunciatario-corte. In questa occasione ci concentriamo su come viene costruita l’argomentazione intorno a ciò che è riscritto come “evento violento” e su come la soggettività del perpetratore emerga narrativamente sullo sfondo di un genocidio in cui hanno perso tragicamente la vita un numero elevatissimo di persone.
- Note de bas de page 5 :
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In relazione a questo argomento si considerino anche le ricerche semiotiche sulla testimonianza condotte da Cristina Demaria (2006: 91-134), con un focus particolare sul rapporto tra memoria - perdono e riconciliazione - riparazione nel contesto post-conflittuale del Sud Africa.
Prima di procedere all’analisi vera e propria, vanno precisati due ultimi aspetti di ordine spaziale e memoriale: le suddette performance di difesa sono avvenute in un preciso contesto spaziale, che è quello del tribunale, in cui vigono norme e rituali ben precisi; esse inoltre hanno avuto una eco mediatica molto forte essendo parte integrante di processi di riconciliazione all’interno di specifici gruppi sociali in contesti di post-conflitto5 (cfr. Giglioli, Cavicchioli, Fele 1997). In questo senso, le dichiarazioni dei perpetratori usate per dire e giustificare gli atti violenti di cui sono accusati, devono essere inquadrate in uno specifico frame: un soggetto ha la possibilità di salvare la propria immagine (davanti a un pubblico vastissimo) e contrattare una riduzione della pena, determinando nuove traduzioni del passato di conflitto.
4. La difesa etica: la manipolazione e la regola
Nel 1961, quando ormai sono passati quindici anni dal processo di Norimberga, a Gerusalemme, al banco degli imputati è presente Otto Adolf Eichmann: uno dei più spietati responsabili dello sterminio degli ebrei nella Germania nazista. Il processo, dall’indiscutibile quanto prevedibile interesse mediatico, è diventato un “evento da manuale” per quel che riguarda la memoria dell’Olocausto. Questo anche grazie alla filosofa Hannah Arendt che, come inviata per il settimanale New Yorker, ha seguito tutte le sedute del processo, coniando, dopo aver ascoltato l’ordinarietà e la superficialità delle dichiarazioni del gerarca, il dictum « la banalità del male » (Arendt, 1963).
La linea difensiva di Eichmann, sintetizzabile con la frase “ho solo obbedito agli ordini”, propone un soggetto ligio modalizzato secondo un etico dover fare o, più precisamente, non poter non dover fare, in cui la possibilità di non rispettare il comando non è minimamente contemplata: il rispetto della manipolazione diretta dalla legge nazista (che è impersonificata in Adolf Hitler) è considerato un dovere etico. Nel suo discorso, Eichmann insiste in vario modo su questo aspetto, citando e deformando addirittura il principio kantiano del dovere, tradendolo e tramutandolo in mera sottomissione burocratica, in obbedienza “cadaverica”, Kadavergehorsam, come lo stesso gerarca la definisce durante il processo (Arendt, 1963: 142-143 trad. it.). In altre parole, il rispetto di un ordine impartito dall’alto viene valorizzato come azione che non permette un investimento cognitivo, bisogna agire come un “cadavere”, senza slanci emotivi o prese di posizione. Per questo, secondo l’argomentazione del gerarca nazista, la violenza nei confronti degli ebrei non è sua responsabilità ma del Destinante-Hitler-legge, di cui lui è stato solo un subordinato pragmatico, devoto e votato al fare nel rispetto delle indicazioni, senza pensare. Non è sorprendente, quindi, che Eichmann si consideri colpevole dal punto di vista umano ma non da quello legale (cfr. Lasok, 1962: 362).
- Note de bas de page 6 :
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Eichmann, allontanando da sé ogni tipo di responsabilità, ha detto “I was in uniform” (Minerbi, 2011: 141)
Un altro aspetto interessante nel meccanismo di autorappresentazione promosso da Eichmann riguarda il fatto che egli parla di se stesso come soggetto in “uniforme”6. Così facendo, allontana il suo corpo biologico dal potere, simbolizzato dall’uniforme, quindi allontana la sua “umanità” dalle azioni commesse. Eichmann rende “oggetto” la sua assenza di responsabilità attraverso quell’uniforme che sta per il sistema di regole che ha forzato lui – e molti come lui – a compiere atti criminali.
Eichmann giustifica e depotenzia la sua connivenza nazista definendo il suo comportamento come normato, coerente al sistema legislativo della Germania in cui ha operato. Inoltre, la difesa si struttura attraverso l’auto-svilimento della sua persona: è solo un “soggetto d’obbedienza” sottomesso a una istanza manipolatrice che lo usa per ottenere i suoi risultati criminali. Eichmann si propone come una sorta di “aiutante obbediente” che però non ha indipendenza pragmatica, può solo fare ciò che gli è imposto. Non è un soggetto capace di costruire la sua soggettività attraverso una libera scelta: il poter fare non è contemplato se non in funzione di un comando. L’unico verbo modale riconosciuto è quello del dovere. Inoltre, in un perverso gioco di concatenazione attoriale, Eichmann, dichiarandosi non responsabile delle azioni commesse, si configura anche come fedele a un potere sovrano al quale opporsi è eticamente impossibile: ribellarsi al nazismo avrebbe significato agire senza rispetto delle leggi e dei giuramenti fatti, quindi essere un soggetto fuori norma.
5. La difesa passionale: la paura di essere, di nuovo, vittime
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Soprannominata la “lady di ferro”, per motivi altamente più drammatici di quelli pensati dagli inglesi per Margaret Thatcher, Plavšić è stata una delle principali responsabili delle persecuzioni dei mussulmani bosniaci, dei croati bosniaci e di tutte le altre minoranze non serbe. A causa delle sue brutali politiche di espulsione e separazione etnica, nel 2001, il TPIJ l’ha incriminata per genocidio, complicità in genocidio per altri cinque crimini contro l’umanità. Dopo essersi consegnata volontariamente, Plavšić è riuscita a patteggiare la sua pena, dichiarandosi colpevole. Infatti, i 25 anni di carcere richiesti dall’accusa sono stati decurtati a 11. Una pena che l’ex presidente ha scontato in una struttura detentiva in Svezia (cf. Krulišova, 2020, p. 130; Simic e Holá, 2020).
In molte occasioni, il soggetto incriminato inserisce nella propria enunciazione una serie di passioni che fanno migrare la difesa verso un livello più patemico, molto più connesso alla percezione e alla valutazione di uno stato emotivo, con l’obiettivo di introdurre una dimensione « irrazionale » (o comunque considerata poco controllabile dal senso comune) nella giustificazione dell’atto violento compiuto. Per dimostrare questa ipotesi, ci concentriamo sul caso di Bilijana Plavšić7, presidente della Repubblica dei Serbi di Bosnia dal 1996 al 1998, condannata nel 2003 dalla corte del Tribunale penale internazionale istituito per punire i crimini commessi durante la guerra in ex Jugoslavia (TPIJ). Nel 2002, Plavšić si presenta in tribunale all’Aja per pronunciare la sua ammissione di colpa. All’interno di questo testo è possibile ricostruire la caratterizzazione passionale dell’attrice-violenta che si dichiara colpevole, usando come giustificazione l’irrazionalità emotiva e, conseguentemente, la difesa del proprio popolo. Fin dalle prime battute della sua dichiarazione Plavšić ammette la sua colpevolezza e la sua agentività rispetto ai reati commessi, sottolineando di essersi presentata volontariamente davanti alla corte per “affrontare queste accuse e risparmiare il mio [suo] popolo, perché era chiaro che avrebbe pagato il prezzo” di una sua eventuale reticenza a presentarsi davanti alla giustizia (Krulišova, 2020: 145). Rispetto agli obiettivi della nostra ricerca è centrale considerare le motivazioni “enunciate” che spingono la politica a questo gesto. Sin da subito è evidente come l’azione non sia proposta nelle parole come una “semplice” ammissione di colpa, ma come un atto di protezione verso il popolo serbo che, dalla latitanza dei suoi politici criminali, avrebbe ricevuto solo altri problemi e discriminazioni politiche e culturali a livello internazionale.
Il ruolo che si auto-affida l’ex presidente è di madre della patria (ibid.: 148), protettrice del suo popolo, che manipola eticamente se stessa verso un dover accettare la propria colpa per il bene dei serbi, anche a costo di vedere limitata la sua libertà. Differentemente da quello che abbiamo visto per Eichmann, in questo caso, il dover fare, quindi l’obbligo, non riguarda più la pragmatica dell’atto violento ma l’ammissione della responsabilità, l’enunciazione esplicita della colpevolezza.
Nel suo discorso Plavšić condivide con l’accusa una competenza cognitiva. Lei riconosce, comprende e crede nel ruolo criminale che le viene affidato e che conferma dicendo: “Ora sono arrivata a credere e accettare il fatto che molte migliaia di persone innocenti sono state vittime” (enfasi nostra). Plavšić usa la prima persona singolare per proclamare la sua trasformazione cognitiva (da perpetratrice a soggetto che riconosce la colpa), quasi autoproclamandosi colpevole assoluto (pur essendo 150 i criminali di guerra imputati). Attraverso il continuo uso della prima persona singolare (“Sono venuta davanti a questo Tribunale…”; “Sono venuta per due motivi…”; “Sono venuta ora…”), che ricorda il battersi sul petto del credente che ha riconosciuto il peccato davanti al suo dio, l’ex presidente alimenta la giustificazione del suo comportamento assassino appellandosi a “questioni culturali”. In particolare, richiama alla strepnja (traducibile in italiano sia con “paura” che “preoccupazione”) del popolo serbo. Si tratta della paura collettiva di essere ancora una volta vittima della storia, così come accaduto durante la Seconda guerra mondiale per mano dei nazisti tedeschi.
Chiedendo retoricamente a se stessa il perché di quelle azioni, l’ex presidente dice: “La risposta […] è, credo, la paura, una paura accecante che ha portato all’ossessione, soprattutto per quelli di noi per i quali la seconda guerra mondiale era un ricordo vivo, i serbi non avrebbero mai più permesso di essere vittime” (enfasi nostra). Dopo aver caricato su di sé tutto il peso della responsabilità, giustifica l’atto commesso trasformando la paura e l’ansia di essere ancora una volta vittime in delle caratterizzazioni culturali del popolo serbo. La violenza, seguendo questa logica, si struttura come una emozione preservatrice che incanala un fare pragmatico mirato ad evitare la ripetizione del dolore e la ripetizione di una pagina buia della storia nazionale.
La strepnja contribuisce a generare un apparato narrativo che unifica sotto uno stesso profilo emotivo e “di memoria” l’intera comunità, modellando il discorso verso un messaggio di orgoglio nazionalista, in cui la presidente assume contemporaneamente il ruolo di agnello sacrificale e somma tutrice. La paura viene aggettivata come “accecante”, indirizzando questa emotività verso una dimensione irrazionale (al quale consegue un ruolo attanziale del Soggetto del non poter sapere causa un impedimento “percettivo”) creando una sorta di distacco tra ragione e passione (ibidem), tra violenza programmata e violenza non programmata. Un distacco che, a sua volta, genera un doppio soggetto violento: uno che controlla l’emotività e ammette la colpa, e uno che invece si fa accecare dall’emotività, non percependo correttamente lo stato delle cose e agendo con violenza.
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Qualche anno dopo, dal suo carcere in Svezia, Plavšić ha dichiarato di aver fatto questo discorso solo per ottenere uno sconto della pena, senza credere fermamente alle parole pronunciate (cf. Simic e Holá, 2020).
Nel discorso di Plavšic, la paura “crea la minaccia” (Lotman, 1998 [2008: 4]) e non viceversa. In altre parole, la paura si pone come una passione “del virtuale”: come emozione produttrice di un futuro, eventuale, nemico e come soluzione contro la ri-attualizzazione nel presente di uno scenario traumatico passato. Dice, infatti, la politica: “In questa nostra ossessione di non diventare mai più vittime, abbiamo permesso a noi stessi di diventare perpetratori”. La paura, usata come movente per praticare violenza, pone Plavšić nella posizione di autorappresentarsi (e di difendersi) come un giano bifronte, criminale coraggiosa ossessionata dalla protezione del suo popolo e vittima sacrificale, la quale si immola per aver tenuto conto del “complesso storico” dei serbi. La paura del ritorno del passato diventa l’emozione attraverso la quale la presidente prova a scagionare se stessa o, almeno, a riconoscere un distacco tra le azioni violente compiute per mano di una irrazionale passione e la lucidità cognitiva di chi quella passione ormai la tematizza come ingiustificata. L’operazione autorappresentativa che inscena Plavšić (mentendo sapendo di mentire8) configura la sua violenza come giustificabile, altalenando effetti di senso passionali differenti: la paura è sia una emozione disforica (ha manipolato emotivamente il soggetto a commettere il crimine) che euforica (ha manipolato il soggetto a proteggere la nazione e la memoria). Nel racconto della violenza proposto in questa ammissione di colpa, la paura ha una capacità performativa, riesce cioè a trasformare numerose volte il soggetto a livello discorsivo verso una auto-martirizzazione. Infatti, pur configurandosi come soggetto perpetratrice, pur ricoprendo, nella logica del processo, il ruolo tematico della criminale da punire, l’ex presidente risponde a questa accusa vestendo i panni di serba autentica (così tanto da condividere la paura caratterizzante del suo popolo) e, ancora e con più intensità, di protettrice nazionale che paga il prezzo più alto per aver assecondato l’ansia e condiviso la paura dei suoi “figli”, costituendosi alla giustizia per difenderli, ancora.
6. La difesa riduzionista: il frame della violenza e la neutralizzazione delle differenze
- Note de bas de page 9 :
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Campo de Mayo è una provincia di Buenos Aires. Negli anni della dittatura argentina in questa stessa zona era presente uno dei principali centri clandestini di detenzione conosciuto come “El Campito”.
Il terzo e ultimo caso che analizziamo riguarda una forma particolare di difesa, connessa alla differenziazione semantica dell’evento, alla contestualizzazione della violenza e la riduzione quali-quantitativa delle vittime. In particolare, ci occupiamo delle varie giustificazioni che il perpetratore avvalora in tribunale per rendere i suoi atti violenti meno gravi, quindi meno perseguibili. Come ha precisato Valentina Pisanty (1998: 524), per riduzionista (o revisionista) si intende un soggetto che mira a modificare, spesso sminuire, la portata dell’evento traumatico che, a differenza di quanto accade con i negazionisti, riconosce come storicamente accaduto. È esattamente questa la strategia argomentativa adottata da Reynaldo Bignone – presidente della dittatura in Argentina dal 1982 al 1983 – durante il maxiprocesso “Campo de Mayo”9 del 2010, al seguito del quale è stato condannato a 15 anni di carcere.
- Note de bas de page 10 :
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Fonte: BBC.
- Note de bas de page 11 :
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Fonte: “Televisión Pública”.
Il perpetratore costruisce il suo argomento attraverso una premessa contestuale. “Era una guerra”10, dice in apertura del suo discorso. Una guerra irregolare dirà qualche minuto dopo. Questa precisazione funziona come premessa a tutto ciò che sarà detto, serve al criminale per tratteggiare specifici frame o sceneggiature (Eco, 1979) in cui inserire azioni di cui è accusato e che non nega di aver compiuto. Si pensi alla frase: “Non nego che la scomparsa anche di una sola persona sia un crimine in tempo di pace. In tempo di guerra, in particolare nella guerra irregolare, ha un significato diverso”11. In questo senso, la parola guerra implica una serie di rimandi enciclopedici che strutturano una condizione di di a-normalità sociale in cui due o più gruppi/stati si fronteggiano potendo fare ricorso all’uso della violenza. A livello popolare, si usa dire che « in guerra tutto è concesso », riferendosi all’eccezionalità del contesto di conflitto in cui le norme e le consuetudini sono completamente ribaltate in negativo. La violenza, in guerra, non è lo scarto rispetto alla norma, tutto il contrario: essa è un’azione prevedibile – modalizzata come poter fare – e necessaria – dover fare – ai fini della risoluzione del conflitto e della propria salvaguardia e preservazione.
- Note de bas de page 12 :
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Per inciso, è importante precisare che, anche a livello pubblico, la dittatura argentina è stata messa in discorso come la guerra sucia, la guerra sporca (cf. Violi, 2014)
Stando a tale logica, Bignone, non accettando la degradazione proposta dall’accusa (Giglioli, Cavicchioli, Fele, 1997: 38) attorializza se stesso come un soldato in guerra12, implicando uno specifico contesto e, conseguentemente, riducendo qualitativamente la natura della sua azione, in quanto non intesa come violenza irrazionale e imprevedibile, perpetrata in tempi di pace, ma come regola del gioco, prevista da una manipolazione contestuale che non concede alternative.
- Note de bas de page 13 :
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“Se machaca con la cifra de 30.000 desaparecidos, jamás se demostró la vericidad de esta cifra. […] Pero me pregunto por qué el empeño en la extrema magnificación de las cifras hasta el punto de dejar la sentada como una verdad incontestable”. Fonte: “Televisión Pública”.
- Note de bas de page 14 :
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Fonte: BBC.
L’altro aspetto centrale del suo argomento riguarda la costruzione del proprio anti-Soggetto. Oltre a mettere in dubbio il dato quantitativo che registra 30.000 persone scomparse durante la dittatura13, Bignone insiste sulla narrazione bellica e costruisce “su misura” (rispetto alle sue intenzioni minimizzanti) il nemico a cui si oppone per valori e intenzioni: il/la desaparecido/a. Bignone descrive la sua controparte come “non troppo giovane o idealista, il loro ideale era la presa del potere con la forza sovversiva. Avevano combattenti, tattiche… facevano bombe […] Hanno ucciso indiscriminatamente e a tradimento”14. Il perpetratore spinge verso una de-romanticizzazione e de-mitizzazione dell’immagine dei giovani argentini che furono torturati e che hanno perso la vita durante la dittatura. Lo fa attivando una logica di “mutua responsabilità”, in cui anche chi viene considerato dall’accusa (e dell’opinione pubblica) come la vittima assume delle caratterizzazioni violente, in modo da diventare minaccia per lo stato argentino e, quindi, un problema di ordine e sicurezza pubblica da risolvere. Secondo la retorica difensiva di Bignone, questa strategia di criminalizzazione mira a depotenziare lo statuto semiotico di chi ha subìto la violenza, a bilanciare le responsabilità e le attorializzazioni: il/la desaparesido/a è meno vittima in quanto più criminale, il perpetratore diventa meno criminale perché inserito in una logica bellica ed è mosso dalla volontà di proteggere la sua nazione. In questo senso, entrambe le parti diventano co-responsabili della situazione di conflitto. Dal punto di vista semiotico è interessante notare come l’architettura di questa enunciazione difensiva si basi sull’accentuazione dei differenti oggetti di valore (la patria per Bignone, la rivolta per i desaparesidos), la neutralizzazione delle differenze attoriali (in guerra tutti sono criminali e tutti sono vittime) e sull’annullamento delle responsabilità e delle accertate sofferenze.
Conclusioni
In questo lavoro ci siamo prefissi di analizzare la violenza spostandola lo sguardo sulla figura del perpetratore, piuttosto che su quella della vittima, già molto analizzata nella vasta letteratura sul tema. Abbiamo proceduto secondo due direttive: da un lato un lavoro sulle forme di Destinazione e Manipolazione, specie per quanto riguarda le forme di violenza che si potrebbero definire ‘private’, in quanto coinvolgono un oggetto individuale di violenza, noto o anche sconosciuto. Dall’altro abbiamo considerato le parole con cui i perpetratori giustificano le proprie azioni, lavorando sugli atti dei tribunali che sentenziano contro i criminali di guerra.
In particolare, queste sono state messe alla prova attraverso lo studio di tre casi legati a contesti di conflitto e dittatura in cui la violenza è certamente un elemento centrale. Ci siamo occupati dei meccanismi retorici ed enunciativi di difesa della violenza pronunciati da tre perpetratori responsabili della morte di un numero elevato di persone. La nostra attenzione si è focalizzata sulle varie dinamiche di de-responsabilizzazione, autoassoluzione e manipolazione messe in atto dai vari perpetratori così come proposte nei discorsi da loro pronunciati davanti alla corte. Le diverse argomentazioni, tutte accomunate dal desiderio di ridurre la gravità dell’azione commessa, declinano in maniera diversa la Destinazione e la Manipolazione: nel primo caso si è trattato di un soggetto auto-rappresentatosi come senza capacità pragmatiche autonome, solo legate ad una istanza superiore che, nel processo violento, è stato normalizzata come legge a cui fare riferimento per avere un atteggiamento etico. Nel secondo si è trattato di un soggetto auto-configuratosi come eccessivamente passionale, tanto da essere stato spinto ad agire in nome di un’emozione, consegnando alla sfera dell’irrazionalità il suo fare pragmatico nei confronti delle vittime. Il terzo e ultimo soggetto, invece, ha adottato come giustificazione quella che potremmo definire la manipolazione « da frame », cioè una pressione ad agire legata a logiche contestuali autoprodotte, tali da rendere legittime le azioni violente.