Il cognitivismo come retorica dell’immagine scientifica
Il caso di Eluana Englaro
0. Premessa
In Galofaro (2009) mi sono occupato del dibattito mediatico sul caso di Eluana Englaro. In seguito ad un grave incidente d’auto e ad un tentativo di rianimazione, la ragazza è rimasta in stato vegetativo permanente (SVP) dal 1992 al 2009, quando sono state interrotte alimentazione e idratazione forzata. In questa sede mi occuperò della controversia scientifica sulla possibilità che alcuni pazienti in SVP conservino frammenti di coscienza.
L’interpretazione di quel che vediamo nell’immagine scientifica è legata al linguaggio tecnico con cui la analizziamo – nel caso della ricerca sull’SVP è il linguaggio del cognitivismo. Grazie ad esso, si introduce un isomorfismo tra anatomia, funzionalità fisiologica e cognizione. Cercherò di mostrare che il gergo cognitivista non possiede una serie di proprietà che un metalinguaggio scientifico deve avere, travestendo dietro ad una retorica pseudoscientifica visioni filosofiche diverse più o meno già note.
Forse questo saggio dimostra solo che noi umanisti non capiamo nulla di scienza. Ma se convincessi il mio lettore che non capiamo per fondate ragioni, avrei raggiunto già un buon risultato.
1. Delimitazione del problema
In luglio 2008 il tribunale d’Appello di Milano emette la sentenza che ha permesso l’interruzione dell’idratazione e dell’alimentazione forzata per Eluana Englaro. Contro questa sentenza un sostituto procuratore presentò alla Corte di Cassazione un ricorso che sollevava dubbi sul reale stato di Eluana, in riferimento a « recenti lavori » di Adrian Owen – il ricorso rinviava anche al sito internet personale di quest’ultimo.
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Mi sono occupato dell’immagine radiologica in Galofaro (2005). Sull’abduzione nell’immagine diagnostica cfr. Galofaro (2007).
Immediatamente, lo studio diviene oggetto di polemica giornalistica. Dalle colonne del giornale della Conferenza Episcopale Italiana, L’Avvenire, Giuliano Dolce, direttore scientifico della clinica Sant’Anna di Crotone ed esperto di stati neurovegetativi, si richiama a generici lavori scientifici che dimostrerebbero come questi pazienti possano provare emozioni; infine, il quotidiano dei vescovi intervista Owen in persona. Ho già scritto (Galofaro 2009, p. 73 e ssg.) di come la posizione di Owen sia stata in quell’occasione manipolata giornalisticamente e strumentalizzata. Oggi mi interessa la ricerca in sé. Essa si basa su immagini scientifiche prodotte con metodiche diverse, molte delle quali tuttora non trovano impiego diagnostico. Perché? Oltre a scoprire che nell’immagine scientifica c’è qualcosa (identificazione), occorre chiarire cosa vediamo (tipizzazione). Chiarire questo legame è lo scopo di chi fa ricerca. In questo legame il linguaggio che impieghiamo per descrivere l’immagine è cruciale: la funzione di un buon metalinguaggio è quella di coordinare al piano dell’espressione visiva un piano del contenuto il più possibile univoco, favorendo una serie di inferenze che permettano di escludere altri possibili contenuti diagnostici1. Dunque, l’utilizzo di una tecnica come la fMRI non avrebbe avuto alcun valore nel caso di Eluana Englaro, né diagnostico né tantomeno giuridico, dato che tra gli esperti non c’è accordo sull’interpretazione di quel che vediamo con questa metodica; gli esami e la metodica utilizzata da Carlo Alberto Defanti, il neurologo che diagnosticò il danno assonale diffuso in relazione allo SVP, rappresentavano al contrario lo stato dell’arte in fatto medico (cfr. Galofaro 2009, p. 68 e ssg.). Un fatto trascurato dai media è che la sua diagnosi fu in seguito confermata dall’autopsia:
i danni riscontrati, pur essendo molto diffusi, interessavano soprattutto la sostanza bianca dei due emisferi cerebrali (vale a dire le fibre che collegano tra loro i centri nervosi della corteccia cerebrale e i nuclei profondi) e il talamo, che è un nucleo di sostanza grigia che funge un po’ da « centralina » dell’intero cervello (Defanti 2010a)
2. La ricerca di Schiff
Prima di affrontare i lavori di Owen occorre prendere in esame le ricerche di Nicholas D. Schiff e collaboratori (Schiff & alii 2002) – Owen era parte dell’equipe. Il lavoro impiegava un tipo di tomografia a emissione di positroni (FDG-PET); la Risonanza Magnetica (MRI); la Magnetoencefalografia (MEG). Il numero dei pazienti in SV presi in esame era ristretto a cinque casi, tre dei quali mostravano un comportamento inusuale: movimenti involontari (peraltro assenti nel caso Englaro). Innanzitutto ci concentriamo su questi tre casi.
2.1. Il dato e il suo trattamento semi-simbolico
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Ciò è tipico nell’argomentazione scientifica (cfr. Bastide 2001).
Grazie alle immagini ottenute con la PET Schiff e collaboratori trovano differenze nell’attività metabolica del cervello che nell’articolo descrivono con l’opposizione « alto/basso ». Collegando questa opposizione da un lato ai movimenti involontari, dall’altro alla letteratura disponibile sui danni anatomici del cervello, si costruisce una piccola equazione semi-simbolica2, un isomorfismo tra piani diversi ottenuto facendo coincidere una serie di opposizioni categorial :
Assenza/Presenza (sul piano dei movimenti involontari)
=
Basso/Alto (sul piano del livello dell’attività metabolica)
=
Danneggiato/Preservato (sul piano dell'anatomia corticale).
2.2. Dal corpo alla mente
A partire da questo trampolino di lancio avviene un salto triplo tra corpo e mente, dalla res extensa alla res cogitans:
a) the findings indicate the existence of isolated areas which retain anatomical integrity and remain active in modular fashion that can support isolated but defined behavioural events (Schiff & alii 2002, p. 1228).
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Inoltre, il lessico della neurologia descrive quel che c’è nel cervello; il metodo tramite cui il cognitivismo ha impostato la ricerca sulla mente, non potendo vederla o toccarla, è quello di interrogarsi su come essa deve – non può non essere – e richiede dunque una logica aletica.
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Secondo il Devoto-Oli l’anfibolia è un « errore o incertezza che risulta dall’uso di termini equivoci o da un’errata identificazione di concetti distinti ». Se ne occupa già Aristotele nelle Confutazioni sofistiche.
Qui si importa dal cognitivismo il concetto di modulo. Di che si tratta? Ecco tre definizioni tratte da un libro scritto dal « papà » dei moduli, Jerry Fodor (2001, trad. It. p. 70 e ssg.): « Ogni reale o presunto meccanismo cognitivo individuato funzionalmente (…) conta per ciò stesso come modulo ». Fodor cita David Marr: « Ogni ampia computazione deve essere suddivisa in una serie di sotto-processi piccoli, quasi-indipendenti, specializzati ». Una terza definizione di Leda Cosmides e John Tooby, citata da Fodor, recita: « I moduli sono caratterizzati come strutture complesse organizzate funzionalmente per elaborare l’informazione ». Se la cognizione fosse un calcolo complesso, un modulo sarebbe una subroutine di quel calcolo, un passaggio. Dov’è la trappola? Fodor parla di mente. Ora, sempre che possediamo davvero una mente e che sia corretto considerarla alla stregua di un software, non è detto che alla sua « architettura », alla sua organizzazione funzionale, corrisponda nel cervello una organizzazione anatomica con la stessa forma. Non è detto ad esempio che ad ogni funzione debba corrispondere una o una sola area cerebrale o viceversa, anzi! Fodor ha sempre preso le distanze da questa sorta di semplificazioni. Solo uno svarione di Schiff dunque? Il problema è più complesso: la convergenza tra psicologia cognitiva e neurologia comporta il tentativo di cercare un qualche analogo anatomico e fisiologico dei modelli « mentali ». Così, la parola « modulo », apparentemente innocente, funge da ponte tra due domini semantici distinti: tra un lessico che si riferisce al cervello, al corpo, e quello della mente3. Introduce una ambiguità o meglio una anfibolia4. Ma l’importazione del lessico da una disciplina ad un’altra non può che mutare il senso dei termini stessi, in relazione ad un differente quadro di categorie.
b) The evidence for the apparent existence of isolated remnants of functional brain networks in permanently unconscious patiens is novel and invites further interpretation (Schiff & alii 2002, p. 1229)
Come si vede, le « isole di attività metabolica » divengono qui fatalmente delle « rimanenze isolate di reti cerebrali funzionali ». In questo passo c’è una proiezione: il cognitivismo rappresenta la mente come una rete di funzioni; questa rete viene ora proiettata sul cervello.
c) such preserved brain activity reflects novel evidence for the modular nature of functional networks that underlie normal brain function. (Schiff & alii 2002, p. 1229)
L’ovvia conclusione. E’, per così dire, il mix di neurologia e cognitivismo a fornire una interpretazione del reperto visivo nei termini di una teoria della mente.
2.3. Una definizione della coscienza
I due pazienti rimasti mostrano anch’essi tracce di attività metabolica residua, ma nessuna attività involontaria. Nel loro caso, a causa del tipo di danno, « the modules co-exist but cannot organize into meaningful patterns of sensorimotor integration » (Schiff & alii 2002,, p. 1230). Questo porta Schiff e collaboratori a definire la coscienza essenzialmente in termini di organizzazione:
consciousness in the human brain is interdependent upon ascending arousal fibres from several brainstem nuclei combining with closely allied pathways interconnecting the tegmental mesencephalon and paramedian thalamus (…) Consciousness per se requires intact corticothalamic systems. (Schiff & alii 2002, p. 1230)
Questo passaggio è fondamentale: come vedremo, Owen associa alla parola « coscienza » un significato molto diverso; e può farlo, perché il linguaggio del cognitivismo non definisce univocamente cosa si intenda davvero per « coscienza ».
3. La ricerca di Owen
Vengo ora alla prima ricerca di Owen e collaboratori (Owen & alii 2006), condotta su un solo paziente in SV da cinque mesi: non abbastanza per parlare di uno stato vegetativo permanente, il quale si diagnostica dopo un anno. In effetti il paziente di Owen, dopo qualche tempo, si riprese dallo SV.
Owen riparte da Schiff & alii (2002): ci sono alcune « isole di funzioni cerebrali preservate ». E’ possibile allora « to detect conscious awareness in patients who are assumed to be vegetative »? Se fossi Schiff risponderei di no, perché considererei la coscienza come il frutto di una integrazione complessa di funzioni; ma Owen ha, per così dire, qualcos’altro in mente.
3.1. Metodo e assunti impliciti
La metodologia impiegata è la Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI). Oltre a osservare il cervello del paziente in SV la ricerca è stata condotta anche su un campione di controllo costituito da volontari. Durante la scansione, la richiesta di Owen al paziente ed al volontario è « to perform two mental imagery tasks (…) »:
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Immaginare di giocare a tennis e
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Immaginare di visitare tutte le stanze della propria casa.
Fig. 1 – Le rispettive zone di attivazione metabolica del cervello dei due diversi compiti (immaginare di giocare a tennis, immaginare di visitare le stanze della casa) per il paziente e per un volontario rappresentativo, A.M. Owen, M.R. Coleman, M. Boly, M.H. Davis, S. Laureys, J. D. Pickard, “Detecting Awareness in the Vegetative State”, in Science, 8 septembre 2006, Vol. 313, n° 5792, p. 1402 © AAAS.
Anche qui è in gioco una anfibolia, introdotta dal termine task: in questo modo due richieste diverse come « giocare a palla » e « pensare di giocare a palla » sembrano la stessa cosa, essendo entrambi compiti.
3.2. Comunicare con gli SV?
Una volta « provato » che il paziente è ancora in grado di pensare al tennis o a casa propria, ecco un ulteriore salto: gli si chiede di associare il tennis alla parola sì, casa propria alla parola no. Pur non essendo più in grado di pensare direttamente alla parola "sì" o "no", il paziente in SV sarebbe nuovamente in grado di comunicare con l'esterno pensando al tennis o alla propria casa. Questo genera un abisso di domande paradossali sul rapporto tra pensiero e linguaggio: come fa il paziente non più in grado di pensare direttamente le parole "sì" o "no" ad associarle al tennis? Come se una sorta di "metapensiero" sopravvivesse alla distruzione delle strutture che ne costituiscono il supporto
3.3. Retorica ed interpretazione dell’immagine.
Come interpretare le similitudini tra le scansioni del paziente in SV e quello di controllo? Il punto di vista di Owen e collaboratori sulla coscienza si basa su di una sorta di analogia visiva. Secondo questo punto di vista, se l’attivazione metabolica dell’area x è presente tanto nel paziente in SV tanto nel volontario, allora la funzione cognitiva svolta da x nel volontario è intatta anche nel paziente in SV. Ma se al volontario si è chiesto di « essere cosciente », allora anche il paziente in SV è cosciente. Si tratta di un assunto che rimane implicito, anche a causa della sua palese assurdità: l’argomentazione di Owen e collaboratori è pertanto un entimema, con un fine preciso.
4. Conflitti
Come sappiamo dall’ormai classico Fabbri & Latour (1977), un articolo scientifico possiede una fine strategia retorica il cui bersaglio sono oppositori reali o presunti. L’utilità di esplicitare la polemica consiste anche nell’esplorazione di una pletora di conflitti diversi che possono sorgere intorno ad un testo scientifico.
4.1. Il conflitto con la letteratura
Secondo Nicholas Shea & Tim Bayne (2010), vi è molta letteratura sul fatto che un comportamento volontario produce una attivazione della corteccia prefrontale ventrolaterale. Owen non ha verificato se anche nei suoi pazienti avviene questa attivazione. Ma il modo in cui gli autori ed Owen considerano la coscienza mi pare molto diverso: se quelli vedono l’attivazione di un’area specifica come segno della coscienza, per Owen la semplice attivazione delle aree del cervello che studia è già di per sé « consapevolezza ». Qui abbiamo una serie di usi equivoci delle sfumature tra volontario, cosciente, consapevole (voluntary, conscious, aware) e via dicendo, una controversia terminologica tipica della letteratura cognitivista: purtroppo, il fatto che Owen non si richiami a definizioni esplicite non aiuta.
4.2. Il conflitto epistemologico
Secondo Parashkev Husain & Masud Nacheev (2007) l’associazione tra un comportamento e l’attivazione di un pattern cerebrale non implica il converso. Se giocando a tennis si attiva una certa area del cervello, non vuol dire che quando essa si accende l’individuo stia per forza pensando di giocare a tennis.
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Nell’ambito delle logiche epistemiche, basate su parole come « pensare che », « credere che », non vale la composizionalità del significato: la verità di « Antonio crede che la terra sia piatta » non dipende dalla verità di « La terra è piatta ». Non sono possibili inferenze dal tutto alla parte o viceversa (cfr. Palladino & Palladino 2007, p. 73 e ssg.).
Inoltre, nei casi di Schiff & alii (2002) il comportamento era involontario ed osservabile (masticazione); qui il così detto « comportamento » è e rimane su un piano mentale (« Pensare di fare ... »). Si può mettere sullo stesso piano la masticazione involontaria e « pensare ad un tramonto, ricordare un amore »? Anche solo da un punto di vista logico le due cose mi sembrano distinte5.
Ne segue che Owen non può provare la decisione dei pazienti di cooperare con lui. L’attivazione dei pattern non potrebbe essere involontaria? Ma Owen giudica il compito da immaginare troppo complesso per una attivazione involontaria, anche a causa della durata di quest'ultima (trenta secondi).
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Defanti non sottovaluta la possibilità che la fMRI possa migliorare la precisione della diagnosi.
Un altro problema epistemologico riguarda il basso numero di casi. In un recente studio, Owen e i suoi collaboratori (Monti & alii 2010), l’esperimento è ripetuto su 54 pazienti, ma solo 5 (il 10,8%) rispondono « mentalmente ». Un po’ poco per parlare di « frammenti di coscienza » negli SVP, come nota anche Defanti (2010b): forse è più corretto parlare di casi in cui la diagnosi di SVP è imprecisa6. Ma Owen e i suoi collaboratori sostengono che in realtà il basso numero di reazioni registrate non prova nulla: il paziente potrebbe aver deciso di non cooperare. Ma se così fosse, sembrerebbe impossibile falsificare l’esperimento di Owen: non fa alcuna differenza se non si trovano tracce di attivazione.
4.3. Il conflitto sul significato
Come ho scritto, Owen postula un isomorfismo tra tracce di attività metabolica nel cervello e « comportamenti mentali » come « immaginare di giocare a tennis ». Tanto Daniel L. Greenberg (2007) quanto Husain & Nacheev (2007) suscitano obiezioni, proponendo un test. Il primo infatti suggerisce di chiedere al paziente di immaginare di visitare le stanze di casa propria dopo aver giocato a tennis; i secondi di chiedere al paziente di non immaginare di giocare a tennis.
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Il cervello funziona sempre tutto insieme. Per ottenere immagini come quella in fig. 1 a partire dall’immagine ottenuta in seguito ad una richiesta, occorre « sottrarre » con una elaborazione una immagine « a riposo » (cfr. Moro 2006, pp. 154-171).
Entrambe le proposte hanno a che fare con la natura verbale della richiesta al paziente, e con il significato. Il ruolo di mediazione svolto dalla lingua nella ricerca è in effetti totalmente eliso. In particolare, la natura del significato verbale è, secondo una tradizione che rimanda a Saussure, posizionale e differenziale. Per semplificare, il significato di « giocare a tennis » non è un dato positivo. Può essere opposto a « rilassarsi » (l’altro ordine al paziente dato da Owen, reso necessario dalla metodica per immagini impiegata7) oppure al suo contraddittorio « non giocare a tennis »; ad un altro compito – visitare le stanze di casa propria, mangiare un gelato, e via dicendo; ad un altro tipo di gioco – solitario, di squadra, con o senza tavoliere, di società, d’azzardo e così via; un’altra opposizione possibile è di tipo ludico Vs. non ludico – recarsi in ufficio, gestire una riunione, portare l’auto dal meccanico. Inoltre, l’attività di una zona del cervello sta per l’attivazione di un campo semantico (tradizionalmente associato ad altre aree del cervello, a dire il vero), di una funzione cognitiva o di entrambe? Dobbiamo considerarle anch’esse isomorfe, e perché?
4.4. Il conflitto sul metalinguaggio
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I classici insolubilia delle scienze cognitive si ripropongono qui: se ciò che si vede nell’immagine è un « comportamento mentale », è possibile inferire la coscienza dallo stesso « comportamento mentale » del paziente in SV e del volontario (test di Turing)? Oppure non possiamo in alcun modo penetrare la « stanza cinese » di Searle (1997) e accedere alla coscienza?
Come ho già detto, termini come coscienza e comportamento sono utilizzati in modo diverso nell’articolo di Schiff e collaboratori (Schiff & alii 2002) e in quello di Owen e collaboratori (Owen & alii 2006), nonostante il secondo si richiami ai risultati del primo. Per Schiff e collaboratori, come abbiamo detto, la coscienza è il prodotto dell’integrazione tra diverse funzioni modulari svolte dal cervello in attività; il comportamento che possiamo apprezzare fenomenologicamente è una sorta di effetto dell’attività cerebrale. Per Owen, al contrario, è possibile parlare di coscienza anche in assenza di integrazione tra varie aree del cervello ancora attive localmente. Per quanto riguarda il comportamento, esso non è più un effetto dell’attività cerebrale, perché essa stessa è considerata come « comportamento » in risposta ad una richiesta (cfr. Stins 2009)8.
4.5. Linguaggio e cultura
Le differenze tra la coscienza di Owen e collaboratori e di Schiff e collaboratori sembrano il retaggio di concezioni opposte della « mente » presenti nelle scienze cognitive (cfr. Fodor 2001). Da un lato abbiamo una concezione per cui i « moduli » sono programmini che computano funzioni molto semplici, e occorre postulare un qualche « sistema centrale », addirittura inconoscibile razionalmente, che li governa. Dall’altro avremmo un modello massivamente modulare, per cui non ci sono altro che moduli e non è possibile parlare di una « coscienza » diversa dalla sommatoria delle singole funzioni.
L’inestricabilità di questo ginepraio ha a che fare con il linguaggio e con il modo in cui attraverso esso la nostra cultura mette in scena opposizioni come mente/corpo, cosciente/inconscio. Così, rispetto al classico mind-body problem, Owen e collaboratori sembrerebbero schierarsi per una qualche soluzione che la filosofia considererebbe monista, in opposizione a visioni dualiste alla Cartesio. Per Owen e collaboratori, l’attivazione di un grappolo di neuroni è già « coscienza ». Ma consideriamo il passo successivo di Owen: istruire il soggetto in SV a utilizzare le funzioni residue (pensare al tennis, pensare di muoversi in casa) per rispondere sì o no a problemi che riguardano tutt’altro. Ma domande semplici come « questa terapia ti fa soffrire? », ipotizzate da Owen e collaboratori, presuppongono per lo meno intatta la propriocezione, la sua associazione al linguaggio, un certo livello di comprensione delle parole, una certa capacità di apprendimento. Come è possibile che ciò avvenga, in un cervello massivamente danneggiato, in cui il paziente sarebbe perfino costretto a immaginare il tennis e casa propria in alternativa alle parole sì o no? Le conclusioni di Owen e collaboratori sembrano considerare il cervello danneggiato come il campo di espressione dei « comportamenti mentali » di una coscienza non danneggiata, una sorta di anima che si esprime attraverso di esso.
5. Conclusioni
C’è una vecchia battuta tra i fans di Star Trek. Il capitano Kirk chiede: « A volte mi chiedo come funzionano gli smorzatori inerziali, Scotty ». E l’ingegnere capo dell'Enterprise risponde: « Molto bene signore, grazie ». Allo stesso modo, come funzionano le isole di Schiff e di Owen, la coscienza, i « comportamenti mentali »?
Il vero difetto, che rende il gergo cognitivista diverso da un metalinguaggio, è la mancanza di constraint: ogni parola può essere combinata con un’altra generando frasi che sembrano dotate di senso solo perché la lingua italiana o inglese permette la loro formazione. Così la formazione di parole come « smorzatori inerziali » non viola la grammatica consueta, ma è chiaro che questa espressione ha un significato solo nel mondo finzionale di Star Trek. Nel lessico della chimica o della biologia ci sono constraint che escludono come prive di significato espressioni quali « inibitore progestinico », « recettore tricologico », « isotopia elettronica », « saturazione non-metallica »: per dirla con Rastier (1987), questi termini sono allotopi, e lo sono in virtù di definizioni univoche. Al contrario, una ricerca in rete di accostamenti generati casualmente come « computazione neurale », « risonanza simbolica », « corteccia modulare » e « metafora neurale » garantisce sempre un risultato.
Come ho detto, mi sembra questo un caso di anfibolia che sfrutta le caratteristiche classematiche (Greimas 1966) di un lessico dato. Così il cognitivismo fornisce all’immagine scientifica un lessico che può essere combinato in espressioni in apparenza coerenti, ed ha come esito un effetto di realtà, ossia l’impressione referenziale che tali frasi descrivano davvero « qualcosa » che l’immagine fotografa: il pensiero al lavoro. Al contrario, in realtà essi non lo descrivono affatto, ma lo generano. Forse un alieno, o un visitatore da una cultura che non possieda il concetto di mente, non comprenderebbe questo lessico e ne impiegherebbe un altro. Non è colpa né di Schiff né di Owen: il cognitivismo funziona come una retorica pseudoscientifica la cui stessa natura è squisitamente sofistica. Nato per tutt’altri scopi, il fallimento di questo gergo consiste proprio nella sua capacità di descrivere qualsiasi cosa vediamo nell’immagine: non ci fornisce i mezzi per escludere alcuna tra le possibilità alternative che abbiamo visto nel paragrafo quarto. Un logico come Tarski (1944) ed un semiotico come Hjelmslev (1943) concorderebbero circa i problemi di coerenza formale di un metalinguaggio che supporta ogni tesi e la sua contraria, e la sua conseguente inadeguatezza materiale a fungere da strumento per l’interpretazione dell’immagine, ossia da metasemiotica scientifica.