Di mediazione in mediazione. Spazi esperienziali, domini culturali e semiosfera
Premessa
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Basso (2002).
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Basso (2006a).
In questo nostro contributo esplorativo non ritorneremo che marginalmente sulla teoria dell’oggetto culturale1 e sulla semiotica delle pratiche2, per affrontare invece più specificatamente il ruolo giocato dalle diverse forme di mediazione che caratterizzano l’elaborazione culturale dell’esperienza. In tale prospettiva l’intermediaticità risulta rivelatoria del ruolo giocato da ciascun livello (e strumento) di mediazione.
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Fontanille (2006a).
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Basso (2006a).
Rispetto alla necessità di articolare come piani descrittivi gerarchizzati segni, testi, oggetti, pratiche, scene predicative, pratiche, forme di vita3, ci occuperemo qui di un incassamento ancora successivo, quello tra le forme di vita e la semiosfera. Ecco allora che rispetto a un’analisi per anelli concentrici della semantizzazione operata da un attore sociale rispetto a un corso d’azione, ci concentreremo piuttosto sulle condizioni esogene ed endogene di elaborazione di una forma di vita sociale. Ancora: rispetto alla sintassi di operazioni che descrivono una semantica dell’azione da parte di un attore sociale4, dedicheremo invece i nostri interessi alla stratificazione identitaria che individua quest’ultimo; soprattutto, ci concentreremo sul carattere mediato di tale identità, ovvero sul carattere transindividuale – per riprendere un concetto caro a Gilbert Simondon – che la innerva. Infine, cercheremo di dissimilare la nozione di semiosfera da quella di cultura, nonché di indagare il ruolo delle organizzazioni all’interno dei diversi domini sociali.
1. Riflessioni introduttive. I livelli di mediazione
1.1. Preliminari
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Naturalmente non mancano pregevoli eccezioni (si pensi ai lavori di Stockinger, Zinna, Couchot, Balpe, Bettetini, ecc.).
Uno degli obiettivi del nostro lavoro è quello di riuscire a tematizzare, con la massima radicalità, la questione posta dai media comunicativi. Di fatto, si tratta anche di provocare una risposta teorica rispetto a una paradossale situazione per cui all’aumento di insegnamenti di semiotica nei corsi di laurea o nei master di comunicazione non si registra correlativamente lo sviluppo di una specifica riflessione sulla medialità, o comunque essa non viene affatto pensata come centrale5. Questo fatto ha naturalmente delle motivazioni, spesso ragionevoli, ma che necessitano oggi di essere ridiscusse. La semiotica del testo e della significazione ha messo in secondo piano il côté comunicazionale e, se ha preso in conto le produzioni mediali, le ha assunte come forme di testualità del tutto emancipate da qualsiasi questione concernente lo specifico mediatico. Al contrario, spesso ha teso a ricostruire l’ambiente mediatico a partire dalla testualità che vi circola.
Persino le indagini sul dominio sensibile, e in particolare sulla polisensorialità come regime “normale” della percezione (Fontanille 2004), non hanno ancora posto in cima all’agenda dei lavori lo studio delle potenzialità dei diversi media comunicazionali. Più generalmente, la principale focalizzazione semiotica sull’elaborazione testuale (peraltro fondamentale) finisce per cogliere quest’ultima come un’infinita ricerca alla surrogazione e alla costruzione di equivalenze interespressive, ricerca che si articola poi con un’intersemantica che oltrepassa ogni limite mediatico pregiudiziale.
Se il problema della medialità ritrova oggi centralità, ciò è dovuto fondamentalmente a due tematiche emergenti:
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la prima è il presentarsi sulla scena di “presunte” forme di testualità irriducibili a quelle del passato: in particolare, l’ipertestualità multimediale ed interattiva sarebbero in grado di riformulare il modo con cui gestiamo il senso;
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la seconda è la nuova prospettiva fondativa di una sociosemiotica che rifiuta un’estensione indebita della nozione di testualità e che cerca di abbordare in un quadro epistemologico e metodologico specifico oggetti di indagine quali gli statuti dei testi, le pratiche e le situazioni d’interazione comunicativa più o meno istituzionalizzate.
Se consideriamo invece gli studi massmediologici, possiamo notare che per quanto questi abbiano teso a dissimilare codici e media, indicando come i primi siano ospitati dai secondi, non hanno mai smesso, per altri versi, di rivendicare come ciascun medium sia una forma specifica di finestra sul mondo, un dispositivo sui generis di (auto)rappresentazione del sociale, un’implementazione particolare di forme di interazione tra istituzioni e attori sociali.
Ora, molte delle proprietà attribuite al medium sono state accreditate anche ai linguaggi. Ecco che parlare una lingua significa: a) accedere a una cultura; b) elaborare forme identitarie modulate dalle forme di soggettività discorsiva consentite dal codice; c) mettere in gioco dei regimi di interazione tra individui, ecc.
Ciò che permette di definire il medium rispetto al linguaggio non può essere certo la sua dimensione istituzionale, certo attribuibile anche ai linguaggi, né il fatto che esso diviene luogo di esercizio e di sedimentazione di processi culturali: la memoria culturale è soprattutto memoria di grammatiche e di testi.
Si potrebbe sostenere, riduzionisticamente, che il medium è semplicemente lo statuto che assume un linguaggio nel momento in cui viene implementato e agito da una comunità sociale. In altra prospettiva si è sostenuto che il medium è dato dal supporto e dal mezzo di trasmissione degli atti linguistici, ma ciò ha portato a una mancata generalizzazione delle pratiche comunicative, come nel caso dell’oralità o della musica jazz. Più in generale si è soliti identificare il medium solo dove vi è l’apporto di una tecnologia (tecnologizzazione del supporto formale per il piano dell’espressione), e non solo di tecniche.
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In Basso (2002) abbiamo cercato di importare in semiotica la nozione fondamentale di osservazione di secondo ordine elaborata all’interno della teoria dei sistemi, e mirabilmente sfruttata nella sociologia luhmanniana. Le osservazioni di primo ordine garantiscono una semantizzazione articolata su categorizzazioni eminentemente differenziali, alla cui base si pongono le opposizioni tra corpo proprio e ambiente, tra il me-carne e l’alterità. Nel momento in cui un’istanza soggettale è in grado di autorappresentarsi come inclusa nell’ambiente in quanto membro partecipante, affiancato da altri, essa riesce a dischiudere un dominio di categorie partecipative, le quali rendono disponibile altrimenti il quadro dei valori elaborati. Ciò non ha nulla a che vedere con la possibilità di calcolare o assumere analogicamente la posizione altrui all’interno di un quadro inter-deittico. Infatti, ciò continua a relare posizioni esclusive (nicchie, per usare la suggestiva espressione di Maturana), e non giunge a un salto qualitativo che è cogliersi come un sistema-osservatore che ne vede altri, o sé stesso (auto-osservazione) in rapporto a un ambiente. L’osservazione di secondo ordine rivela un’immanenza di accoppiamenti tra sistemi e ambienti; in questo senso non solo non fuoriesce da tale immanenza, ma vi discopre la consustanzialità della propria condizione. Per tale ragione, tale osservazione di secondo ordine non perviene né può ambire ad alcun metalivello. La generalizzazione del riconoscimento di una condizione comune si compie dal basso: nella propria finitudine di sistema e nella apertura ineludibile alla contingenza. Ecco allora che l’osservazione di secondo ordine non sorvola il piano dell’agire, ma interroga i ruoli attoriali in situazione come uno scenario inclusivo del self (ogni scenario sociale è una totalità partitiva che include attribuendo punti di cecità a ciascun sistema). L’osservazione di secondo ordine porta a scoprire il dipendere reciproco dei sistemi da fattori di contingenza. La semantizzazione di uno scenario deve procedere malgrado l’altro si presenti come un “gatto” di Schroedinger, ossia egli può star profilando il proprio sé ipse in un modo o nel modo opposto. Di qui l’importanza della fiducia, vista da Luhmann come una riduzione della complessità delle relazioni. Ogni osservazione di secondo ordine è correlativa di una vulnerabilità al senso: le lacune conoscitive sulle operazioni degli altri sistemi e la malcerta fondazione della proprie motivazioni, porta l’osservazione di secondo ordine a mettere in tensione soluzioni procedurali e escogitazioni locali (Basso 2006a). Dato che ogni osservazione di secondo ordine comporta distinzioni inclusive, essa tende a spostare l’asse delle valorizzazioni dal che cosa si offre in praesentia in quanto valore al come connettere contingenza e destino del valere. Il rapporto tra una teoria dell’osservazione di secondo ordine e una semiotica interpretativa di base peirciana è evidente se si pensa che la prima è ciò che ci consente di indicare la distinzione stessa (operata dall’osservazione di primo ordine) con l’aiuto di un’altra distinzione (cfr. Luhmann 1984); nel contempo tale teoria, attraverso le sue sottolineature indessicali, demarca la crucialità dei costrutti enunciazionali.
Una cosa certa è che la problematica mediologica ci costringe a cogliere i testi in quanto oggetti (essi, anche quando allografici, devono conquistare un piano di manifestazione incarnato); in secondo luogo, tali oggetti non devono solo possedere la capacità di interfacciarsi con delle pratiche, ma devono comunicare il loro stesso carattere protesico. In terzo luogo questo carattere metacomunicativo insito in ogni medium spiega come esso finisca per essere la piattaforma di una osservazione di secondo ordine6 sulle pratiche comunicative. In quarto luogo, se il tema del potere è tanto presente nella letteratura sui media è evidentemente perché tale osservazione di secondo ordine può divenire asimmetrica rispetto agli attori sociali coinvolti (banalmente, per esempio, l’asimmetria sorge per via del controllo del medium da parte di qualcuno di essi). Ma non basta ancora: il medium ha un carattere “terzo” rispetto alle pratiche comunicative che lo rende inassimilabile alle controparti dialogiche. Ogni comunicazione è in tale prospettiva dispari non appena i network si istituzionalizzano, divenendo agenti di senso attivi indipendentemente dalle pratiche comunicative che vi si esercitano.
È il canale sempre aperto del network che reclama di essere riempito da oggetti di comunicazioni da comunicare; e quand’anche gli attori sociali rifiutino di confrontarsi con i media, essi continuerebbero a percepire che qualcosa che li riguarda continua ad accadere all’interno della scena mediatica. L’auto-osservazione della società operata dai mass media diviene un ambiente proprio nel momento in cui essa discopre davanti a sé non una reificazione dei testi culturali, ma uno scenario di indeterminazione dove gli eventi hanno effetti difficilmente prevedibili.
Nella teoria della comunicazione classica il medium veniva scorporato in questioni che erano pertinenti al canale e al codice, ma era chiaro che da esso dipendevano le forme di relazioni tra emittente e ricevente, il modo di costituire e quanto meno contrattare un referente, mentre forse rimaneva piuttosto controverso l’impatto dei media sulla formulazione del messaggio stesso. McLuhan, come tutti sappiamo, ha sostenuto la celebre tesi che il medium è il messaggio: con ciò intendeva che l’impatto della comunicazione era debitore più del medium utilizzato che del messaggio veicolato, o – per usare i suoi termini – che la fonte primaria degli effetti dell’atto comunicativo è il medium stesso.
La tesi di McLuhan portava in gioco l’idea che non solo il medium utilizzato avesse un effetto collaterale, una messa in prospettiva specifica, un potere diffusivo peculiare del potenziale semantico del messaggio, ma che il mezzo stesso potesse rivendicare un proprio potenziale.
Il rischio di tali riflessioni è tuttavia, ancora una volta, quello di perdere di generalità: si finisce col parlare di problematiche specifiche poste dai mass media, perdendo di vista quella semiosfera che questi compartecipano a rigenerare nel mentre essi stessi vi dipendono. Vediamo allora di reimpostare lo spettro delle questioni sollevate.
1.2. Il medium dal punto di vista di una semiotica del testo
1.2.1. L’accoppiamento ecosistemico tra significazione e informazione
Innanzi tutto, partiremo dall’idea che la semiotica sta progressivamente prendendo coscienza di un’insanabile frattura epistemologica e metodologica nell’indagare esperienze, testi, pratiche. Ora, la sottovalutazione del ruolo giocato dai media è tutta interna alla prospettiva testualista. Mettendo in secondo piano il significante – e in particolare la produzione e la percezione del piano dell’espressione – la semiotica testuale tendeva a svincolarsi dalla pertinenza del medium. Ciò risultava oltremodo strategico in vista di una radicale emancipazione della teoria dei sistemi e dei processi di significazione da una teoria dell’informazione. La medialità, coimplicata inevitabilmente nella questione della produzione, trasmissione e ricezione del testo, tendeva a ridurre quest’ultimo a messaggio e il significato a bit di informazioni codificate opportunamente combinate. Il rifiuto di una teoria matematica della comunicazione, con il suo studio sulle proprietà statistiche della fonte mediale, nonché di una teoria ingegneristica delle tecnologie di trasmissione dell’informazione è stato assolutamente fondamentale al fine di rivendicare l’autonomia delle discipline che studiano la significazione, fondate piuttosto su una teoria dell’enunciazione e del discorso.
Umberto Eco, tuttavia, nel Trattato di semiotica generale, era già meno propenso alla derubricazione dei problemi mediatici. Dato il riconoscimento legittimo di un centro e di una periferia della ricerca (la semiotica, come ogni disciplina, percepisce l’esigenza di confrontarsi con le soglie pertinenziali del suo sguardo), Eco sosteneva che tutto sommato non si poteva accantonare una teoria strutturale delle proprietà generative di un sistema-codice, né tanto meno rinunciare al compito di elaborare una teoria che si occupi di chiarire come le unità significanti siano trasmesse a fini comunicativi. Tali questioni si ponevano alla base di una teoria della produzione segnica (Eco 1975, 63). «L’informazione è il valore di equiprobabilità che si realizza tra molte possibilità combinatorie» (ivi, 64). Per esempio, scrivendo una cartella al computer, è stato operato un sistema di scelte di diteggiatura che hanno come propria archeologia 851500 possibilità combinatorie, ossia un numero di ben 2895 cifre (ivi, 66).
Più le alternative sono ridotte meno è dispendiosa la comunicazione; tuttavia, essa risulta anche “meno informativa”. Fatto sta che l’economia informativa è ricercata dalle lingue perché la posta non è di fatto la codificazione del messaggio, ma la costruzione e contrattazione discorsiva della significazione. Il dominio del medium è funzione di una significazione contrattabile di forme che abbiano un alto grado di probabilità di essere colte intersoggettivamente lungo una certa pratica comunicativa.
Il senso ultimo di questo ragionamento echiano può essere ritradotto in termini di accoppiamento strutturale: non ci sarebbe linguisticità senza organizzazione e codificazione della medialità, dato che queste operazioni vanno a limitare il numero delle possibilità, consentendo comunque la gestione di una significatività di differenze messe in valore sul piano di doppie articolazioni e di organizzazioni discorsive. Parimenti, non esisterebbe alcuna medialità se non teleologicamente orientata alla significazione. L’organizzazione stessa della medialità è poi del resto parte integrante della cultura ed è quindi pratica “significativa”.
1.2.2. Memoria produttiva e implementazione sociale del testo
La semiotica testuale ha nel passato manifestato espressamente la volontà di emancipare la testualità dal supporto di manifestazione materiale, se non persino dalla testualizzazione tout court; ciò in ragione del fatto che l’organizzazione semantica del testo (discorso) veniva pensata come elaborabile indipendentemente dal significante (si pensi al percorso generativo greimasiano). Allo stesso modo si è combattuta la trivialità di dividere le semiotiche in funzione degli ordini sensoriali coimplicati nell’apprensione del significante. Le due risposte iniziali alla problematica del canale di comunicazione sono state quindi: a) autonomizzazione della semantica e b) generalizzazione della semiotica a partire dai linguaggi sincretici in grado di esibire la fallacia di classificare le semiotiche su base percettiva (cfr. la voce dizionariale canale nel Greimas & Courtès 1979).
Già Sapir (1937) sosteneva l’impossibilità di pronunciare una frase senza una modificazione di interesse o un mutamento di emozione; ma soprattutto poneva l’accento sul fatto che esistono sempre e solo degli atti comunicativi integrati, ossia la sincreticità linguistica è propria di tutti i tipi di testualità, anche di quella verbale (la gerarchizzazione stessa tra il linguistico e il paralinguistico poteva essere abbattuta su queste basi). Tuttavia, il sincretismo e il coinvolgimento polisensoriale della ricezione non ci possono sottrarre dal compito di chiarire come l’eterogeneità espressiva venga effettivamente implementata su un supporto di iscrizione e risolta da uno sguardo semiotico integratore.
Inoltre, il testo, proprio perché attestato, è un’eredità trasmessa attraverso certi canali comunicativi. Non solo esiste una memoria figurativa della produzione semiotica quale versante semanticamente pregnante della testualità, ma si dovrà attribuire un ruolo anche al genere del testo, alla sua specifica implementazione nel sociale, ai canali comunicativi entro cui circuita. Gli stessi contratti comunicativi non vengono solo rinegoziati dentro il testo, ma lungo delle pratiche di trasmissione dei corpora testuali.
1.2.3. Metatestualità e intermediaticità
La metatestualità delle opere ha frequentemente messo in primo piano il problema della mediaticità, e non solo recentemente. Come ha notato David Hockney in Secret Knowledge, la tecnica della camera obscura in pittori come Caravaggio comportava non solo banalmente la rappresentazione di personaggi “mancini” (visto che la proiezione speculare li restituiva invertendo la destra con la sinistra), ma finiva col destrutturare l’idea della macchina prospettica albertiana. Infatti, sostituiva l’isotropia integrale nella restituzione bidimensionale dello spazio con una macchina analitica che giustapponeva porzioni di spazio dipendenti da apprensioni diversificate (Caravaggio dipingeva uno alla volta i personaggi a partire da una singola proiezione speculare di un modello).
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Amleto, da William Shakespeare e J. Laforgue (IIIa edizione: prima rapp. Prato, Teatro Metastasio, settembre 1974. L’opera televisiva che ne è stata tratta fu trasmessa il 22/4/1978 da Rai 2.
Uno straordinario caso di riflessione metatestuale che vuole problematizzare una traduzione intermediatica è quella offerta dall’Amleto di Carmelo Bene (da Shakespeare e Laforgue). Dopo la realizzazione cinematografica di Un Amleto di meno (1973), Carmelo Bene riceve la commissione per la ripresa televisiva di un suo allestimento teatrale dell’opera Shakespeariana7. Il regista si pone la questione di come costruire un’opera televisiva autonoma nient’affatto pensata come una mera documentazione della rappresentazione teatrale. Vediamo alcune caratteristiche di questo Amleto che possono tematizzare alcune questioni intermediatiche significative per la nostra trattazione.
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Larga parte dell’enunciazione televisiva si fonda su uso estensivo del primo piano ravvicinato, tanto che la testa degli attori sembra letteralmente appoggiarsi ai bordi dell’inquadratura, o muoversi dentro di essa come ne fosse imprigionata. Il teatro sembra ostentare la sua natura “incontenibile” rispetto al medium televisivo proprio mentre ne abbraccia l’opzione enunciazionale più classica.
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Questo “inscatolamento” del teatro nella televisione trova corrispondenza anche nello svilimento delle pratiche teatrali e dell’implementazione iterativa dell’opera. In particolare, la tournée si rivela come non più necessaria, vista la iscrizione unica dell’opera sul supporto magnetico e la possibilità mediatica di un numero di trasmissioni potenzialmente infinito. Gli attori stessi non servono più a riprese terminate: ecco allora che assistiamo, nell’epilogo di quest’opera per la televisione, a una dismissione dei ruoli da parte degli attori che diviene tout court una dismissione di sé stessi. Il corpo dell’attore non ha più utilità: cade dentro un baule, assieme ai vestiti di scena, pronto ad essere “archiviato”.
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Lo stesso testo teatrale non può andare in scena in televisione senza soffrire la contaminazione dei generi-programma che caratterizzano il palinsesto. In particolare l’opera teatrale, con la sua ambizione totalizzante, non può che rinvenire una paradossale consonanza con i “programmi contenitore”, trovandosi così ad ospitare un florilegio di generi diversi che ne mettono in variazione inevitabilmente i toni discorsivi e di qui la significazione. Ecco allora che l’opera teatrale accoglie al suo interno forme di digressione intergenerica quali interviste, siparietti d’avanspettacolo, pettegolezzi, ecc.
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Lo spazio mediatico restituito da Carmelo Bene non dipende affatto dall’inquadratura “transitiva” che mima una sua trasparenza rispetto al “reale” (reportage), ma si rifà piuttosto al cadrage intransitivo dello studio televisivo, per di più senza pubblico e privo di qualsiasi elemento architettonico caratterizzante. Le quinte più proprie della televisione sono degli schermi particolari, i chromakey, ossia quei dispositivi pronti a sostituire uno sfondo ad hoc “cancellando” ogni elemento dello stesso colore monocromo che tale schermo esibisce. Bene, ben prima del Lynch di Mulholland Dr. (cfr. Basso Fossali 2006d), perverte l’uso dei chromakey, cancellando non gli sfondi, ma assentificando i corpi. Con ciò ostenta ciò che la televisione sottrae al teatro; vale a dire la corporeità dell’attore congiunturale al corpo presente dello spettatore. La sottrazione della “fisicità” del teatro è infine emblematicamente restituita dall’armatura che gli attori dell’Amleto indossano. Infatti, asceso al trono, il personaggio amletico di Carmelo Bene si toglie la parte superiore dell’armatura rivelandosi senza testa; egli si incorona nell’impero di una inter-oggettività in cui l’uomo, questa volta, può davvero brillare per l’assenza.
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Lo spazio dello studio televisivo è il non-luogo per eccellenza, o forse l’unico davvero tale. Sta di fatto che la palinodia del televisivo passa attraverso una destrutturazione rivelatoria, pezzo a pezzo, della medialità del teatro.
L’invisibilità della microsintassi figurativa operata dal dispositivo mediatico è convertita da una scomparsa dell’uomo-agente. L’ospitalità del medium televisivo e la sua capacità di inserire lo spettatore in sfondi virtuali si rivelano quali disincarnazioni dissimulate di tutte le istanze attoriali.
L’intermediaticità attiva uno spazio critico proprio perché l’accoppiamento tra ambiente mediatizzato e discorso culturale si ritrova, caso per caso, a dover disoccultare la regolatività delle valenze assunte e la loro necessaria convertibilità in figure identitarie altrimenti esigibili ed esperibili. In tale prospettiva l’intermediaticità si oppone alla ipermedialità: la prima comporta, ad ogni conversione, la visibilità di un disaccoppiamento (cfr. § 1.3.) tra medium e figure mediate, mentre la seconda sembra scongiurarla definitivamente (la saturazione delle mediazione possibili e il loro incassamento finiscono per ridurre la conversione in un gioco interno al sistema quale dispositivo tecnico-organizzativo, cfr. § 3.2.3.).
1.3. Il medium dal punto di vista di una semiotica dell’esperienza
Dal punto di vista di una semiotica del corpo (Fontanille 2004), il medium può essere concepito come l’attante di controllo che consente la circolazione e l’apprensione di valori sensibili, restituendone la relazione diagrammatica che li connette nel mentre la modula o persino la traspone in base alle proprie strutture-filtro.
Naturalmente, il medium è dipendente da un’apprensione che lo coglie come tale. In questo senso, non c’è medium che non sia già inserito in un quadro di senso dove sono in gioco delle tematizzazioni.
Il ruolo di medium può essere ricoperto dagli elementi naturali (l’aria, la luce, l’acqua, ecc.). Il fatto che si citino elementi naturali come prototipi della mediazione sancisce la sua ubiquità, il suo fungere da tematizzazione di sfondo rispetto a forme localmente costituibili.
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Cfr. Luhmann & De Giorgi (1992, § 2.1.).
La plasticità del medium dipende dal fatto che le connessioni tra gli elementi che lo individuano devono essere pensate come relativamente più deboli rispetto alla rigidità delle connessioni delle forme che accolgono8. Il medium è sempre una datità materica, ma non priva di forma, che essendo meno organizzata è pronta a cedere l’iniziativa e a subordinarsi all’accoglimento-iscrizione di altre forme. Il medium è quindi solo un ruolo tematico di un corpo proprio nel momento in cui accetta di subordinarsi all’irradiazione e alla messa in memoria delle forme di un altro corpo, finendo per moltiplicare e differenziare modalmente i punti di vista da cui queste possono essere colte.
Non c’è forma senza medium (essi sono legati da accoppiamento strutturale), ma nel contempo il medium può finire per proporre in maniera “competitiva” le proprie qualità (disaccoppiamento) o per nasconderne la presenza (effetto-trasparenza).
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Potrebbe essere questa una rilettura possibile dell’enunciazione oggettale proposta da Latour (1999), almeno seguendo la riconcettualizzazione semiotica dell’opposizione esistenza/esperienza da parte di Fontanille (2003).
La sintassi figurativa rende pervasiva la presenza di una medialità. Il carattere di stratificazione della presenza delle forme come concatenazione di un divenire iscrittivo nell’intorno esperienziale del soggetto conduce persino all’idea che l’oblio del carattere incarnato del medium (la sua “trasparenza” percettiva o cognitiva) è funzione del fatto che al mondo viene attribuito un ruolo tematico potenzializzato: lo spazio, infatti, viene pensato regolativamente come puro scenario deittico di sfondo (è “teatro” dell’apparire solo perché si dà una geografia locale dell’accadere). Del resto, anche l’esserci è sempre dato in “effetto-trasparenza”, ma basta la semantizzazione dell’essere dinanzi a, basta l’insorgenza di un’epifania, ossia la messa in gioco di una prensione impressiva perchè si palesi il corpo quale medium ineludibile della presenza esperienziale, del tenersi in presenza di qualcosa rispetto alla mera imputazione d’esistenza9.
1.4. Il medium dal punto di vista di una sociosemiotica
La comunicazione è una condizione irremissibile degli individui, del loro darsi “di faccia” l’un l’altro. Essi sono innanzi tutto corpi significanti che cogestiscono profili identitari nel mentre ascrivono e monitorano reciprocamente tensioni modali e ruoli attanziali. In questo senso, i mezzi di comunicazione connettono profili identitari che non potrebbero cointerpretarsi disgiuntivamente (io/tu/egli, soggetto/oggetto, ecc.) se non attraverso i primi. I mezzi di comunicazione non irradiano informazione, ma una domanda identitaria che li trascende; tuttavia, i mezzi di comunicazione pongono alle poste di senso identitarie un’economia di scala, tramutando una dimensione estensiva e un carattere quantitativo in una dimensione intensiva e in un carattere qualitativo. La mediatizzazione è parte integrante dell’autopoiesi di una società e del modo con cui gestisce la significazione comunitariamente, provvedendo a rendere commensurabili le poste identitarie, e a dislocare opportunamente la malcerta tesaurizzazione e l’ineludibile reinterrogazione del senso.
Sono queste assunzioni di una teoria della società che a questo livello possono lasciare perplessi per la distanza e la mancata connessione con le questioni strettamente linguistico-semiotiche e rischiano di apparire sullo scenario semiotico in maniera surrettizia. In realtà è proprio il problema della medialità che può dar conto del continuismo tra questione linguistica e questione sociale. Torniamo con ciò al carattere sociale della lingua saussuriana, anche se certo non basta una convocazione della lingua agita per fare di quest’ultima la struttura della socialità, ossia per descriverne un accoppiamento.
Il linguaggio si palesa, in effetti, come una mediazione, quella che consente una relazione con un campo di valori il cui valere ha una fondazione distale nello spazio e/o nel tempo. Il linguaggio stesso è di per sé un medium, visto che indubbiamente esso struttura le operazioni di un sistema sociale consentendone l’accesso a un livello di riflessività.
Ma che relazione c’è tra medialità e semioticità, dato che sembrano dipendere l’una dall’altra? Non c’è medium senza una semiotizzazione del mondo, ma nel contempo il carattere specifico della semiosi antropica e del suo carattere sociale sembra passare per la medialità. Il problema della moltiplicazione delle prospettive di semantizzazione, e quindi la plurilivellarità di articolazioni E/C si pone come un tutt’uno con le poste socioidentitarie di soggetti e oggetti, proprio perché superiamo il carattere banale e inquestionato del il y a come qualcosa di semplicemente presente.
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Cfr. Rastier (1997; 2001; 2003).
Ecco tornare allora il problema di Eco (1975): non c’è medialità se non a fini di una significazione linguistica e nel contempo non ci sarebbe la seconda senza la possibilità di cogliere la possibilità di assumere qualcosa come medium. Non ci sarebbero entrambi i movimenti senza l’innesto e l’autoalimentarsi di una questione identitaria che si ripartisce tra soggetti e oggetti iscritti in una configurazione esperienziale narrativizzata. Tale ripartizione configura un’intersoggettività ineludibile perchè legata alla bilateralità del costituirsi di differenze individuanti e alla reciprocità delle ascrizioni identitarie, entro un quadro che non è affatto irenico, quanto invece costruito su un’asimmetria costitutiva di prospettive di semantizzazione, e quindi sul pregiudicamento costitutivo di valori comuni; un pregiudicamento che non smette di prodursi malgrado tali valori siano costrittivamente pensati accomunarci: la differenza identitaria è sempre relazionale, e quindi dipendente dall’altro. Solo che i media consentono di espandere lo scenario rispetto al quale le relazioni inter-identitarie si costituiscono; offrono un piano di interconnessione e di circolazione che rapporta la presenza con l’assenza, il prossimale con il distale, il certificabile con l’inquestionabile10. Soprattutto rispetto alla memoria incarnata del mondo fenomenico, alla memoria discorsiva dei testi, le identità sociali reclamano una tenuta nel tempo intersoggettivamente riconosciuta, ossia un passaggio per le istituzioni e i loro domini di afferimento (arte, scienza, religione, ecc.).
1.5. Mediazionale, mediale, mediumale, mediatico
In questa nostra investigazione introduttiva la mediazione è emersa dentro una mise en abyme di prospettive diversificate. C’è una mediazione fenomenica operata da attanti di controllo che modalizzano uno scenario esperienziale, una mediazione linguistica che consente la costruzione di scenari discorsivi e una mediazione offerta dai domini sociali che consentono la formulazione di specifici scenari istituzionali. In tutti e tre i casi la mediazione offre un regime specifico di circolazione di forme identitarie: a) un regime di figure incarnate; b) un regime di figure testuali; c) un regime di figure sociali. Ciò che solitamente viene chiamato media (dalla scrittura fino al multimedia) attraversa tutte e tre queste forme di mediazione: si accoppia a una riformulazione dello spazio-tempo di apprensione fenomenica del mondo, a una possibilizzazione di forme di espressione linguistica e di elaborazione della significazione, a una connessione comunicativa tra domini sociali e l’ambiente in cui dimorano.
Se ci occupiamo di media tecnologici, dobbiamo rilevare che essi:
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ri-mediatizzano lo scenario sensibile attraverso una modulazione specifica dello spazio-tempo e dell’aspettualizzazione attanziale;
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divengono un supporto specifico di espressioni linguistiche denunciando nel contempo le loro condizioni di possibilità;
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costruiscono specifiche apprensioni degli spazi sociali e condizioni di elaborazione inter-identitaria che non sarebbero possibili senza di essi.
A ben vedere, l’imbricazione tra medium e linguaggio spinge comunque a una loro forte distinzione, mentre nel caso del rapporto tra medium e ambiente fenomenico o tra medium e domini sociali il medium si rivela coalescente agli spazi che modula e riqualifica. Questo perché la questione mediale è sempre connessa all’assunzione di un’elaborazione di senso che ha come programma d’uso la delegazione di uno spazio fittivo di enunciazione discorsiva. Come vedremo, il medium è ciò che costringe la semiotica a riconnettere la testualità, a monte, con uno spazio di iscrizione fenomenico e, a valle, con una semiosfera quale ambiente verso cui le costruzioni discorsive vengono riproiettate al fine di ripassare dagli effetti di senso agli effetti di vita (ai vissuti di significazione). Per ora limitiamoci a distinguere:
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Il termine mediumale non è un nostro neologismo. Lo abbiamo tratto dai nostri studi di estetica (Basso 2002), e in particolare da un libro di Wilfried van Damme (1996), dove si sostiene che gli «oggetti di apprezzamento estetico sono, in un certo senso, a metà strada tra la formulazione di ideali a livello di elaborazione concettuale della cultura e l’implementazione prevista rispetto alla reale nozione di società» (ivi, 209). Per indicare questo livello di intermediazione, costituito ad esempio dall’oggetto artistico, Van Damme utilizza il neologismo (tratto da Karel Boullart) di mediumal. Il mediumale è tutto ciò che non solo è prodotto attraverso un certo medium o utilizza un certo canale di comunicazione, ma possiede anche un carattere interstiziale: ciò lo pone come analogo del concetto di liminale, spesso teso a indicare quel passaggio da uno stato all’altro che qualifica le pratiche rituali (ivi, 210). Il mediumale è ciò che media l’apertura di un terreno di gestione (talvolta di sperimentazione) di valori-guida, non limitandosi a operare su codici. È una ri-mediazione dello spazio sociale che diviene catalizzatrice di possibili riorientamenti valoriali (ivi, 304) o che consente comunque una auto-osservazione delle pratiche secondo una prospettiva che si pone come legittima.
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Jan Baetens (nell’articolo incluso in questo volume), riprendendo la teoria di Stanley Cavell, ha concettualizzato il mediatico come l’equilibrio tra tre dimensioni: a) il supporto; b) il tipo segnico; c) il contenuto implementato pubblicamente o più semplicemente il tipo di implementazione pubblica, secondo il nostro uso del lessico goodmaniano. Si veda per esempio Baetens (2006).
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la dimensione mediale della semiotizzazione; essa pertiene all’interposizione ubiqua di strutture-filtro che mediano l’apprensione di uno scenario inter-attanziale. Queste strutture-filtro possono agire sui modi di esistenza, sull’intensità e sull’estensione dei valori che individuano gli attanti; naturalmente, essendo questo filtraggio funzione anche del tempo, gli stessi ruoli attanziali possono essere aspettualizzati;
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la dimensione mediazionale della semiotizzazione: essa riguarda il filtro linguistico che consente una rielaborazione discorsiva dell’esperienza. I linguaggi mediano l’ideazione, ossia una sintassi organizzata di valori discorsivi atta a forgiare dei mondi possibili e una moltiplicazione degli accessi interpretativi;
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la dimensione mediumale11 della semiotizzazione; essa pertiene alla mediazione offerta da valenze regolative e operata dai domini sociali. Questi ultimi, infatti, garantiscono una stabilizzazione tentativa e una circolazione diffusa di valori identitari, cooptabili dagli attori sociali. La dislocazione periferica e mnesticamente remota delle poste fondative dei domini (istituzionalizzazione) converte l’impercettibilità degli scenari (spazialmente e temporalmente) distali in una chance di rinvio imperfettivo rispetto al controllo dei presupposti e dei principi su cui si regge il sociale. L’ordine delle motivazioni può ridursi a mera cooptazione di un quadro regolativo di selezioni semantiche in grado di coordinare le condotte. Per questo i domini possono schiacciare l’esercizio delle loro funzioni su una pura questione di organizzazione (torneremo nell’ultima paragrafo di questo articolo su tale questione);
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infine, per ciò che attiene strettamente ai mezzi di comunicazione utilizzeremo il termine di mediaticità. Il mediatico, come già detto, attraversa le dimensioni della semiotizzazione appena rilevate12 ed esalta la vocazione itinerante delle identità: esse circolano e anche tale circuitare non manca di essere a sua volta un paesaggio di senso da monitorare. I mass media non solo non tendono a esibire la sintassi figurativa della mediazione che opera, ma spesso la occultano, favorendo l’idea di una sorta di dematerializzazione della trasmissione. La conversione e la transduzione del segnale implicano l’irriducibilità dell’esperienza del segno (anche limitatamente al piano dell’espressione) a quella della sua produzione e della sua trasmissione. Inoltre, la distalità può divenire un carattere definitorio della medialità tecnologica malgrado l’assenza locale di un accesso percettivo alla sintassi figurativa. Questa invisibilità dell’aspetto microsintattico viene recuperato, almeno fino ad oggi, sul piano macrosintattico attraverso la presenza e l’ingombro dei dispositivi di ricezione (televisione, cellullare, computer, ecc.).
La mediatizzazione può essere colta come una tecnica che ricostruisce l’ambiente fenomenico in funzione di esigenze di sistematicità, ovvero in ragione delle esigenze dei sistemi sociali di comunicare (dentro di essi) e di cogliersi reciprocamente come fasci di informazioni costituenti un’alterità sistematica. Quest’ultima si pone sia come istanza concorrenziale (via prensione analogizzante) sia come parte integrante del proprio ambiente (via oggettivazione mereologica).
Metodologicamente risulta fondamentale non concepire la mediatizzazione come una pura tecnologizzazione del piano dell’espressione, visto che quest’ultima si definisce comunque correlativamente a un piano del contenuto. Non solo: nello spazio mediatico sono in gioco nuovamente assunzioni/delegazioni a livello esperienziale e a livello discorsivo.
1.6. La semiosfera come sistema o come ambiente?
Come forse il lettore avrà notato in precedenza, la nostra concezione della semiosfera non è sovrapponibile a quella di Lotman; nel semiologo russo la semiosfera è un «organismo», un «grande sistema» che possiede una propria «omogeneità e individualità», una «personalità semiotica» (Lotman 1985, p. 58-59). Per quanto ci riguarda intendiamo opporre cultura (o enciclopedia) a semiosfera, dove la seconda costituisce l’ambiente dove la prima viene agita. La cultura demarca i propri confini autoriferendosi, e quindi deve usare un patrimonio di segni per farlo. La cultura deve individuarsi rispetto a uno spazio di determinazione/indeterminazione che la include e che costituisce anche lo sfondo per l’apprensione significante dell’alterità. La semiosfera è colta dalla cultura nel mentre quest’ultima si ritrova preformata dalla prima. L’ambiente semiosferico è il correlato negativo delle pratiche culturali, ovvero quello spazio operativo/operabile, residualmente esterno ai giochi linguistici (si veda § 2.3.), entro cui esse situano la significatività di ogni presa di iniziativa. Il passaggio dagli effetti di senso discorsivi agli effetti di vita è dato dal fatto che la semiosfera esprime dei fattori di contingenza in rapporto alla loro circolazione e ricezione. L’indeterminatezza semantica è parte pregnante della semiosfera in rapporto all’esercizio delle pratiche culturali. L’antisistematicità della semiosfera risulta spesso non coercibile da parte dalle forme di organizzazione culturale, le quali devono rispondere all’indeterminatezza con escogitazioni contingenti. Lo scontro tra sollecitazioni contingenti e risposte tattiche ugualmente contingenti dà vita a una complessificazione del sistema culturale e a un allargamento dell’orizzonte semiosferico (cfr. Luhmann 1984).
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Se leggiamo uno dei passaggi più articolati dell’ultimo Lotman, possiamo riconoscere un accoppiamento tra sistema culturale ed ambiente: «In un certo senso ci si può rappresentare la cultura come una struttura, che, immersa in un mondo ad essa esterno, attira questo mondo in sé e lo espelle rielaborato (organizzato) secondo la struttura della propria lingua» (Lotman 1993, p. 168). Questa espulsione di un ambiente introiettato e rimodellizzato discorsivamente poteva dar luogo a una concettualizzazione della semiosfera come un ambiente semiotizzato che continuava ad esprimere un’indeterminazione costitutiva. Per contro, Lotman si affretta immediatamente a riportare l’argomentazione al confronto tra lingue o tra culture, mancando di cogliere il confronto con l’ambiente come un telos traduttivo che necessita ri-mediazioni. Ancora una volta non vi sono che testi eteroculturali che provocano “esplosioni”, ossia differenziazioni radicali rispetto a un quadro di opzioni tendenzialmente sinonimiche: «Tuttavia questo mondo esterno, che la cultura vede come caos, in realtà è anch’esso organizzato. La sua organizzazione si compie secondo leggi di una qualche lingua ignota alla cultura data. Nel momento in cui i testi di questa lingua esterna risultano introdotti nello spazio della cultura, avviene l’esplosione» (ivi).
La nozione di semiosfera in Lotman si avvicina piuttosto alla nostra nozione di dominio sociale, caratterizzato da una codificazione e da fasci di valorizzazioni modellizzanti la realtà. È altresì vero che Lotman riconosceva il problema dell’«ambiente esterno» alla semiosfera (Lotman 1985, p. 62), ma lo concepiva come il mondo extrasemiotico della realtà (ivi, p. 65). La contraddizione in Lotman è che si parte dall’identificazione tra semiosfera e sistema culturale13 (codificato, per quanto irregolare nelle prassi) per poi dare preminenza alla nozione di comunicazione (o di dialogo), vista come presupposto ineludibile per l’esistenza stessa dei linguaggi. Ma questo significa, appunto, che ogni entità culturale esiste solo perché in rapporto con il suo “fuori”, ossia con un ambiente che costringe a mediare la comunicazione. Per contro Lotman pensa la semantica degli oggetti culturali come dipendente da una macrocornice culturale che li rende leggibili: non c’è che autocomunicazione tra parti della semiosfera, o tra semiosfere inglobate/inglobanti, tant’è che il semiologo russo si domandava se «l’universo non fosse forse un messaggio che fa parte di una semiosfera ancora più ampia e se esso possa essere soggetto ad una lettura» (ivi, 70). La saturazione del contesto (o del cotesto) renderebbe disambiguabile definitivamente qualsiasi comunicazione specchiata nel vasto macrocorpus di un universo culturale. E non basta depotenziare questa “tesi forte” con l’idea di una contraddizione interna della cultura, visto che essa è strutturalmente fatta di aspetti in tensione tra loro (per esempio, doxastici e paradoxastici). È necessario – per quanto ci riguarda – cogliere la cultura come un organismo (se si accetta la metafora lotmaniana) che si trova di fronte a tali turbolenze ambientali da richiedergli continuamente nuovi equilibri (metastabilità identitaria).
La semiotizzazione del mondo-ambiente – come abbiamo visto – si avvale di diverse forme di mediazione, le quali decidono di specifiche valenze, ossia di peculiari regimi di valorizzazione. Ciò ha due conseguenze:
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la prima è che non si può ridurre la semiotizzazione alla mediazione linguistica, tanto meno se la si riduce a quella operata dal linguaggio verbale;
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non si può far coincidere i regimi di valorizzazione e la semiotizzazione radicale del mondo-ambiente con il divenire dei valori che caratterizza quest’ultimo. Esso continua ad esprimere dei fattori di contingenza rispetto ai sistemi che lo osservano; per questo esso non può essere ridotto né alle possibilità strutturali dei giochi linguistici che lo modellizzano, né a costrutto discorsivo.
La semiosfera è data da un’ecologia della valorizzazione dove è fondamentale tanto il perno della semiotizzazione, tanto quello della contingenza ambientale. Non si può che partire dall’immanenza di un accoppiamento ineludibile tra corpo e mondo-ambiente per vedere come la significatività delle situazioni è data da una dialettica tra il decidibile e l’incoercibile, per quanto entrambi siano omogeneizzati, resi commensurabili da un regime di valorizzazioni antropiche. In ogni caso, non c’è nessuna ontologia da recuperare, se non negativa: ogni costituzione di senso non è priva di un gradiente di cogenza rispetto all’accoppiamento. Per il resto, a regime, non si danno che valenze frutto di mediazioni di mediazioni, valenze regolative, che portano a una riobiettivazione delle condizioni di esistenza delle identità soggettali e oggettali. L’elaborazione culturale non può essere identificata con la vita sociale, la quale deve rispondere alle contingenze interazionali. La presa di posizione di una semiotica moderna contro un paradigma del codice non può non avere come controeffetto l’irriducibilità dell’agire sociale a forme di grammaticalizzazione e a stratificazione memoriale di testi. Libertà ed evento portano la semantica sociale al di là dei gettiti di significazione prevista lungo le prassi.
Si è talvolta sostenuto che la semiosfera è costruita come un frattale tanto che tra le parti e il tutto vi sarebbe autosimilarità. Ora, macro e microsociologia hanno ben rilevato come alle diverse dimensioni corrispondano differenti giurisdizioni del senso, e come tra i domini sociali vi siano sempre degli interstizi considerati istituzionalmente trascurabili dall’osservatore sociale, ma forieri di esercizi di libertà da parte dei singoli (cfr. Moles & Rohmer 1977-84).
Alle traduzioni tra cartografie linguistiche dell’esperienza bisogna aggiungere livelli di mediazione che consentono regimi specifici di valorizzazione e di circolazione di figure identitarie. L’intermedialità va al di là della traduzione dell’intraducibile tra sistemi culturali; offre condizioni di apprensione, circolazione e socializzazione dei valori (a cominciare da quelli strettamente linguistici). Non si cercano solo equivalenze tra porzioni di capitale culturale eterogeneo, ma condizioni di ri-mediazione dell’ambiente abitato da un’alterità che continua a penetrare la nostra stessa definizione identitaria e il nostro asimmetrico destino.
- Note de bas de page 14 :
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Cfr. Luhmann (1991); Landowski (2006).
Ogni semiosfera nasce da una imbricazione specifica tra semiotizzazione e indeterminazione tale per cui l’accidentalità è parte integrante degli scenari del senso14. Di fronte alla possibilità teorica di concepire la semiosfera stessa come un sistema, non vale solo l’obiezione che ciò varrebbe solo come rinvio ulteriore di inclusività (tale sistema a sua volta si determinerà in rapporto a ciò che coglierà come ambiente). Infatti, la semiosfera è il rinvio limite di una cultura rispetto alla sua determinabilità, lo spazio entro cui le figure identitarie non possono essere ulteriormente rinviate. La semiosfera è lo spazio che ingloba la tensione più vasta tra struttura e indeterminazione e che inquadra il rapporto tra le forme di vita e un orizzonte di senso.
2. Dalla semiotica dello spazio alla semiosfera
2.1. Dal senso dato al senso interpretato: il ruolo del medium in Peirce
Vogliamo ora approfondire lo specifico regime di significazione che viene realizzato attraverso quella che abbiamo chiamato mediumalità. Essa sembra mettere in gioco un mondo terzo, che non è quello dell’esperienza sensibile, né quello discorsivo della testualità: è un paesaggio istituzionale di valenze regolative, dove l’architettura dei giochi linguistici è implementata in uno spazio di vita, e costruisce una dialettica tra elaborazione culturale e emergenza di uno spazio sociale che, per quanto poggi sulla prima, non vi si riduce.
Un interrogativo di Charles Sanders Peirce può aprire con massima radicalità la nostra nuova indagine:
All my notions are too narrow. Instead of sign ought I not say Medium?
- Note de bas de page 15 :
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Cit. in Parmentier (1994, p. 23). La frase peirciana era diventata anche il motto del convegno “Semiotics of the Media”, tenutosi a Kassel, Germania, dal 20 al 23 Marzo 1995.
(Peirce 1906, MS 33915).
- Note de bas de page 16 :
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Cfr. Basso (2006d).
Potremmo forse ritenere che le problematiche mediali non fossero affatto preminenti all’epoca in cui scriveva Peirce. Ed invece, affrontando i suoi scritti, si può notare come la categoria cenopitagorica in grado di filtrare tutta la conoscenza attiva del mondo, ovvero la Terzità, possa essere identificata con una problematica che oggi definiremo mediale. La generalizzazione teorica della terzità non si spinge affatto verso una sua identificazione tout court con la convenzione, almeno se si tiene conto della conversione fenomenologica, faneroscopica della trattazione peirciana alla fine degli anni Settanta dell’Ottocento16. Le categorie cenopitagoriche finiscono per essere ciò che sottende l’elaborazione dei vissuti di significazione esperienziale. La terzità diviene allora la mediazione che è propria di ciascuna esperienza relazionale; la secondità tratta ogni relazione come un’evenemenzialità; la primità esemplifica ogni relazione come una forma diagrammatica, come una rete di connessioni possibili.
Primità, Secondità e Terzità sono degli statuti valoriali, delle valenze generali che attraversano ciascuna costituzione locale di segni (C.P. 1.23-1.26). Esse non pertengono affatto alla sola dimensione cognitiva, e vengono qualificate anche come toni, timbri, colorazioni affettive che sottendono le concezioni (C.P. 1.353), e in generale tutti gli abiti (C.P. 7.498). Le categorie cenopitagoriche non sono funzione di una valutazione epistemica, ma per contro la strutturano in ragione della Possibilità, dell’Attualità, e della Destinalità (C.P. 4.549).
Come vedremo nel corso della trattazione, la mediazione ha sempre a che fare con un trattamento della destinalità, con il modo con cui un sistema cerca di organizzare la propria relazione con l’ambiente calmierando i fattori di contingenza che quest’ultimo esprime. La sua valorizzazione è sottoposta a un arco temporale oltre il quale essa si dissipa.
Ma andiamo per gradi. In Peirce, tra un attante agente (per esempio una forza che in quanto Primità possibilizza una forma di relazione) e un attante paziente (per esempio, un corpo che si ritrova a opporre resistenza) vi è sempre un attante terzo, un mediatore (CP 1.328): «Thirdness, in the sense of the category, is the same as mediation».
Peirce afferma dunque che la Terzità è quel carattere, quella valenza che un oggetto assume nel momento in cui svolge l’officio di un attante mediatore, nel momento in cui svolge il ruolo di spazio interstiziale (Betweeness), funge per esempio, ma è solo un esempio, da quadro di rappresentazione di una relazione tra un agente e un paziente, tra un Primo e un Secondo (CP 5.104).
Come abbiamo sottolineato, una tale mediazione offerta dal Terzo è dell’ordine della Destinalità, vale a dire essa pone l’effettuale (il realizzato) già nella prospettiva di una serie di risultati per qualcuno. La Terzità filtra l’evenire imponendo un arco di valorizzazione temporalizzato ; una memoria che non è più solo dei sistemi, dei corpi entrati in relazione, ma anche delle relazioni di essi con l’ambiente. La terzità imbrica le costituzioni identitarie degli interattanti imponendo loro un comune scenario di trasformazioni orientate e nel contempo una « testura » del divenire che non è a loro propria (C.P. 5.395) : è infatti la testura del filtro mediatore.
La mediazione è nello stesso tempo ciò che permette una trasmutazione continua di valenze e una commensurabilità tra valori.
Peirce, che come sappiamo amava i neologismi, afferma che si tratta di passare dalla significazione delle identità dei relata alla significazione mediazionale, si tratta di passare dal senso al medisense (CP 7.544) : il medisense è per esempio dato dall’apprensione astrattiva delle proprietà identitarie di qualcosa non solo in rapporto a qualcos’altro ma anche in rapporto a un quadro di valenze mediazionali. La mediazione è nello stesso tempo ciò che permette:
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una trasmutazione continua delle valenze identitarie al variare delle condizioni di apprensione e
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una commensurabilità pertinenziale tra valori.
Il medisense è quello che ci sottrae dalla mera possibilizzazione di occorrenze (primità, primisense) e dal semplice evenire del presente come concatenazione parattatica di esperienze di alterità (i confronti interattanziali della secondità, o altersense). Il medisense è la conquista interpretativa, la moltiplicazione congiunturale degli accessi al senso; essa passa attraverso la proiezione di scenari figurativi che ri-mediano costantemente le identità dei termini in gioco. Per questo rientrano nel medisense anche le associazioni, i lavorii figurali, tutta la retorica della conoscenza che traspone abduttivamente forme di relazione. La cultura nasce sulla base del medisense, sulla base del quale gli enti divengono oggetti e soggetti dotati di uno statuto trasponibile (rema), di una configurazione pluricostituibile (dicisegno), di una sintassi posizionale retoricamente manipolabile (argomento).
Tutte le conoscenze (nient’affatto stratificazione e archiviazione di informazioni) sono coniugate al futuro in attesa di mediazioni (di medisensi) ulteriori e ogni futuro è costruito e filtrato da pezzi del passato. La cultura – termine a cui Peirce non è affatto affezionato – non è che una grammatica di rimediazioni identitarie che ha come quadro operativo l’aggancio di un’archeologia del possibile (indiziarietà) con una destinalità delle valorizzazioni.
But it is true that the future does not influence the present in the direct, dualistic, way in which the past influences the present. A machinery, a medium, is required (CP 2.86).
Questo medium può essere in primo luogo una macchina discorsiva che va ad operare sulla Primità e sulla Secondità, affinché dalle qualità originarie e dalle interazioni evenemenziali si passi a un quadro di senso, e da questo quadro verso altri quadri. Nei termini suggestivi di Peirce la mediazione è transuasion dove il termine volutamente suggerisce una familiarità semantica con translation, transaction, transfusion, trascendenza ; tale transuazione opera sull’ « obsistence » (termine che evoca oggetto ostinato, ostacolo, insistenza, resistenza) nonché sull’originalità delle relazioni diagrammatiche in atto in un campo di lavoro, in un terreno di gioco linguistico per esempio di ordine rappresentazionale (CP 2.89). La transuazione è allora il processo di mediazione che interrela identità e traduce un quadro di relazioni evenemenziali in un Universo di discorso (C.P. 4.172). L’universo di discorso è il terreno elettivo del musement, visto che grazie ad esso riusciamo a trasbordare uno scenario figurativo verso un altro, riusciamo cioè a lavorare retoricamente (figuralmente) il senso, visto che ogni paesaggio da cui esso emerge non è autosufficiente. La conquista del distale non è che funzione necessaria alla conoscenza agita, la quale necessita costantemente di proiezioni, dal momento che ogni costrutto di senso, ogni piano di significazione non è in grado di autofondarsi. La mediazione offerta dall’argomentazione figurale propria di ogni cultura non solo costruisce connessioni, ma significa e gestisce anche la stessa distanza tra scenari che essa mette in comunicazione.
2.2. Semiotica dello spazio tra esperienza, discorso e semiosfera
Soddisfatti di questa piccola perlustrazione del pensiero peirciano potremmo concludere che il medium principe sono i linguaggi che permettono di costruire degli universi discorsivi.
Sarebbe una conclusione affrettata, dato che quando Peirce illustra teoricamente la terzità in quanto mediazione, sceglie delle esemplificazioni spaziali. La continuità ubiqua della mediazione è quella esemplificata allora dalla traslazione di un corpo nello spazio. La mediazione è innanzi tutto Betweenness.
Pensare che la mediazione sia infine realizzata linguisticamente, attraverso una discorsivizzazione dell’esperienza, sarebbe una risposta alla prima domanda che abbiamo fatto risuonare, ma non meno ne ribalterebbe la prospettiva : Peirce si domandava : «All my notions are too narrow. Instead of sign ought I not say Medium?» (Peirce, MS 339). La risposta sarebbe allora: non era sbagliata la centralità che assegnava al segno perché ogni mediazione è segnica e anzi, rafforzando la tesi, essa è propria del segno linguistico.
Il testualismo avrebbe così vinto la partita, sostenendo che tutte le identità culturali sono riducibili alla loro costruzione discorsiva attestata. La semiotica della cultura non sarebbe che una macrosemiotica del testo, o dei corpus. Ma le cose non sono affatto così semplici. E la domanda di Peirce continua a rivelarsi, a ben vedere, nient’affatto peregrina.
Cerchiamo ora di sistematizzare le nostre osservazioni, prendendo in considerazione la mediazione per come essa si situa all’interno di esperienze gettate e di rielaborazioni discorsive di esse. Partiamo da una semiotica dell’esperienza dove la mediazione è quella di un corpo che – come voleva Peirce – attraversa uno spazio.
Come abbiamo visto, per una semiotica del corpo che non voglia essere semplicemente una discorsivizzazione dell’esperienza gettata, quanto piuttosto una descrizione dei processi di significazione percettiva, il medium è un attante di controllo che permette la circolazione e l’apprensione di una relazione interattanziale, restituendone la diagrammaticità attraverso una modulazione dipendente dalle sue strutture-filtro. Lo spazio è l’elemento principe di una mediatizzazione; anzi, una semiotica generale dello spazio è una semiotica della mediatizzazione dell’apprensione di qualsiasi valore: una terzità posizionale di qualsiasi esperienza.
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Basso (2006b).
Per illustrare le questioni qui sollevate ci dobbiamo servire di uno schema che abbiamo già illustrato in un articolo pubblicato sul secondo numero della rivista Visible17. Qui lo assumiamo fondamentalmente come una piccola geografia delle nostre argomentazioni.
Questo schema illustra degli archi enantiomorfi quali processi di significazione che radicano diversamente le valenze; da una parte (sopra) abbiamo dei vissuti di significazione dipendenti dalla relazione sensibile con il mondo (le valenze hanno un radicamento esterocettivo, anche se esse reggono delle articolazioni tra significanti e significati e dei valori che comportano già un’imbricazione di sensibile e intelligibile). Nella parte sottostante abbiamo dei processi di significazione a radicamento discorsivo (le valenze hanno un radicamento interocettivo). Il continuo passaggio dell’interpretazione narrativa da un campo di imputazione all’altro indica una gestione delle valenze del tutto sottratta a un mero inferenzialismo (è il musement peirciano). L’enantiomorfismo tra la parte superiore e la parte inferiore dello schema indica come il ritmo della semantizzazione si esplichi sempre in una pulsazione tra reimmersione affettiva del progettato (DAD→ADA) e iniziativa di rimodellizzazione del sentire (ADA→DAD).
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Cfr. Basso (2004).
Nello schema è poi evidenziabile il ruolo giocato dalle forme di mediazione. Sul piano dell’esperienza percettiva il medium è ciò che ne consente un’attanzializzazione, ossia il quadro minimo di imputazioni di ruoli e carichi modali rispetto a uno scenario di valori in trasformazione. Tale mediazione si sdoppia in un passaggio in entrata (assunzione), ove il medium è uno spazio che filtra l’apprensione di forme, e un passaggio in uscita (delegazione) dove il medium diviene il supporto di un piano d’esistenza dell’identità attoriali. Queste ultime dipendono infatti da un’elaborazione mediata dal fittivo ed operata in virtù della temporalizzazione (ritenzione e protensione) dell’esperienza. Il medium introduce la dimensione fittiva per via del fatto che esso problematizza i modi di esistenza dei valori e costruisce delle articolazioni semiotiche biplanari18 (l’organizzazione in atto del piano dell’espressione è autonoma rispetto all’organizzazione delle pregnanze sul piano dei contenuti esperienziali temporalizzati).
Sul piano del discorso, il medium è ciò che supporta l’implementazione economica di un linguaggio e che può essere assunto, in seconda battuta, come spazio discorsivo che mappa e inquadra le mosse enunciazionali. Tutto ciò che è elaborato in esperienza viene assunto per trovare investimento in uno spazio discorsivo e viceversa.
L’asimmetrizzazione dei fronti interattanziali (soggettale/oggettale), costruita dall’iniziativa enunciazionale, si fonda sulla tensione tra assunzioni - che articolano valenze sulla base di paesaggi di forme costituibili - e delegazioni - che costruiscono, sulla base della fungibilità dei materiali esperibili, dei mondi enunciati fittivi. In definitiva, non esistono che concatenazioni di assunzioni, delegazioni e ri-assunzioni.
Facciamo due esempi per comprendere una sintassi sul piano dei vissuti di significazione percettiva e una sintassi sul piano della discorsivizzazione e rifigurazione dell’esperienza. Da una parte prendiamo il bastoncino di legno immerso nell’acqua di Austin (1961), dall’altra l’esempio dei bambini che giocano nel bosco facendo diventare dei tronchi d’albero tagliati alla radice (ceppi) dei troni.
Nel caso del bastone immerso in acqua, la sintassi esperienziale ha già stabilizzato un orizzonte figurativo inter-attanziale, e l’improvvisa torsione dei tratti attoriali del bastone allo scendere in acqua (pare piegarsi) viene narcotizzata epistemicamente, il che tende a inflazionare la focalizzazione attenzionale sulla eventuale instabilità figurativa della parte immersa. Dunque, se di primo acchito dobbiamo assumere il percetto inemendabile “bastone piegato”, la situazione percettiva diviene il terreno delegato all’imputazione di un modo di esistenza “retto” del bastone, e infine non resta che assumere questa persistenza del carattere retto del bastone come regolativa della nostra interazione con l’ambiente.
Nel caso dei ceppi, abbiamo un gruppo di bambini che usano un comune ricordo testuale, vale a dire delle fiabe dove si racconta di un re e di cavaliere a cui viene ordinato di riportare in patria la principessa rapita. I bambini, per teatralizzare e rappresentare le vicende della fiaba, possono pure disegnare con un bastoncino sul terreno sabbioso lo spazio scenico. Infine, assumono degli elementi del bosco come supporti (props) di un loro gioco a sfondo rituale dove vengono messe in scena delle relazioni gerarchiche tra di loro. Ecco che un ceppo viene colto come un “trono”, un bastone come una spada, un ramo sospeso come un cavallo, e così via.
La scoperta della dimensione del fittivo, la costituzione di una significazione biplanare, la moltiplicazione degli accessi al senso che ne deriva sono ciò che nel vissuto esperienziale consente di preparare la strada per la costruzione di territori puramente discorsivi.
Nel primo caso (bastone immerso nell’acqua), abbiamo una concatenazione mereologica di medium (lo spazio-ambiente, l’aria, quindi l’acqua, ecc.). Nel secondo caso lo spazio del bosco subisce una partizione, una ripertinentizzazione fino ad assumere le vesti di un terreno di gioco linguistico. Nel primo caso il soggetto deve autoascriversi (assumere) lo spazio come terreno esperienziale ineludibile. Nel secondo caso si parte con una delegazione; i tronchi di legno tagliati (i ceppi) divengono dei delegati, dei simulacri discorsivi che devono essere ri-assunti nella veste di troni da parte dei ragazzini. La semiotica ci ha insegnato a distinguere il piano fenomenologico dal piano linguistico. Le figure dell’espressione linguistica devono essere distinte dai valori sensibili costruiti percettivamente: questa era la preoccupazione di Greimas nel suo saggio sulla Semiotica del mondo naturale.
Eppure, una volta entrati in uno spazio discorsivo che si emancipa dalla semiotica percettiva (diviene terreno di gioco) e media la circolazione delle figure identitarie in modo del tutto specifico, ecco che questi valori in discorso vengono proiettati ancora una volta nel mondo-ambiente come dei delegati che operano una rimodellizzazione regolativa del percepibile. Il teatro del discorso si offre come un quadro di rifigurazione del teatro sensibile. Questa riproiezione inesausta da un dominio all’altro della significazione (vissuti di significazione/effetti di senso discorsivi) comporta una gestione di valenze eteronome: l’elaborazione di un continuismo, di una capacità di ereditare e rendere commensurabili delle valenze che presidiano domini diversi è ciò che chiamiamo narratività. Solo che la narrativizzazione dell’esperienza passa dal dominio discorsivo e torna a radicarsi in valenze direttamente esperite lungo le pratiche che comportano una presa di iniziativa direttamente incarnata. Per esempio, basta un programma cognitivo come quello della decisione per attualizzare, per risonanza paradigmatica, il proprio sostituto incarnato, ossia l’emozione. O basta pensare che appunto la decisione deve poi risolversi in una presa di iniziativa nel mondo-ambiente che attornia il soggetto.
2.3. La ri-mediazione: verso la semiosfera
Dobbiamo tuttavia a questo punto essere più precisi, non accontentarci del filo rosso tessuto dalla narratività rispetto alla significazione. C’è qualcosa che riguarda il medium e più in generale la comunicazione che deve essere preso in considerazione. Quando dal discorso si ritorna verso l’esperienza in atto, quando si proiettano valenze tra questi due domini si ripassa una frontiera di mediazioni eteronome. Questa rimediazione ha qualcosa di specifico che dobbiamo ora sondare. Il piano discorsivo è quello che facilita e specifica un’osservazione di secondo ordine, ovvero consente di operare osservazioni di osservazioni dentro un sistema auto-organizzato che impone e traspone dei parametri di valutazione, potenzialmente indipendenti dal radicamento in esperienza: è ciò che dispiega i mondi possibili. Ciò che è operativo e ciò che è operabile, il decisivo e il decidibile conquistano una dimensione puramente fittiva, simulacrale. Qui la possibilizzazione delle variabili è autogena rispetto al sistema che prefigura e rifigura il teatro del discorso. Ma cosa succede quando un sistema organizzato discorsivamente riaffronta il teatro dei vissuti rifacendosi mediare dal mondo-ambiente? Cosa accade lungo il passaggio dalla mediazione di un mondo di carta a quella del mondo-ambiente? Innanzi tutto quest’ultimo, a regime, diviene già un mondo di mediazioni. Assistiamo alla ri-obiettivazione di una società di oggetti e di soggetti. Solo che questo mondo-ambiente rifigurato, questa semiosfera esprime fattori di contingenza che rendono la comunicazione del sé progettato in discorso un campo di indeterminazione, e ciò ben al di là della semplice problematica del canale (disturbato) o del codice (non sufficientemente condiviso dagli interlocutori). La prospettiva della comunicazione che rimediatizza la significazione discorsiva non può accontentarsi degli effetti di soggettività costruiti nel discorso. Ci indica l’irriducibilità del senso gestito lungo le pratiche al senso elaborato in discorso. Se nessuno può mettere in dubbio la mediazione dei linguaggi nel rifigurare uno scenario inter-attanziale (si pensi al ruolo dei pronomi) e nel supportare un’osservazione di secondo ordine, non meno si deve riconoscere che una cosa è definire dei quadri identitari intradiscorsivamente, un’altra doverli elaborare in situazione. Rispetto alle valenze esterocettive di una significazione percettiva, e a quelle interocettive di una significazione discorsiva, non basta il corpo, la propriocettività, a mediarle e ad omogeneizzarle: in realtà, il corpo interviene immediatamente nella stessa costituzione di articolazioni semiotiche e nei passaggi tra assunzione e delegazione (i sistemi protesici ce lo evidenziano). Cosa succede invece quando dal dominio discorsivo ri-affrontiamo la mediazione di un mondo-ambiente che nel frattempo è già divenuto una semiosfera? Che le valenze assumono una omogeneizzazione regolativa, una possibilizzazione autoriflessiva e una spendibilità intersoggettivamente negoziabile. Esse divengono valenze mediumali (cfr. § 1.5.) che risolvono un bilinguismo costitutivo: fenomenico e discorsivo, estesico ed etico. Le valenze mediazionali hanno una natura ibrida, sono rinaturalizzazione del discorsivo, amalgama tra il saliente e il pregnante, tra il concreto e fittivo: è il regno del medisense (cfr. § 2.1.), ossia della semiosfera. Dato che dovremmo parlare di rinaturalizzazione della cultura, se identifichiamo cultura con la memoria testuale, ecco che la semiosfera non coincide con essa. La semiosfera è casomai una cultura agita e agente che non trova una descrizione opportuna fintantoché non passa attraverso l’asimmetrizzazione destinale delle identità; tale asimmetrizzazione è ciò che spinge la cultura verso forme tentative di equilibrio, un equilibrio metastabile che chiamiamo società. Proprio la simulacralizzazione discorsiva e l’osservazione di secondo ordine, proiettata nel campo prassico, svela come le identità si ritrovano in condizioni asimmetriche (rispetto ai valori) e come tali asimmetrie possano risolversi attraverso aggregazioni/disaggregazioni associative di fronte alle contingenze dell’ambiente. Nella semiosfera natura e cultura si ritrovano comunemente mediate e suscettibili di forme di imbricazione o di opposizioni diverse (in ogni caso trovano commensurabilità). La riflessione di Descola in Par-delà nature et culture trova qui la sua motivazione: ogni semiosfera ammette intersezioni specifiche tra questi due macroafferimenti valoriali.
- Note de bas de page 19 :
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Stanghellini (1997, p. 64).
Se si dà un ambiente intersoggettivo dove operare una dialettica del tipo in group/out group, parimenti vi è un ambiente intrasoggettivo dove l’uomo prova la non coincidenza con sé stesso19. È l’ambiente delle pulsioni, ma anche dei simulacri introiettati, i quali interrogano il sé circa la loro assunzione o meno: l’io è fatto d’alterità.
La semiosfera è esattamente ciò che descrive la mediazione radicale dove le identità trovano un equilibrio metastabile pur avendo una circolazione introversa (psiche) e una circolazione estroversa (scenari sociali). La semiosfera indica come il piano di intermediazione semiotica consenta un superamento dei confini “socio” e di quelli “psico”, innervandoli entrambi, senza che essi siano riducibili a testualità, a simulacri in raffronto.
È questo che una sociosemiotica deve intraprendere: studiare ciò che connette una forma di vita alla semiosfera. È questo l’anello descrittivo che più di ogni altro risulta mancante nel progetto semiotico attuale.
- Note de bas de page 20 :
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Cfr. Basso (2007a).
Un esempio dell’omogeneizzazione operata dalla semiosfera tra sistema psichico e sistema sociale è quello della vertigine; essa concerne una metastabilità identitaria tra sé e ciò che abita l’ambiente: ecco per esempio che può svanire la distintitivà di un sistema che opera distinzioni (vertigine fusionale), ecco che l’ambiente improvvisamente pare risucchiare tutte le competenze (vertigine d’aspirazione), oppure crolla la fiducia nelle relazioni interattanziali (vertigine d’abbandono), o infine l’ambiente diviene nella sua globalità una protesi del soggetto (vertigine d’espansione). Tutte queste forme di sindromi vertiginose hanno eziologie patogenetiche e psicogenetiche, potendo tramutarsi le une nelle altre; per esempio, rimossa l’eziologia di una sindrome patogenetica la vertigine può convertirsi e persistere sotto forma psicogenetica20.
Al di là della distinzione tra spazio esperienziale e spazio fittivo dei giochi linguistici, dei domini d’esperienza e d’esistenza, lo spazio vissuto, implicato nell’omogeneizzazione semiotica tipica del musement, registra quella che Eugène Minkowski (1933, p. 373) chiamava l’« ampiezza della vita », ossia la semiosfera di valori operabili e operativi (così definibili in ragione della doppia dipendenza delle determinazioni semantiche, e quindi in virtù tanto della loro trasformazione, quanto del loro potenziale trasformazionale). Ora, la messa in opera dello spazio significante ha bisogno di una distanza critica e di una riserva valoriale. L’operabile ha bisogno dello sfondo del non operato, nonché della fluttuazione di determinazioni offerta dal caso, per darsi come quadro di creatività degli interventi. Parallelamente, l’operativo è tale solo se ha come sfondo tanto l’inattivo quanto delle determinazioni accidentali, cosa che gli consente di offrirsi come orizzonte pratico vigente.
Se lo spazio, in quanto riserva distributiva di iniziative, si satura di istanze operative, l’attante-osservatore percepisce un’asimmetria modale insostenibile: lo spazio diviene unilaterale manipolatore che dissolve l’operabile. Se lo spazio, in quanto distanza critica, collassa divenendo un’immensa protesi per il soggetto, costui manca di un orizzonte operativo saliente che renda pregnante il suo intervento. La semiosfera è allora un ambiente semiotizzato di valenze mediazionali dove si ha a) un’asimmetrizzazione nell’iniziativa, b) una tensione tra zone di mobilitazione e zone di giacenza di valori, c) un’aspettualizzazione prossimale/distale delle relazioni inter-identitarie.
- Note de bas de page 21 :
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Cfr. Varela, Rosch, Thompson (1991); Luhmann (2000, p. 25).
- Note de bas de page 22 :
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«Tutti i media sono metafore attive in quanto hanno il potere di tradurre l’esperienza in forme nuove. La parola parlata è stata la prima tecnologia grazie alla quale l’uomo ha potuto lasciare andare il suo ambiente per afferrarlo in modo nuovo» (McLuhan 1964, p. 67).
Una semiosfera non è vertiginosa per il soggetto fintantoché rimane un certo equilibrio tra fattori operativi e fattori mediazionali operabili. Dobbiamo chiarirci che ne è di questa dialettica sotto l’egida della mediazione. Qui si apre un compito descrittivo enorme, di cui si possono solo dare delle prove, dei saggi necessariamente parziali. Per il momento sottolineiamo, invece, come non debba apparire affatto anomalo il nostro tentativo di caratterizzare la semiosfera partendo da rilievi percettivi. Ci troviamo di fronte a una sintassi di accoppiamenti (mondo dell’esperienza, mondo possibile discorsivo, semiosfera) che ereditano l’uno dall’altro l’enazione, ossia quella che possiamo riformulare come una coimplicazione tra percezione e azione, tra ecologia percettiva e presa di iniziativa, tra determinazione delle pregnanze e elezione di punti singolari a partire dai quali tentare una trasformazione orientata del paesaggio di valori disponibili/indisponibili, operativi/operabili, decisivi/decidibili. Ciò che si dà come ambiente è coglibile solo all’interno di un accoppiamento enagito21, dove la doppia dipendenza delle relazioni è un regime non solo di eventi, ma anche di prefigurazioni e di possibili riconfigurazioni. La semioticità della semiosfera è fatta non solo di figure identitarie determinate (enciclopedia culturale), ma anche di un paesaggio ulteriormente testabile e valevole ancorché non ancora determinabile. Soprattutto ogni accoppiamento enagito con la semiosfera passa attraverso un livello e una forma specifica di mediazione22.
3. Semiosfera, domini e politica dell’organizzazione
3.1. L’identità alla luce di una sociosemiotica
Innanzi tutto dobbiamo riesaminare in questo quadro il tripode identitario di Ricoeur, rivisto in Fontanille (2004).
- Note de bas de page 23 :
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Sull’opposizione identità numerica vs identità specifica si veda Prieto (1991, pp. 23-47).
Questa dialettica tra un me che ci si deve autoascrivere e un sé che si deve progettare (ipse) a partire dalla stratificazione di ciò che è riuscito ad essere nel tempo (idem) subisce una trasposizione dal dominio dell’esperienza in atto a quello del gioco linguistico. La carne del me diviene un sistema di precondizioni e di essa si dà solo un’archeologia, una presenza mediata simulacralmente in discorso. Il nuovo ribattimento dal discorso verso l’esperienza in atto, il nuovo passaggio attraverso una frontiera mediale finisce per costruire un nuovo assetto dell’ecologia delle valorizzazioni: nasce una mediazione radicale che filtra anche le identità a tal punto che il me ab quo può divenire un puro punto di fuga. Il me nella semiosfera si manifesta tutt’al più in quanto gusto, che testimonia non solo di un accoppiamento tra soggetto e oggetto (tra gusto esercitato dal percipiente e gusto posseduto dal percepito), ma anche di una aisthesis sociale. Si costruisce una dialettica tra un me inescambiabile (identità numerica: detengo questo corpo) e un me sintonizzato con una rispondenza socializzata alle sollecitazioni estetiche (identità specifica23 inesclusiva).
- Note de bas de page 24 :
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Simondon 1964, p. 32.
L’identità stessa è mediata, ossia essa è il frutto di una mediazione costitutiva. La psiche stessa non è che un teatro di individuazione24 che ha un suo ambiente, un campo di fattori contingenti incontrollati. Il vivente è un sistema di individuazioni che individua individuandosi. In questo senso egli è un propulsore di mediazioni, un declinatore di una visione mediale dove l’emancipazione del fittivo (ossia l’elaborazione discorsiva) si amalgama con l’immersione esperienziale.
Il soggetto si individua in identità privatizzate o collettive, in un fascio di individuazioni per transuazione che ristrutturano le sue valorizzazioni sotto l’egida di categorie partecipative.
Il vivente esiste secondo il divenire, che opera una mediazione. Il vivente è attore e teatro di individuazione, o piuttosto una sequenza di accessi di individuazione che procedono di metastabilità in metastabilità (Simondon 1964, p. 34).
Egli è quindi un moltiplicatore di accessi al senso dell’alterità e dell’identità: un soggetto interpretativo. L’individuo stesso è un medio tra struttura vivente e ambiente: è un’identità metastabile che si individua rendendosi partecipe di altre individualità.
Il sé idem diviene un sé mediato, stratificato sotto varie cornici istituzionali tra loro gerarchizzate; il sé idem, con il suo ancoraggio a forme di riconoscimento, di legittimazione e moralizzazione, garantisce un’inerzia strutturale al self dell’attore sociale.
Il sé ipse invece appiattisce il multiprospettivismo del sé idem dovendo giocare la carta della personalità, della gestione e rielaborazione locale delle sfaccettature identitarie. Alle valorizzazioni istituzionalizzate può affiancare una vocazione esploratrice, dato che deve garantirsi una tenuta identitaria e un’opportuna plasticità alle turbolenze contingenti.
Ma il fatto è che questi sé progettati non valgono più per qualcuno pregiudizialmente; si offrono, circolano, sono immessi in un circuito di comunicazione dove le valenze mediate possono aggregare o disaggregare, costruire proposte di singolarizzazione o di collettivizzazione dei valori.
La soggettività è transindividuale visto che è l’emergenza distintiva di un sistema di distinzioni che passa attraverso l’osservazione di altri attanti suscettibili di distintività e di attribuzioni distintive. La soggettività si apparta (si singolarizza) a partire dalla sua coalescenza distintiva nell’alterità; si apparta non appartenendosi. La soggettività diviene un costrutto regolativo e transindividuale, rispetto al quale vi sono solo riconoscimenti di personalità, anche se questa, per un tipico fenomeno di applicazione ricorsiva di osservazioni (detta rientro), diviene personalità istituzionalizzata (personalità giuridica, ecc.).
Ecco che entro i domini del sociale si può confinare a un rinvio distale opportuno il fondamento di identità (il me di ancoraggio), lasciandolo inquestionato (il me più appropriato è espropriato). È infatti all’interno dei domini sociali (arte, diritto, scienza, ecc.) che è possibile ricostruire, sul piano della semiosfera, delle osservazioni di primo ordine (è l’effetto della rinaturalizzazione dell’architettura discorsiva della cultura che ricostruisce il nostro ambiente come semiosfera). I domini sono quelli che consentono una rinaturalizzazione regolativa della visione culturale (doxa reificata), ma affinché ciò sia possibile è necessario trasformare la semiosfera in una totalità partitiva. Tale trasformazione tende a far perdere di vista l’ecologia generale della semiosfera e a garantire piuttosto una mera comunicazione funzionale, fondata su categorie oppositive; infatti, queste ultime si contrappongono alle categorie partecipative proprie di un’osservazione di secondo ordine e di una visione culturale che si auto-osserva come totalità integrata e totalmente interrelata con l’ambiente (semiosfera). Nella società post-moderna si può constatare in realtà una prevalenza di osservazioni di secondo ordine, ma ciò comporta, da un lato, la possibile dissoluzione dei confini propri a ciascun dominio (è ciò che è capitato all’arte nel momento in cui il concettualismo l’ha trasformata nella filosofia di sé stessa); dall’altro lato, fa passare gli attori sociali da un regime di autoascrizioni dell’esperienza a un regime di monitoraggio del sé agito quale terza persona in campo: l’esperienza viene assorbita dal gioco linguistico.
La duplicazione soggettiva (gettata – il me – e fittiva – il sé) si correda di una estroversione della significazione identitaria che passa attraverso l’osservazione degli altri come osservatori del sé, e viceversa. L’equilibrio intersoggettivo di memorie (quella del soggetto e quella del mondo) diviene equilibrio tra le forme di razionalità e le prensioni analogizzanti che nel collettivo si costituiscono.
Tra (a) la terzità mediatrice ancorata in ogni scenario percettivo, (b) quella di un dominio semiotico sempre terzo rispetto ai valori contrattati proprio della linguisticità e infine (c) l’idea di un terzo istituente che funge da garante su ciò che è socialmente valevole, deve essere ricostruita una saldatura teorica. È ciò che abbiamo cercato di abbozzare distinguendo, ma anche interconnettendo la dimensione mediazionale, quella mediale e quella mediumale della semiotizzazione dell’ambiente.
3.2. Cultura e semiosfera: effetti di vita e contingenza
3.2.1. Mettere in comunicazione il disparato
Il secondo compito che una sociosemiotica dovrebbe intraprendere è il confronto tra queste soggettività mediate (attori del sociale) e il divenire: l’iniziativa discorsiva, ribattuta verso l’esperienza in atto, possibilizza la tenuta di un progetto di valorizzazione intrapreso intradiscorsivamente. Ciò sottopone il fronte di valorizzazione a una contingenza ambientale e confronta l’attore sociale con il trattamento dell’incertezza: ciò che è in gioco è la tenuta dei propri archi di valorizzazione nella semiosfera.
Che la semiosfera eserciti un’azione (forze operanti) sull’attore sociale è indubbio; per esempio, una semiosfera “consumistica” tende a costruire una paratassi identitaria del consumatore, a creare una sorta di monodimensionalità valoriale ancorata all’economia. Si esce dalla riduzione attanziale dell’attore sociale a mero consumatore attraverso la biografia, attraverso il tentativo, cioè, di intersecare prospettive di valorizzazione, di suturare la paratattica del benessere attraverso una sintagmatica del progetto di vita.
La contingenza è dipendente dall’assegnamento dei simulacri discorsivi al divenire dell’ambiente in cui si è immersi. La semiosfera ha una sistematicità che nasce dalla co-enunciazione identitaria degli inter-attanti, dall’intersezione tra fattori di contingenza che finiscono per assettarsi e per dare luogo a una emergenza di sistematicità. I domini consentono una strutturazione preliminare delle identità, ma ci si limita a una paratattica identitaria fintantoché non vi è una destinalità che attraversa i domini e che reclama un’intersezione di valorizzazioni eterogenee. Alla mediazione dell’ambiente fenomenico, alla mediatizzazione dei linguaggi, si aggiunge una mediumalità, ossia la mediazione offerta dai domini che compongono la semiosfera come totalità partitiva. La mediumalità è un trasduttore di destini della valorizzazione (potrà ancora essere valevole qualcosa che è stato progettato o sancito dentro un dominio una volta che viene trasdotto in un altro?). La precarizzazione della tenuta del senso nel passaggio da un dominio all’altro (esso viene messo inevitabilmente in questione) è correlativa tuttavia di una proiezione diagrammatica dal dominio-source verso un dominio-target al fine di consentirne una ri-semiotizzazione: per questo Simondon parlava della trasduzione come di una proiezione di una struttura reticolare (rematica, potremmo dire) amplificante (ossia, generatrice di ulteriori semiotizzazioni).
Questa trasduzione ha un ruolo anche nella costituzione della soggettività; infatti, tutta l’individuazione nasce da una “fecondazione eterologa” tra inassimilabili (identità numeriche): per questo è trasduttiva, necessita cioè di una proiezione analogica, di una dose di figuralità. La trasduzione di Simondon non è concettualmente che un analogon del musement peirciano: si mette in comunicazione il disparato per consentire un gettito di senso differenziale cogente. Questa cogenza è la partecipazione, è l’inerenza collettiva.
Il problema è che i domini sociali non sono mai un ambiente per l’individuo; questi non riesce a metterli a distanza come un fattore di contingenza cui contrapporsi. I domini sociali preformano le identità del soggetto: l’individuo è fatto di una riduzione di contingenza, di una fiducia di sé che è mediata dalla memoria e dal reticolo di relazioni proprio di ogni dominio (vedi parallelo con Simondon 1964, p. 172).
L’individuazione di sé non avviene se non attraverso una circolazione estroversa di valori identitari. Potremmo parlare di una pluralizzazione e stratificazione degli involucri identitari, ma partendo dalla dimensione in group per ritornare verso quella out group. Non si parte da un’egologia solipsistica.
- Note de bas de page 25 :
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Cfr. Simondon 1964, p. 180 (forse si tratta solo di un passaggio ambiguo del testo).
Contrariamente a Simondon non si può parlare dell’aggregazione come di un supplemento di identificazione25, dato che tale aggregazione è costitutiva di una identificazione di sé. Non si danno che declinazioni di una costituzione semiotica bilaterale (sé/alter), e i cui effetti di senso (identità ristretta → piega psichica, e identità allargata → piega sociale) vanno gestiti nel quadro di un’economia della significazione.
La cultura dei diversi domini del sociale non è affatto coestensiva della semiosfera, perché questa è fatta anche dell’extrasemioticità di ciò che è già dominato, di ciò che è già preformatore di condotte, di disposizioni affettive, di concetti. La semiosfera rivela la sua eccedenza rispetto ai domini (arte, religione, diritto, ecc.) nel momento in cui si apre la loro archeologia fondativa, ossia la loro non fondatezza originaria. Ma le occasioni per intraprendere una tale ricostruzione archeologica sono il più possibile calmierate, se non scongiurate da un rinvio distale asintotico e imprendibile. Dove emerge allora davvero la semiosfera come totalità che include i domini e che non è coestensiva alla cultura, dato che nasce da una proiezione del discorsivo sull’ambiente?
3.2.2. Gestioni dell’indeterminazione
La semiosfera continua a proiettare la significazione in un circuito di comunicazione dove sono in gioco fattori di contingenza. Possiamo, in questa sede e provvisoriamente, indicare quattro gestioni tipiche dell’indeterminazione comunicativa con l’ambiente, che nemmeno i domini riescono a risolvere (anzi sono fattori che vengono reperiti costantemente come questioni aperte al loro interno): esse sono:
- Note de bas de page 26 :
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Naturalmente devono essere prese in considerazione anche le declinazioni negative di tali regimi di gestione dell’indeterminato (per esempio, fiducia/sfiducia).
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la fiducia;
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la credenza;
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l’armonizzazione;
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l’organizzazione26;
a patto di considerarle come fattori processuali, e non come sistemi. Questi quattro regimi di gestione dell’indeterminazione hanno uno stretto rapporto con quelli che in sociologia dei sistemi vengono chiamati media di controllo (potere, denaro: cfr. Habermas 1981) o mezzi di comunicazione generalizzati simbolicamente (Luhmann 1984), secondo una tradizione teorica che deriva da Talcott Parsons. Di primo acchito questa accezione del termine medium aprirebbe una quinta distinzione rispetto alle quattro che abbiamo già elaborato (mediazionale, mediale, mediumale, mediatico: cfr. § 1.5.). Ora, in primo luogo dobbiamo chiarire che quelli che i sociologi chiamano medium di controllo o di comunicazione simbolica individuano, spesso riduzionisticamente, il campo di valenze specifiche che qualifica un dominio sociale: il denaro per ciò che attiene al dominio economico, la verità per il dominio scientifico, il giusto per il dominio giuridico, il potere per il dominio politico, e così via. Le valenze, ossia ciò che fonda il valere dei valori, è un problematica che viene ereditata già dalla dimensione esperienziale della significazione; una tale eredità spiega come valenze e mediazioni sono questioni che devono essere distinte, dato che le prime pertengono anche all’emergenza di diagrammi di relazioni (primità) e al tracciarsi dell’esperienza (secondità). In tale prospettiva, non tutte le valenze che definiscono un dominio sociale sono mediazionali (cfr. Basso 2006d). In secondo luogo, a differenza di ciò che spesso si sostiene in alcune classiche posizioni sociologiche (cfr. Habermas 1981), le valenze che supportano i domini (in realtà plurime, e non uniche) non si sostituiscono a quelle elaborate su base discorsiva, ma anzi sono innervate da esse. Impossibile pensare che il potere si eserciti senza costruzioni discorsive o sostituendosi ad esse; le relazioni di potere sono già semiotizzate e dipendenti da giochi linguistici per cui sarebbe assurdo scambiare l’economicità comunicativa del potere (non deve dibattere le sue decisioni) con una supplenza della linguisticità.
- Note de bas de page 27 :
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Ciò è molto più euristico che ridurre le modalizzazioni che inquadrerebbero dei medium di comunicazione generalizzati simbolicamente in termini di codici binari come fa Luhmann (1984), ma del resto al tempo in cui scriveva il sociologo tedesco quello era il modello teorico-linguistico di riferimento. La sociologia dovrebbe oggi percepire la chance di potersi articolare con una semiotica che ha pienamente abbandonato la centralità della nozione di codice, per quanto non sia nemmeno ammissibile la sua totale liquidazione.
La sociosemiotica è interessata a cogliere i mass media (o media di diffusione, per usare la terminologia di Luhmann) come delle organizzazioni tecniche che ristrutturano la percezione dell’ambiente da parte dei domini e che entrano perciò in accoppiamento strutturale con le questioni mediali (su base esperienziale), mediazionali (su base discorsiva), mediumali (sulla base dell’autonomizzazione tentativa dei domini sociali). In secondo luogo, la sociosemiotica non ha bisogno di uscire da un paradigma narrativo e interpretativo per spiegare i legami valoriali tra partner comunicativi, ma percepisce come esigenza esplicativa il chiarimento dei regimi di gestione del senso. La sociosemiotica persegue, infatti, una teoria ecologica delle valorizzazioni al fine di rapportare la descrizione delle forme di vita alla semiosfera in cui dimorano e che non è mai riducibile a uno specchio della cultura che le innerva (cfr. § 1.6). La gestione del senso non è riducibile a questioni di modalizzazione delle relazioni comunicative (es. potere), né a tematizzazioni di ruoli attanziali che qualificano legami sociali (es. amore). Nel primo caso le modalizzazioni restano dipendenti da una configurazione che ne spiega l’enazione, vale a dire la loro emergenza rispetto a un pattern di relazioni percepite e da trasformare27. Nel secondo caso la generalizzazione di ruoli tematici è funzione di una mediazione discorsiva, ossia dipende da prassi e norme linguistiche. Per una sociosemiotica è molto più urgente porsi il problema esplicativo di come modalizzazioni e ruoli tematici vengano gestiti, di come le valenze dei vari domini vengano convertite le une nelle altre, di come ogni valenza abbia bisogno di confinare il terreno della sua messa in questione, di come ogni valorizzazione sia soggetta a una temporalizzazione, ossia a un punto critico che ne media la tenuta nel tempo (non abbiamo dizione migliore che quella di orizzonte destinale della valorizzazione).
In chiave esplorativa abbiamo qui indicato quattro forme di gestione della valorizzazione in rapporto all’indeterminazione semiosferica; esse innervano e mediano anche quelli che la sociologia dei sistemi ha chiamato media di controllo o di generalizzazione simbolica.
- Note de bas de page 28 :
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Cfr. Basso (2006a).
Qualsiasi regime prassico venga prediletto o assunto (dal protocollo all’escogitazione28), esso riceve un inquadramento semantico dall’accoppiamento della forma di vita che lo esprime con la semiosfera. Infatti, ogni regime prassico può essere sostenuto o compromesso nella sua sensatezza sulla base di fiducia, credenza, armonizzazione, organizzazione. Ciò spiega perché una forma di vita deve gestire localmente dei passaggi di regime, abbandonando per esempio un protocollo validato per affidarsi a una escogitazione locale che deve scommettere su aspetti della semiosfera non ancora testati.
- Note de bas de page 29 :
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Cfr. Luhmann (1968).
La fiducia è una riduzione delle possibilità che rende l’alterità interagente compartecipe di una comune contrapposizione all’indeterminazione dell’ambiente29. L’orizzonte del fiduciario è parcellizzazione del divenire nella computazione critica di mosse che, se non altro a livello locale, risultano intersoggettivamente pertinenti. La problematica della fiducia non emerge, tuttavia, solo nella prospettiva del divenire, ma si radica anche in un accoppiamento di memorie soggettali e oggettali. La familiarità con il mondo-ambiente è valevole solo se questi tiene memoria dei suoi stati precedenti. Il principio stesso di razionalità semiotica che innerva una forma di vita antropica è in grado di reggere la validazione delle proprie valenze identitarie (coerenza, coesione, ecc.) solo perché si coglie accoppiata a una razionalità, a un tracciarsi memore del divenire del mondo-ambiente.
La credenza è invece una totalizzazione di campo, un orizzonte che bypassa la contingenza e la fiducia nel divenire o nell’appena accaduto. È uno scavalcamento di orizzonte, un orizzonte che non si sposta (nemmeno) con il divenire.
L’uomo che crede si difende, o vuol cambiare di gruppo, è in disaccordo con altri individui o con sé stesso [...]. La credenza ha valore come compensazione (Simondon 1964, p. 181).
La gestione compensativa della credenza si offre usualmente rispetto a uno scacco della fiducia; le motivazioni d’azione non possono trovare giustificazione nella percezione in atto dell’articolazione tra propria forma di vita e semiosfera. Ma la débacle non è banalmente progettuale, ma corrode le valenze stesse (e i domini da cui provengono) con cui si argina la sensatezza delle proprie condotte. La credenza sfida così il percepito a denunciare il suo carattere ingannatore e svilente, elaborando un quadro discorsivo (per esempio un racconto mitico) che possa assumere, una volta proiettato a rimodellizzazione opportuna dell’ambiente, un’aura di impareggiabile concretezza (cfr. Geertz 1973, p. 141). A quel punto, sul piano dell’esperibile, non vi saranno, eventualmente, che epifenomeni locali (dettagli) che si porranno come pertugi in grado di fare intravvedere la “veracità” dell’aderenza del presente a una distalità fondativa (o meglio, tali pertugi sono in grado di costruire degli effetti di veridizione rispetto alla credenza).
- Note de bas de page 30 :
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Basso (2007b).
L’armonizzazione è una sorta di melodia dei comportamenti che emerge come un pattern da cellule ritmiche indipendenti quanto a iniziativa. Esistono armonizzazioni anche distopiche, come quella offerta dal kitsch30, dove lo sguardo del soggetto si sofferma (selezione valorizzante compulsiva) su un oggetto in realtà dequalificato e squalificante. L’armonizzazione è una gestione dei rapporti tra forme di vita e semiosfera di tipo epifanico; la sensatezza delle pratiche è locale e i regimi di valorizzazione, più che selezionati, trovano localmente una congruenza con l’offerta della semiosfera. L’occasionalità e la paratassi di queste articolazioni tra forma di vita e semiosfera non riescono a saldare nel tempo valenze che possano divenire regolative anche nei periodi disarmonici, a meno che l’armonizzazione non si dimostri diffusa. In quest’ultimo caso, essa si distribuisce e comprova su un’intera “società” di soggetti e oggetti, assumendo così un profilo “concertistico”. Si deve prevedere un tale corollario proprio perché l’identità di qualsiasi attore sociale è multidimensionale, e in particolare transindividuale (cfr. 3.1.); ecco allora che l’armonizzazione che rivela una aisthesis sociale costruisce una saldatura tra tutti i profili identitari. Eppure, come la fiducia, l’armonizzazione pare essere una gestione dell’indeterminato che conduce la forma di vita più verso l’individualizzazione che verso la collettivizzazione. La sua paradossalità è già insita, del resto, nel fatto che l’armonizzazione non è preprogrammabile e dipende sempre da un quadro olistico. In questo tipo di articolazione tra forma di vita e semiosfera le valenze percepite sono quindi reggenti rispetto a quelle elaborate discorsivamente.
L’organizzazione risponde di un trattamento economico dell’incertezza, il che la rende adatta ai domini sociali, affinché questi possano rispondere ai loro caratteri antisistematici, i quali sono stati sottovalutati da approcci troppo legati a una teoria dei sistemi dinamici. L’organizzazione è ciò che spiega l’eteronomia dei domini visto che deve garantire loro una comunicazione con ciò che per essi è ambiente e ciò indipendentemente dai valori su cui essi si distinguono. È vero che nelle organizzazioni le pratiche tendono a ritualizzarsi, divenendo procedurali: ostentano protocolli che schermano la conduzione del senso rispetto ad osservazioni di secondo ordine. Si autoesibiscono come un parametro di razionalità inquestionabile.
Se si volesse dare una illustrazione alla nostra argomentazione assumendo la schematizzazione offerta da un quadrato semiotico, essa apparirebbe nel seguente modo:
3.2.3. Organizzazione e cecità
- Note de bas de page 31 :
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Citato in Luhmann (2000, p. 199).
I domini si scontrano con fattori di contingenza esogeni (l’ambiente) e endogeni (i sistemi psichici e la loro pluriafferenza a domini differenziati). L’organizzazione emerge come problema proprio lì dove i sistemi sociali (che infatti preferiamo chiamare domini di gestione di valori) dimostrano la loro costitutiva non chiusura e l’incapacità di entrare in equilibri metastabili semplicemente per via di autoriferimento. Certo, anche le organizzazioni, con il loro tentativo di costruire una agentività collettiva, fondata su una ridistribuzione e complementarietà delle competenze dei partecipanti, non mancano di ricercare e ricevere una autodescrizione discorsiva. Solo che l’autodescrizione delle organizzazioni non è che definizione di un campo di sensibilizzazioni/desensibilizzazioni specifiche rispetto a una conformità e a una devianza che sono volutamente intrasparenti ai valori trattati. C’è un anti-illuminismo specifico delle organizzazioni, vale a dire esse assumono un paradigma dell’oscurità (spegnimento dei riflettori sulle valenze del dominio su cui si opera) mentre pretendono di parlare chiarissimo (esplicitazione delle loro prassi e monitoraggio di esse). L’organizzazione non mira ad alcuna convertibilità dei valori mediali di cui si serve per poter funzionare: ciò che conta è una pura moneta comunicativa che garantisca al dominio sociale in cui presta servizio di poter rispondere a fattori di contingenza ambientale (endogena o esogena). L’organizzazione risponde dell’esigenza di decisione, la quale non riesce quasi mai ad essere presa dentro un paesaggio di valori computabili e commensurabili. L’organizzazione è un catalizzatore deittico e attanziale affinché sia assumibile e ascrivibile una decisione; contemporaneamente deve (può) restare non ulteriormente questionabile il modo in cui ci si è determinati di fronte all’indeterminato. L’organizzazione risponde di una tattica rispetto alla provocazione dell’indeterminabile. L’indeterminabile bara solo quando si rivela a posteriori leggibile (destino) o quando finisce per far trapelare una serie di autoaffezioni consecutive dei sistemi, come nel caso delle consecuzioni fatali di eventi (seduzione reciproca tra accadimenti). Fintantoché l’indeterminabile resta effettivamente incomputabile, esso giustifica la risposta delle organizzazioni alla sua costitutiva provocazione. La “cultura organizzativa” non ha nulla a che fare con la cultura del dominio in cui opera; la prima si confronta con la semiosfera, con una extrasemioticità a beneficio del dominio, della necessità di quest’ultimo di non cadere in un’impasse tutte le volte che si trova di fronte all’indeterminato. L’organizzazione è tecnica e deve ri-mediare a ciò che il dominio, cui afferisce, ha lasciato inevaso, ossia fuori delle proprie maglie autodefinitorie e di controllo valoriale. Una tecnica organizzativa particolare è quella dei mass media che vanno a ri-mediare lo spazio sociale affinché sia determinabile ciò che resterebbe indeterminabile (la connessione con il distale, l’opinione pubblica, ecc.). Tuttavia, la mediatizzazione del sociale costruisce una sensibilizzazione specifica ai processi in parallelo, alle iniziative distribuite, alle effervescenze ubique nella semiosfera. Nessun quadro sequenziale della decisione può essere elaborato, ma solo una mappatura, uno spazio tabulare ove si monitora l’immagine della propria iniziativa rispetto al ristrutturarsi di un paesaggio che vive di un pullulare di iniziative concomitanti o comunque imminenti. L’organizzazione diviene sempre un calcolo di cecità; se sofistica, la cultura organizzativa vanta un perseguimento di logiche incidentali o l’assecondamento di trend che dovrebbero emergere dal brusio incoordinato della semiosfera. In ogni caso, il blocco della semiosi - e in primo luogo dell’autointerpretazione - è funzionale alle organizzazioni, visto che garantiscono osservazioni di primo ordine rispetto a un paesaggio, una semiosfera che si costituisce su un’osservazione di secondo ordine. Tale paradosso si esprime nel fatto che la cultura organizzativa si basa su «premesse decisionali sulle quali non si può decidere» – per usare la formula di Dario Rodriguez31.
Il modo di accoppiamento specifico che l’organizzazione garantisce al dominio sociale in cui è implementata è il più «stretto» possibile (Luhmann 2000, p. 300), ossia è registrato su uno spazio semiosico (interpretativo) il più limitato possibile (desensibilizzazione a fasci di valorizzazione trasversali rispetti all’obiettivo performativo di base). L’ideale dell’organizzazione è un circuito di risposte decisionali su elaborazione “macchinica” di dati, ovvero quanto più possibile protocollare e calcolabile. Il paradosso è che tanto più c’è indeterminazione tanto più l’organizzazione giustifica la propria “macula caeca”; ma tanto più il circuito d’accoppiamento con l’ambiente si fa stretto (interpretativamente limitato alla performatività decisionale), tanto meno l’organizzazione sarà plastica all’accidentale cambiamento di valenze nell’ambiente, divenendo così vulnerabile. Con ciò non si vuole negare qualsiasi plasticità dell’organizzazione o la sua capacità di apprendimento nel corso della sua immersione nell’ambiente; si vuole piuttosto sottolineare che la gestione del senso garantita dall’organizzazione insisterà nelle sue procedure fino alla loro estensione regolativa massimale, ossia fino al loro punto di rottura. In questa prospettiva, un’organizzazione si vota all’invalidazione radicale dei suoi fondamenti strutturali (punto di catastrofe) almeno quanto rigetta competizioni con forme di razionalità eteronome (è pura organizzazione proprio perché inaccetta di rendere commensurabili i propri principi).
Per tale ragione l’organizzazione mira a risolversi in tecnica; le decisioni non si auto-osservano più in quanto tali, e lo stesso ruolo attanziale di assumerle è “blindato” rispetto alle altre sfaccettature identitarie dell’attore sociale decisore. Un processo organizzativo “oliato” è visto come “meccanismo”, la cui attivazione non si sofferma sulla conoscenza diretta della significatività dei valori su cui opera e il cui ripristino d’efficienza di fronte al “guasto” segue parametri certi di equivalenza funzionale tra risorse disponibili, anticipatamente calcolate (ivi, pp. 304 e ss.).
La tecnica organizzativa finisce per risolvere lo iato esistente tra programmi di base e programmi d’uso, potendo persino invertire la reggenza dei primi rispetto ai secondi, ossia dei fini in rapporto ai mezzi. Un modello organizzativo che si percepisce come perfettamente “oliato”, esaurito un ruolo all’interno di un dominio, può andare alla ricerca di uno scopo, così come un capitale disponibile può inseguire una “ragione sociale” in cui essere investito (ivi, p. 19). Che l’accesso al senso organizzativo possa partire tanto dagli scopi quanto dai mezzi indica come le valenze regolative non assumano più un ruolo di mediazione tra valenze esperienziali e discorsive, ma finiscano per autoriferirsi, per divenire “moneta” che non esige più alcuna conversione dato che tutto (input e output) è già “tradotto” in un piano monodimensionale: un’economia, che è innanzi tutto “economia di ragioni”, visto che l’intelligenza ecosistemica è invece la multivisione delle “linee di principio”, su cui si fondano i domini sociali, fino al punto limite del loro tramonto, della loro débacle fondativa.
- Note de bas de page 32 :
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Permettiamoci qui una piccola digressione. La figura dell’uomo-medium coincide con quella dell’uomo medio; vale a dire, la rincorsa alla mediocrità è funzione del monitoraggio dei benefits identitari differenzianti e del conseguente tentativo di ritrovare un minimo comune denominatore, costi quel che costi. Al pettegolezzo non si crede, ma può funzionare come “moneta” regolativa per dequalificare il capitale azionario altrui sul mercato identitario (cfr. Basso 2005b). L’emblema dell’uomo-medium è stato offerto da La mort en direct di Bertrand Tavernier (Fra/Ger/Gbr, 1980); a Roddy, il protagonista di questo film, viene impiantato un dispositivo elettronico sull’occhio in modo tale che egli possa trasformarsi in una sorta di cameraman dotato di un medium totalmente “trasparente”. Affinché l’uomo-medium possa garantire una trasmissione ininterrotta (il segnale dal suo occhio arriva direttamente al network televisivo e quindi diffuso in diretta), il dispositivo prevede che egli non possa dormire, pena la perdita della vista. Incaricato di “riprendere” gli ultimi giorni di vita di una malata terminale (Katherine), Roddy si trova ad essere una pedina dentro una elaborazione di un progetto televisivo che ingloba la “realtà” degli eventi e delle situazioni al fine di garantire, allo spettatore, una passione del monitoraggio. Roddy è spiato ed è una spia, e la sua vita va a coincidere con una “inquisizione televisiva” ossimoricamente restituita dalla luce che il protagonista è costretto nottetempo a spararsi negli occhi per evitare l’accecamento. Ciò che Roddy deve offrire sono dei movimenti funzionali alla restituzione di “buone immagini” e delle reazioni medie, ossia quel tanto che basta a garantire una totale trasparenza enunciazionale e una verosimiglianza narrativa. Anche questa volta, come nell’Amleto di Carmelo Bene (cfr. § 1.2.3.), la critica alla mediatizzazione della società si esplica in una ostensione di intermediaticità (attraverso schermi televisivi, computer, cinema, falsi specchi, cartelloni pubblicitari, ecc.); essa rivela, di passaggio in passaggio, la deformazione insita in ogni “filtro” mediatico.
Dietro una cultura organizzativa si nasconde la deriva possibile di una cultura ridotta ad organizzazione, soprattutto quando essa si implementa e identifica con una tecnica massmediatica. La comunicazione appare ubiqua, ogni tematizzazione di valore è tendenzialmente possibile, ma ogni discorso, ogni esperienza diviene “moneta” regolativa di una economia intransitiva; ecco che alcuna convertibilità è infine possibile, per cui qualsiasi rigetto o assunzione di valori enunciati è puramente posizionale, vale a dire essa non chiama direttamente in causa l’identità degli attori sociali (sia essa imputata o autoascritta). Gli scopi divengono equipollenti e per il resto ci si appassiona al monitoraggio delle figure identitarie disponibili e differenzialmente più performanti: è ciò che chiamiamo moda, ovvero quel dominio sociale che ha ridotto la cultura espressa dagli altri domini a pura organizzazione regolativa di profili identitari (soggettali e oggettali32).
L’organizzazione resta spietata fintantoché ad essa non si assegna limitatamente un apporto periziale, rispetto al quale i cittadini, nel plesso di valorizzazioni da cui sono attraversati, riescono a esercitare una responsabilità. Ciò è quanto potrebbe difendere il dominio politico da una deriva tecnocratico-organizzativa. L’aumento della centralità dell’organizzazione non fa che siglare uno schiacciamento dei valori comunicabili su quelli regolativi, ossia puramente mediali, anzi tecnicamente mediatici. La loro sopravvivenza è darwinistica dato che finiscono per fissarsi quasi come un patrimonio genetico, impermeabile a costrutti di senso che seguono altre genie. Più i valori regolativi restano senza cauzione e afferenti alla stretta performatività dell’organizzazione (essa ristruttura le pertinenze valoriali per l’introduzione di nuovi regolamenti, non per sostituzione di principi di valorizzazione), più assistiamo a una parificazione di fattori detti intangibili (le marche come le competenze degli impiegati di un’azienda), i quali comunemente non hanno più un corpo esigibile, un me che tenga fede a un radicamento identitario esterno alla visione organizzativa e alla mediatizzazione (come si vede la vecchia paura di essere ridotti a “numero” non è la più temibile delle alienazioni).
La tecnica organizzativa che passa per i nuovi media tende a reificarli con la totalità dell’ambiente e fare del corpo intero un’interfaccia, in modo da consentire un regime immersivo. In realtà, si cerca di significare il medium come ambiente facendo in modo che esprima dei fattori di contingenza, come nelle arti elettroniche che prediligono la frammentazione, l’indeterminatezza, l’eterogeneità (Bolter e Grusin 2002, p. 56). Il virtuale deve assomigliare a un ambiente di vita. Generalmente l’arte tende a disoccultare la presenza del medium e il passaggio possibile tra forme di interfaccia. Per contro, l’unione tra la de-programmazione relativa dell’ambiente mediativo operata dall’arte (la contingenza dell’ambiente mediale) e la trasparenza dell’interfaccia perseguita dagli ingegneri (immersione) è ciò che sembra prospettare una costruzione di un ambiente virtuale che cancella la percettibilità della propria mediazione.
3.2.4. Spunti metodologici
- Note de bas de page 33 :
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Le critiche verso uno riduzionismo strutturalista, con la sua pretesa di mappare un piano di condizioni metastoriche e metasocietarie, è espresso già in Eco (1968, 297).
Una sociosemiotica non può arrendersi alla semplice contemplazione teorica di attanti collettivi; deve chiarire le diverse nature che essi possono assumere, la loro emergenza, il loro autocostituire un corpus competenziale finalizzato a una possibilizzazione dell’agire e a investimenti/gestioni di senso specifici. Il rischio di schiacciare la sociosemiotica su una teoria della cultura è insito nella visione di una autoriproduzione e trasmissione di sapere memoriale; è ridurre l’agire sociale ad archivio, se non a scelte strutturali del sistema e a riassetti di pattern culturali attraverso mosse discorsive33. La cultura diviene il retroterra di senso, lo stock di significati manipolati da ogni interazione sociale, e il punto di vista diviene la trasmissione culturale stessa. Ciò non descrive né la relazione tra la forma di vita e la semiosfera né le relazioni tra le forme di vita. Ciò non descrive un’ecologia delle valorizzazioni, la necessità di coimplicare nella propria semantizzazione la differenziazone dei valori identitari, la loro circolazione mediata e contingente, l’arco destinale di qualsiasi gettito di senso, la necessità di aggrapparsi a fiducia, credenza, armonizzazione o organizzazione. La visione culturalista risulta irenica, tacitamente regolativa, mentre i media linguistici, sbalzati dall’organizzazione strutturale fittiva verso l’ambiente, finiscono per introiettare il non strutturato, l’extrasemiotico, il contingente. La forma di vita è poi all’intersezione di prospettive di valorizzazione plurime, la cui compossibilità o selezione è sempre questione di risoluzione locale, come il problema decisionale ben illustra.
Ciò che articola le forme di vita con la semiosfera sono valori regolativi che oltrepassano i valori istituiti e controllati dai domini. Nel rapporto tra forme di vita e semiosfera emerge la vulnerabilità delle pratiche e dei domini nel loro gestire il senso. Emerge soprattutto un’ecologia della valorizzazione dove gli equilibri metastabili delle forme di vita costringono al ricorso a storni del capitale valoriale investito in scenari pragmatici chiusi (in dispositivi di senso istituzionalizzati). La risemantizzazione del “già istituito” si pone sempre nel segno di una stilizzazione, di una deformazione coerente, di un branding extension del self, solo che questo è l’effetto della circolazione dei propri marchi d’identificazione.
La semiosfera, dal canto suo, mette in gioco una comunicazione tra livelli sistemico-identitari diversi dove gli incassamenti e i frame si dischiudono, si appiattiscono a favore di un footing, di una circolazione en plein air. Ma è più di un footing tra frame culturali, una betweeness che apre comunicazione lì dove per un’organizzazione vi era solo un ambiente che esprimeva contingenza. Tutto ciò che è pensato come sacro o come riserva del valevole, una volta estinto o saturato in situazione, è asintoticamente rinviato, per comunicazione distale, verso e oltre la periferia semiosferica.
- Note de bas de page 34 :
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Così come in linguistica e semiotica il denaro è stata visto come un analogon o una metafora discutibile del valore linguistico, in sociologia è stato visto come un controverso modello per concettualizzare tutti i tipi di medium. In particolare chi ha fatto maggior affidamento alla tradizione economica nella sua elaborazione concettuale del medium-denaro è stato uno studioso del calibro di Talcott Parsons. Per una critica della teorizzazione dei media sulla base di una generalizzazione delle proprietà del denaro si veda Habermas (1981, p. 894 e ss.).
Abbiamo lungamente parlato di valenze regolative come quelle che trovano radicamento nella semiosfera, ma ora si precisa che sono tali proprio perché si confrontano con ciò che eccede quest’ultima (e in particolare i domini che le elaborano). Le valenze regolative non sono riducibili a uno statuto puramente discorsivo-linguistico, perché esse preformano lo spazio sociale vissuto, andando a correlare i valori differenziali in lingua (messi in variazione dalla parole) con la fluttuazione parallela delle valorizzazioni identitarie che individuano gli attori sociali (siano essi soggetti o oggetti). La deontologizzazione radicale operata da una prospettiva semiotica sulla significazione sociale non può accontentarsi di cogliere i territori discorsivi e la diffrazione delle elaborazioni testuali dei valori; non può confinarsi all’interno dei giochi linguistici, perché è data una pluralità di domini di senso la cui mancata autosufficienza significante (essa si fonda su un’eteronomia fondativa: esperienza/discorso) costringe a una inter-referenza, a una supplenza reciproca nel radicamento del valere dei valori. In questa prospettiva la metafora saussuriana del valore linguistico come valore economico non è affatto paradossale, dato che ripristinerebbe una referenzialità, a scapito dell’autonomia semantica della langue. È certo vero che il valore economico è connesso a un controvalore, ma – come osservava lo stesso Saussure – anche quest’ultimo (la quantità d’oro in cui il denaro34 può essere convertito) subisce delle fluttuazioni di valore (Saussure 2002, p. 333). Le convertibilità di valenze autonomamente in divenire è fondamentale per costruire, accanto all’autoriferimento dei giochi linguistici che supportano i domini sociali, anche delle connessioni eteroreferenziali (per quanto si debba sempre ribadire che l’accesso a queste ultime è mediato dagli spazi discorsivi).
Dovremo qui aprire un capitolo metodologico per trovare livelli descrittivi dell’ancoraggio delle forme di vita nella semiosfera e la loro gestione delle valenze. La semiosfera si pone rispetto alle forme di vita come quadro dialettico tra un’autoriflessività culturale ripartita per domini e un ambiente non ancora coercibile e che esprime fattori di contingenza.
Ecco allora quattro esigenze descrittive.
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La forma di vita deve essere descritta nella sua articolazione con l’indeterminazione ambientale della semiosfera, e tale indeterminazione è sia punto di dissoluzione di consistenza semantica (non-senso), sia base per un’agentività sottesa da una dialettica tra operativo e operabile, tra semiotizzato e non semiotizzato (Lotman).
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La semiosfera deve essere descritta come ambiente rispetto al quale produrre una metastabilità identitaria che circuita attraverso una dialettica tra transindividualizzazione e personalizzazione (agli estremi abbiamo delle vertigini, alienazione nel sociale e solipsismo). Dovremmo in questo senso descrivere livelli e gradienti di consistenza attoriale, lungo processi di aspettualizzazione e riformulazione identitaria.
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La semiosfera deve essere descritta come uno spazio ecologico di valorizzazioni che si fonda sulla loro stessa polemologia (è il differenzialismo proiettato verso la semiosfera).
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La semiosfera deve essere descritta come un sistema di co-enunciazioni, dove all’agire comunicativo si uniscono risonanze, echi che costruiscono gerarchizzazioni locali delle iniziative di semantizzazione, ma anche improvvise alienazioni o soverchiamenti. Alla costruzione “multicanale” del senso mediale corrisponde localmente la costruzione monodimensionale dell’organizzazione, che salda obiettivi performativi a osservazioni di primo ordine indipendenti dai valori trattati. È ciò che assegna ruoli attanziali di puro tramite, di pura mediazione rispetto alla necessità di ridurre la complessità e garantire delle decisioni.
3.2.5. Traduzioni tra culture e pensiero critico
Cosa succede quando si intersecano semiosfere? Non è immediatamente un intersecarsi di culture, di domini culturali, di pratiche, di testi. È incontro tra ambienti di vita. Tra gli effetti di senso e gli effetti di vita c’è la contingenza della ricezione, della gestione comune. La proiezione dei propri domini istituzionalizzati di circolazione del senso impone reciprocità di riconoscimenti o distinzioni d’applicazioni (divisioni giurisdizionali), mentre la fiducia, la credenza, l’armonizzazione, l’organizzazione (e i loro contrari) sono vettori d’estensione, di protensione o meno verso l’altro non ancora tradotto a sé. L’intersezione tra semiosfere costruisce un effetto terra di nessuno, nel senso che l’evento di tale intersezione non è, per ciascuna, che un allargamento e differenziamento interno dell’ambiente, tra l’altro correlativo di un raccorciamento del distale (il radicalmente altro si è fatto prossimo). Tale intersezione è un aumento di turbolenza interna, ma anche un alto fattore di produttività comunicativa e di rideterminazione identitaria. La reazione delle culture è sempre après coup rispetto all’intersezione di semiosfere: l’irregolarità semiosferica accetta le turbolenze in maniera ben diversa dall’intaccamento di valori regolativi dei domini non riconosciuti dalla cultura altra.
- Note de bas de page 35 :
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Rispetto a una teoria dei sistemi sociali (Luhmann), riconosciamo una chiusura autopoietica (se non altro tentativa) solo alle organizzazioni; per questo sottolineiamo come la radicalità delle nostre argomentazioni è strettamente funzionale alla caratterizzazione di una purezza organizzativa che resta per lo più idealtipica. Per contro, i domini sociali, entro cui le organizzazioni operano, non possono essere ridotti a “sistemi chiusi” dato che essi, dipendendo dall’autointerpretazione del sociale e delle sue basi fondative, si costituiscono secondo una moltiplicazione degli accessi al senso e una conseguente plurisotopia identitaria (ogni livello sistematico di identità deve ricorrere a qualcosa di esterno per poter giustificare la propria “personalità” sociale; e la personalità è sempre una gestione dei profili identitari collocati dentro accoppiamenti sistema/ambiente diversi, cfr. Basso 2002). Del resto, il paradosso dell’osservazione di secondo ordine, propria dei domini sociali, consta nel fatto che questi ultimi elaborano categorie partecipative rispetto a un “tutto” che resta, in larga parte, un ambiente ancora non testato e in ogni caso sempre in divenire (tale divenire incede secondo processi non solo causalisticamente indeterminabili, ma anche sottoposti a una continua fluttuazione nella loro determinazione semiotica).
- Note de bas de page 36 :
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Cfr. Jameson (1991). Recentemente il teorico del postmoderno si è confrontato con il pensiero di Luhmann, anche se in maniera piuttosto riduzionista (cfr. Jameson 2002).
- Note de bas de page 37 :
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Cfr. Luhmann (2000).
Tuttavia, il ruolo dell’organizzazione resta specifico: essa vede l’ambiente non come ciò che esprime una contingenza pura (l’indeterminato che deve rendere determinato); essa trasforma l’ambiente nello sfondo di emergenza di organizzazioni distali che mascherano la loro fondatività, il loro controllo e soprattutto le loro ambizioni (più ci si affida a una “purezza35” organizzativa delle istituzioni sociali più l’ambiente assumerà un alone “cospirazionale”, come ha rilevato Fredric Jameson36). Gli interstizi del sociale, con la loro cultura organizzativa che ottimizza la decisività degli interventi rispetto alla fluttuazione dei valori identitari, sottraendola all’emotività pubblica, finiscono per proporsi come un dispositivo autoregolativo che tacitamente prospetta l’inappartenenza dell’altro, presidiando delle esigenze di espulsione37.
Impegnata nella disoccultazione delle fondazioni valoriali dei domini (il re è nudo), la cultura postmoderna occidentale si è dimenticata di far emergere i suoi dispositivi ciechi, le organizzazioni, il cui futuro risulta certamente più gestibile e meno emotigeno del destino sociale. Mentre l’arte veniva ridotta a poetica, a filosofia di sé stessa, alla sua morte, l’artista raggiungeva una posizione indiscutibile del suo ruolo nel Mondo dell’Arte: il dominio “arte” si riduce alla sua organizzazione. Il management degli intangibili (concettualismo, nel caso dell’arte) ascrive all’organizzazione la capacità di saper essere decisiva, eludendo qualsiasi estroversione dell’ulteriormente decidibile, qualsiasi biografia che riapra lo snodo di valorizzazioni multiple, di un progetto di vita. Allo stesso modo l’organizzazione delle relazioni interculturali svuota spesso la posta del confronto, assegnando a ciascuno un’autodeterminazione identitaria che resta poi inesigibile, se non come moneta regolativa, come diversità simulacrale.
E così il nostro discorso teorico svela infine apertamente la sua vocazione critica, essendo quest’ultima la sola cosa che salva le scienze umane dall’essere puramente un sapere organizzato tra gli altri.